A seguire i notiziari tv ho imparato che i cicloni tropicali, che nella fase di formazione sul mare assumono una potenza impressionante, spesso subiscono nel loro procedere verso la terraferma un processo di decadimento e di rapido indebolimento sia perché incontrano i cosiddetti “venti di sbarramento”, che rallentano la circolazione ciclonica nei bassi strati, indebolendola sensibilmente. sia per il “landfall” del ciclone che avviene quando il “cuore caldo” della tempesta tocca la terra ferma e penetra verso l‘entroterra, con una potenza assai contenuta, con conseguente declassamento a depressione o perturbazione.
Temo che il governo Draghi stia vivendo lo stesso processo di trasformazione: invocato come l’ultima riserva della Repubblica, è stato caricato di compiti sovrumani, contrastare la pandemia e aiutare il paese a risollevarsi e ritrovare la strada della crescita approvando ed avviando la realizzazione di un Recovery Plan di dimensioni imponenti, sia in termini di risorse assegnate dall’Europa, sia in termini di riforme da realizzare, quali condizioni per l’erogazione dei fondi, per rimuovere i freni che da quasi tre decenni impediscono la competitività e la crescita dell’economia e dell’occupazione.
Finché il ciclone Draghi si è spostato in mare aperto, ha mostrato una potenza illimitata, contro la pandemia attraverso misure di contenimento e disciplina dei comportamenti individuali ed una imponente campagna vaccinale a fronte del nulla realizzato dal governo Conte, per il PNRR perché si trattava, in un paese liberato dal fastidio dei vincoli di bilancio imposti dall’UE, di distribuire risorse, anche attraverso una loro parcellizzazione in mille rivoli che ha consentito a tutti, sostenitori od avversari, di poter affermare di aver segnato un punto a favore del proprio elettorato e di piantare una bandierina.
Ma come si è trattato di metter mano alle riforme attese, a incidere su consolidate posizioni di rendita e di appropriazione delle risorse del bilancio dello stato, si sono alzati fortissimi “venti di sbarramento”, dove forze politiche e corpi intermedi, comunque ispirati, si sono dati man forte per svuotare le proposte di riforma.
Anche i più convinti sostenitori della esperienza del Governo Draghi sono costretti ad ammetterlo, come fa Claudio Cerasa, stilando un bilancio che riassume, in termini pesanti, lo scarto tra aspettative e realizzazioni “ una legge sulla concorrenza al di sotto delle aspettative, una delega fiscale affidata al Parlamento senza una direzione chiara, una trattativa sfumata con Unicredit su Mps, un’implementazione del Pnrr che quanto a lentezza preoccupa tanto la Commissione europea quanto i sindaci italiani, un timore diffuso relativamente alla capacità del governo di far entrare in vigore la legislazione attuativa per la riforma del processo civile e per la riforma del processo penale entro la fine dell’anno come previsto dal Pnrr e una Rai che doveva essere rivoluzionata rapidamente e che al momento non è stata neppure in grado di spostare di una mezz’ora “Un posto al sole”.
Né procede la riforma delle pensioni, con i sindacati a fianco della Lega sulle barricate a difendere i garantiti di oggi, così come resta il reddito di cittadinanza senza condivise proposte di modifica per eliminarne l’impianto di misura assistenzialistica, che disincentiva il lavoro senza assicurare adeguata assistenza a che ha realmente bisogno, con il PD sospeso tra un riformismo rinnegato e il cedimento a pulsioni identitarie, un partito perennemente in cerca d’autore.
Ma se si deve tornare alla vecchia arte del possibile, delle defatiganti trattative tra partiti, davvero Draghi fa la differenza alla guida del governo? Certo possiede prestigio internazionale, autorevolezza (cui non giova far passare per successo un G20 inconcludente), ma anche queste qualità si usurano rapidamente nella routine della politica.
A ridurre la potenza del ciclone ha contribuito anche il landfall, l’atterraggio di Draghi sulla terreno dei partiti, impegnati nel più intrigante dei giochi parlamentari, l’elezione del presidente della repubblica, uno “squid game”, con personaggi in carne ed ossa impegnati nello sforzo di sopravvivere (politicamente), evitando nel contempo avventure elettorali anticipate che ne compromettano le condizioni di sopravvivenza (materiale).
Diversi commentatori gli attribuiscono una legittima e sacrosanta ambizione di giocarsi le carte per tentare la scalata al Quirinale e che per questo stia manovrando sul terreno dei rapporti con i partiti. Qualcuno si illude poi che dal Quirinale, in una sorta si surrettizio semipresidenzialismo alla francese, possa continuare a guidare di fatto il paese nei prossimi anni, quelli che dovrebbero essere gli anni della ricostruzione, evitando i rischi di fallimento del PNRR: come scriva ancora Cerasa, “ rallentare un po’ oggi è forse il modo migliore per provare ad accelerare per sette anni, con un Draghi un po’ meno ostaggio dei partiti e un po’ più motore del paese dall’alto di quel colle”. Tutto può essere nella politica italiana, anche che si possano realizzare, nei fatti, queste fantasiose ipotesi che innovano sul terreno della Costituzione materiale.
Non si presta grande attenzione ad una circostanza, che non attiene alle norme costituzionali che regolano la Presidenza della Repubblica e la durata in carica dell’eletto, ma alla sostanza dei rapporti tra i massimi organi costituzionali. . Probabilmente nel 2023, se non prima, si eleggerà un nuovo parlamento che vedrà radicalmente ridursi – per legge costituzionale – la platea dei grandi elettori : sarà difficile per un presidente della repubblica – eletto da un’assemblea pletorica secondo le vecchi disposizioni – resistere ad attacchi, certamente anche strumentali ma di sicura presa sull’opinione pubblica, che ne mettessero in discussione la legittimazione e ne chiedessero, per sostanziali ragioni di galateo istituzionale, le dimissioni, nel caso venendo ad essere un Presidente di transizione, per poco più di un anno nel migliore dei casi?
Mario Draghi ambirà davvero al Quirinale ? O preferirà proseguire il suo impegno nel rilancio del paese, recuperando un più alto tasso di decisionismo necessario per portare avanti riforme che, per essere efficaci, devono mordere nel vivo, essere cure vere e non placebo o, peggio, cure palliative?
Ma gli italiani sono convinti di questa urgenza di cambiare, dalla quale è originata la chiamata di Mario Draghi alla guida del governo al posto di Giuseppe Conte? E’ duro da ammettere, ma forse aveva ragione Daniel Gros, Presidente del CEPS (Center for European Political Sudies) quando, in una intervista a Huffington Post del 18 gennaio scorso, diceva “non è un problema di chi guida il governo. Bisognerebbe fare un’altra Italia”,. Missione impossibile, temo.
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