Si legge e si sente da più parti, addirittura negli interventi in Parlamento di chi fino a ieri contestava l’ex Presidente della BCE, l’auspicio di avere Mario Draghi come Presidente del Consiglio. Certo, a leggere il suo articolo sul Financial Times vengono brividi di rabbia a constatare l’abisso che c’è tra le sue analisi, argomentazioni e ricette e tutto quello che quotidianamente siamo costretti a sorbirci da parte della quasi totalità degli esponenti politici di governo e di opposizione. In momenti come questi non è il caso di fare polemica. Dobbiamo fare quadrato e scollinare. Possiamo però riflettere su come attrezzarci a combattere la seconda battaglia, quella della recessione economica che sarà molto forte anche perché dovrà essere portata avanti da un Paese, leggere a questo proposito l’articolo illuminante del Prof. Petretto, che dal punto di vista dei conti pubblici è estremamente debole. Cosa serve in questi frangenti? Certo, uomini giusti il cui valore e la cui preparazione sia unanimemente riconosciuta e politiche appropriate ma serve anche un clima culturale, nel Paese, che sia in sintonia con le scelte che devono essere fatte e con il leader che sarà individuato.
Nella situazione attuale Draghi e le sue politiche troverebbero il necessario consenso parlamentare? E nel Paese, oggi, c’è un clima culturale che vada nel senso indicato? Noi crediamo di no. Un esempio. Politici e giornali, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno riportato con enfasi l’articolo di Draghi mettendo l’accento sul fatto che bisogna aumentare il debito pubblico. Non hanno detto niente, o quasi, sulla frase che completa il discorso “la questione chiave non è se, ma come”. L’omissione non è casuale. È il sintomo appunto di un’ opinione comune.
Da sempre in Italia prevale una visione statalista che individua nello Stato il soggetto che “deve” risolvere i problemi di tutti. Corollario di questa concezione il fatto che si parla sempre di diritti e mai di doveri e la convinzione che le imprese siano soggetti economici votati al profitto del padrone e non, anche, al benessere e allo sviluppo generale. Da qui la necessità di lacci e lacciuoli che tengano a freno l’individualismo egoistico degli imprenditori, l’alto livello delle tasse e l’asfissiante controllo burocratico sulla vita di ognuno di noi. La responsabilità non è mai individuale ma sempre di “qualcuno”, i poteri forti o l’Europa, che impediscono lo sviluppo e il progresso del Paese.
Gli ultimi due governi e l’ascesa dei 5Stelle, si pensi a Quota100 o al reddito di cittadinanza, hanno ancora aumentato questo comune sentire. È allora pensabile che questa impostazione culturale, che non è solo del governo ma anche dell’opposizione e di gran parte della stampa, possa sostenere la politica di Draghi?
Inutile nascondersi dietro un dito. In questa legislatura, con la maggioranza giallorossa o con una di unità nazionale, non c’è la minima possibilità di avere un premier come Draghi.
Quindi se partiamo dall’assunto che per salvare l’Italia dalla crisi economica post-virus servirebbero una personalità come quella dell’ex Presidente della BCE e una politica come quella indicata (vedasi in altro articolo i 10 punti di Draghi) c’è una sola strada davanti a noi: mandare a casa questo Parlamento e tenere nuove elezioni. L’obiezione è scontata. Non c’è nessuna garanzia che votando si avrebbe un quadro politico diverso. Perfettamente vero. Ma qui la speranza è che la crisi del coronavirus faccia entrare in campo fattori nuovi e diversi: la consapevolezza che uno non vale uno e che al governo ci vogliono persone competenti, la convinzione che le forze politiche affini devono stare insieme al di là del protagonismo di capi e capetti, la necessità di avere candidature di persone di valore, l’indispensabilità di un forte impegno personale di tutti.
Se poi nemmeno la lezione coronavirus è servita e se l’elettorato preferisce ancora i venditori di fumo, allora sia quel che sia.
Anche se grilli parlanti, avremo almeno la soddisfazione di aver fatto tutto il possibile.
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