Le immagini viste in questi giorni di uomini e donne che manifestano davanti a Montecitorio con impeto e una discreta carica di aggressività (al punto da provocare il ferimento di un poliziotto), sono la testimonianza che un pericoloso sentimento si sta diffondendo tra di noi: la rabbia.
E la presenza di un manifestante con la faccia dipinta e in testa le corna del bisonte, in stile sciamano pellirosse, come pure di un gruppetto di estremisti di Casa Pound, non sta certo a significare che quelle persone vogliano imitare i suprematisti americani che hanno dato l’assalto a Capitol Hill, pensando di impedire la nomina del presidente Joe Biden.
La folla arrabbiata a Roma è composta principalmente da gente sana di mente e che non porta armi, ma cartelli in cui non dice di voler sovvertire la democrazia parlamentare: sono gli ambulanti che ormai non possono più vendere le loro mercanzie; sono i ristoratori che, dopo aver obbedito a tutte le regole del distanziamento e della sanificazione, sono comunque costretti a tenere chiuse le loro attività; sono commercianti, albergatori e piccoli imprenditori che vivono (vivevano) soprattutto grazie al turismo.
Ecco come si spiega la rabbia che, dopo un anno durante il quale è stata virtuosamente contenuta e soffocata, adesso arriva a esplodere; e se le forme linguistiche e i comportamenti adottati per esprimerla non corrispondono alle regole del galateo, beh, dobbiamo capire che le motivazioni sottostanti non sono affatto campate in aria.
Ma non c’è solo la rabbia ad emergere in queste ultime settimane. La rabbia è facilmente visibile, proprio perché è un sentimento che esplode e si manifesta chiaramente; talvolta degenerando e provocando danni.
Mi sembra che ci sia anche un altro modo di sentire e sperimentare questa desolante condizione di isolamento sociale, di crisi motivazionale e mancanza di prospettive future, dovuta soprattutto al metodo delle chiusure a oltranza (i francesi lo hanno chiamato “confinemont”) con cui le autorità sanitarie e, purtroppo, anche quelle politiche hanno provato a gestire l’emergenza della pandemia.
Ebbene, questo altro sentimento non è facilmente identificabile, perché non si manifesta all’esterno in gesti eclatanti o comportamenti aggressivi. Ma può essere altrettanto dannoso per la salute mentale delle persone, e – almeno così mi sembra – in questi ultimi tempi sta diventando preponderante.
Sto parlando della malinconia. Chi ne è afflitto, non scende in piazza a gridare il suo malcontento e non si sfoga scrivendo sui cartelli o imbrattando i muri.
Il malinconico tiene tutto per sé, non comunica agli altri il proprio malessere. E, così facendo, per lui la vita diventa sempre meno significativa e degna di essere vissuta.
Il malinconico non vive pienamente la sua esistenza, perché ha perso le motivazioni che in passato lo avevano sempre sostenuto e guidato.
Ho visto la cupa espressione della malinconia negli occhi di un mio vicino che conoscevo come una persona vitalissima: quando ieri l’ho salutato con “Buona giornata”, e lui mi ha risposto tristemente “Eh, speriamo”.
La stessa espressione malinconica la ritrovo nei volti dei miei studenti di 16, 17 e 18 anni, quando il discorso cade sullo sport, le relazioni sociali o le vacanze estive: esperienze che a loro sembrano ormai precluse per sempre.
Oppure in mio figlio, che prima della pandemia aveva trovato nel teatro una vera e propria ragione di vita; e che adesso non sa se e quando potrà riprendere quell’ attività che tanto lo appassionava.
Hanno ragione, dunque, quelli che chiedono che l’attuale governo dica agli italiani una data precisa per le riaperture. Sì, è vero che, come ha precisato il nostro stimatissimo presidente Draghi, tutto dipenderà dalla capacità di vaccinare il prima possibile la popolazione. Ma questa semplice verità non basta a curare la malinconia o a spegnere la rabbia.
Ora ci vuole una data; ci vuole il coraggio di scommettere sul nostro futuro.
Bisogna dire con chiarezza ai ristoratori quando potranno riaprire; e così a tutti gli altri che oggi sono costretti a restare inattivi e che vogliono sapere quando potranno tornare a lavorare, a incontrarsi, a visitare un museo, a sfidarsi sui campi di gioco: in una parola, a vivere.
E se il 25 aprile, festa della Liberazione, è troppo vicino, che sia il 2 giugno, per la festa della Repubblica. Ma che non si vada più in là: perché, se si dovesse arrivare al 14 luglio, per esempio, potrebbe scoppiare un’altra rivoluzione.
Lascia un commento