Qualche giorno fa, in una classe dell’indirizzo turistico, parlavo del Boom economico che l’Italia sperimentò verso la fine degli anni Cinquanta e che la portò ad avere un crescita annua di circa 5-6 punti del suo Pil. Allora, grandi aziende private ma anche pubbliche, come l’Eni guidata da Enrico Mattei, la fecero diventare la seconda potenza manifatturiera d’Europa, con le conseguenze straordinarie che gli anziani ricordano bene: disoccupazione pressochè inesistente, benessere diffuso, crescita dei consumi, rapida costruzione di grandi infrastrutture come l’autostrada del Sole, vacanze al mare accessibili a tutti.
Un ragazzo, di quelli molto svegli, mi ha poi chiesto: – Ma perché oggi la situazione in Italia è tanto peggiorata?-
Confesso di aver avuto qualche difficoltà nel dirgli, visto che si trattava di uno studente che spera di lavorare un domani nel settore del turismo, che il declino economico e culturale del nostro Paese deriva soprattutto dall’avere rinunciato alla sua capacità di produrre beni di consumo; capacità che nel secolo scorso venne espressa principalmente attraverso lo sviluppo dell’industria manifatturiera, ma che ha radici molto più antiche, trattandosi forse di una vera e propria vocazione nazionale, se si pensa alla grande tradizione artigianale rinascimentale di cui oggi non c’è quasi più traccia.
Non saprei dire esattamente quando, ma a un certo punto della storia recente iniziò a circolare l’idea che in Italia si potesse vivere di solo turismo; smettendo così di produrre macchine, elettrodomestici e acciaio perché danneggiano l’ambiente e fanno male alla salute della gente.
E’ ovvio che dietro queste credenze anti-industriali c’era l’ideologia ambientalista più radicale, che purtroppo si diffuse piano piano ( nei partiti di sinistra, nei media, nelle scuole e finanche in buona parte della magistratura) e portò, tanto per fare un esempio, a sbarrare la strada alla produzione di energia elettrica tramite le centrali nucleari, mentre negli altri Paesi europei si faceva esattamente il contrario.
La stessa pericolosa ideologia ambientalista la ritroviamo oggi, a proposito della vicenda Ilva e di Taranto, nei discorsi dei leader grillini; per i quali chiudere la più grande acciaieria d’Europa, che dà lavoro a migliaia di persone e quindi è fondamentale per la sopravvivenza di altrettante famiglie, non è una tragedia che avrebbe conseguenze sociali devastanti.
Infatti, nel corso degli anni, il loro guru Beppe Grillo ha ipotizzato la trasformazione dei cantieri in un parco archeologico dove portare le scolaresche a studiare la preistoria industriale; la senatrice Barbara Lezzi ha poi richiamato il valore della mitilicoltura, che sarebbe l’allevamento delle cozze, come soluzione al problema occupazionale di Taranto; e, dulcis in fundo, l’ex ministro dello Sviluppo economico, ora ministro degli Esteri, Gigino Di Maio ha voluto ed ottenuto il famigerato decreto per l’abolizione dello scudo penale ai dirigenti dell’Arcelor-Mittal, mettendo così in fuga la multinazionale, con la prospettiva di lasciar spegnere gli altiforni e mettere una croce definitiva sulla produzione dell’acciaio in Italia.
Quando l’ambientalismo radicale e il populismo irrazionale si sposano e vanno pure al governo, come è avvenuto nel caso del Movimento cinquestelle, i danni prodotti allo sviluppo economico e alla tenuta sociale del nostro Paese sono incalcolabili e – temo – irreversibili.
Lascia un commento