Per lungo tempo sono stata contraria alla “gestazione per altri”. Mi appellavo al principio filosofico del limite, secondo una malintesa etica della responsabilità per la quale – in base alle celebri riflessioni di Hans Jonas[1] – alla tecnica non deve essere reso tutto lecito, ma occorre fissare dei confini laddove si potrebbe compromettere l’autentico corso della natura. Considerando il corpo la nostra parte di natura, pensavo che esso rappresentasse in quanto tale il limite per l’applicazione della tecnica a noi stessi. A questa posizione concorreva anche il contributo dato da Jürgen Habermas[2] al dibattito bioetico esploso alla fine del secolo scorso, quando divenne chiaro che la genetica avrebbe rappresentato la nuova frontiera della scienza; il filosofo tedesco si ingaggiò nel compito di porre limiti alla genetica – o meglio, all’eugenetica dal passato assai scabroso – in senso liberale, ovvero in forme compatibili con la libertà della scienza e i diritti umani, distinguendo tra una lecita “genetica negativa” (che si limita appunto a intervenire sulle malattie ereditarie per garantire il diritto ad una vita degna di essere vissuta) e una “genetica migliorativa” che punta a selezionare i geni migliori e programmaticamente sceglie le forme di vita meritevoli di nascere, facendo cadere quelle non meritevoli. Vedevo nella “gestazione per altri” una delle possibili vie per incentivare questa selezione, per me immorale e contronatura.
C’è voluto la scoperta di nuovi orizzonti teorici (tra cui anche i femminismi della terza e quarta ondata[3]) e il contatto con alcuni vissuti concreti a farmi capire quanto fosse parziale la visione del tema e quanto fosse ideologica e pregiudiziale quella posizione (mi riferisco a me, e non certo a Jonas e Habermas).
Quindi ora cercherò di ricostruire i passaggi della mia conversione verso una posizione favorevole alla GPA, utilizzando le conoscenze teoriche e pratiche che mi hanno convinta e che costituiscono, a mio avviso, argomenti efficaci a contrastare le posizioni contrarie.
In primo luogo, ho messo in discussione quella astratta dicotomia tra natura e tecnica, che era il presupposto ontologico della mia posizione. Non c’è una separazione così netta tra le due, ma un intreccio continuo che fin dalle origini della vita ha consentito trasformazioni ed evoluzioni. Non c’è una natura pura da difendere dall’artificio, bensì c’è un terreno di continuo confronto che proprio sul nostro corpo trova uno spazio d’elezione. Potremmo forse rinunciare alle pratiche mediche, estetiche, tecnologiche che, dagli inizi della vita della nostra specie sulla terra, hanno cambiato anche radicalmente il nostro modo di essere, e continueranno a cambiarlo? No, non potremmo, e i limiti che ci diamo saranno sempre via via rimessi in discussione e superati, quando avremo individuato i pro e i contro di ogni pratica, in relazione con l’insieme dei valori e delle norme sociali di riferimento, anch’esse in continuo cambiamento con i cambiamenti delle società.
Noi ci troviamo esattamente in uno di questi momenti di trasformazione valoriale, come effetto dell’esercizio di libertà individuale e responsabilità morale che ha prodotto una vera e propria pluralizzazione delle forme di vita. L’innesco più potente di questa trasformazione è scattato con il femminismo nel suo significato più profondo, come affermazione del principio di autodeterminazione delle donne: cioè, il principio di libertà nel senso di potersi autonormare per rendere possibile il proprio progetto di vita, fatto di valori, desideri, obiettivi, passioni, percezione e rappresentazione del corpo, riflessione ed espressione di idee e opinioni; principio di libertà non della donna (in astratto), ma delle donne, di ogni donna, in carne ed ossa.
Ora, in base al dato di fatto che il corpo è un misto di natura e tecnica (naturcultura, dice Donna Haraway[4]) e al principio, spero per tutti irrinunciabile, dell’autodeterminazione delle donne (rigorosamente al plurale), perché mai la gestazione per altri dovrebbe essere vietata? Perché donne che non possono avere una gravidanza, ma desiderano avere figli, non devono poter realizzare il proprio desiderio?
Andiamo a vedere gli argomenti contra. Essi provengono da due schieramenti apparentemente opposti, ma qui convergenti: la destra illiberale, e parte del femminismo della cosiddetta “differenza sessuale”. Il primo argomento è quello della mercificazione delle nascite. Secondo la Coalizione internazionale per l’abolizione della maternità surrogata (CIAMS), che raccoglie 50 associazioni e federazioni da tutta Europa, la GPA non sarebbe altro che la vendita di bambini da parte di donne che hanno bisogno di denaro verso donne che stanno bene economicamente; per questo la GPA viene sbrigativamente definita anche “utero in affitto”, pratica piegata alla logica del profitto. Qui c’è il vecchio stereotipo familista che vede la donna soltanto in funzione della maternità e che dunque giudica come esecrabile colei che lascia i figli partoriti, peggio che mai se lo fa per soldi, sfruttando a proprio vantaggio la condizione meno esecrabile di chi invece un figlio lo vuole a tutti i costi, ma contro natura. L’argomento poggia su un pre-giudizio morale verso la prima donna, come degenere, e verso la seconda, come patologica. A nessuno di questi portavoce della famiglia come Dio comanda viene in mente che sia l’una che l’altra donna potrebbero aver deciso la gestazione per altri senza che corra denaro tra le due? In alcuni paesi dove la GPA è legale, è vietato il pagamento della prestazione, al netto del rimborso spese per esami, visite mediche ecc. In altri paesi la donna gestante deve dimostrare di avere una condizione socioeconomica tale da non poterci essere lucro. Esiste poi la figura della madre solidale, cioè della gestante legata alla madre intenzionale (colei che adotterà) da vincoli di stretta vicinanza, che si mette a disposizione per realizzare il desiderio di una sorella, figlia, cugina, amica intima, ecc. Da alcune di queste storie emerge una realtà ricca di relazioni d’amore e d’amicizia che non possono lasciarsi ingabbiare da norme e divieti. Insomma, una equilibrata legislazione in materia potrebbe essere la via per eliminare i fenomeni di compravendita, proprio in ossequio alla Convenzione di Oviedo[5] sempre richiamata dai detrattori della GPA, e favorire l’amore in tutte le sue forme e relazioni.
Il secondo argomento riguarda un presunto diritto dei bambini ad avere i propri genitori, con i quali soltanto possono crescere felici, e in particolare con la madre che li ha portati in grembo. A parte il fatto che questo “diritto” viene negato in molti casi imponderabili: dalla morte della madre al momento del parto, all’abbandono del nascituro. Ma il pre-giudizio che sottende questo argomento è così pericoloso da mettere in discussione persino l’istituto dell’adozione, che viene proposto come alternativa alla GPA. In realtà, così come sappiamo che i figli possono crescere felici con genitori adottivi, dagli studi fatti fin qui sui bambini nati da GPA – non sono molti, ma secondo la letteratura scientifica bastevoli a trarre qualche conclusione – risulta che questi non differiscono in nulla nel bene e nel male né da quelli adottati né da quelli cresciuti dai loro genitori biologici. Inoltre, questo è un argomento che, mettendo al centro il solo interesse dei bambini, cancella del tutto quelli delle donne in causa; ne nega ogni diritto, ogni soggettività, ogni autoaffermazione, mentre fondamentale è trovare l’equilibrio tra diritti “viventi” che, proprio per questa loro natura, è ingiusto contrapporre e che invece è doveroso armonizzare.
Il terzo argomento si riappropria di uno slogan femminista: il corpo della donna non può essere trattato come un contenitore. Si tratta dell’argomento su cui più coincidono i punti di vista della destra e delle femministe della differenza. A questo proposito è utile richiamare alcuni passi della lettera-appello scritta da alcune associazioni femministe e sottoscritta da altre donne, per Elly Schlein[6]. La GPA viene definita come “riduzione della donna a contenitore di materiale biologico altrui”, metterebbe “a rischio la possibilità per ogni donna di decidere liberamente su questioni riproduttive”, e rappresenterebbe “la base filosofica per ogni recriminazione degli uomini sui figli in senso proprietario”. E conclude: “Siamo femministe, quindi non ammettiamo un contratto che implica la rinuncia di una donna al controllo sul proprio corpo”. Alla base di tale posizione sta un lavoro profondo compiuto da queste femministe sulla maternità e sul rapporto tra madre e figlia[7], che ha generato importanti avanzamenti teorici, per esempio nella filosofia della cura, nel pensiero sull’ordine simbolico e nell’idea di differenza sessuale, irriducibile all’ordine patriarcale culturalmente dominante. Questo femminismo della differenza è stato fondamentale per smontare i vecchi stereotipi che hanno prodotto ingiustizie e discriminazioni di genere: è un merito che resta e non può essere dimenticato. Ma tutte noi, donne figlie del loro pensiero, debitrici delle loro intuizioni e per questo molto rispettose nei loro confronti, abbiamo il dovere di andare avanti e sottolineare il fatto che proprio dalle loro intuizioni si è aperta una prospettiva di continuo e prolifico mutamento. La differenza sessuale, presa sul serio, non può essere ri-naturalizzata semplicemente passando da un ordine maschile a un ordine binario (maschile-femminile), che cristallizzato escluderebbe altre differenze, sessuali, di genere ecc. Essa ha dischiuso orizzonti infiniti di libertà, per le donne stesse, ma anche per gli uomini. A partire dalla maternità. Se da una parte essa è il segno biologico e simbolico della differenza, dall’altra non può tornare ad essere la gabbia entro la quale limitare l’autonomia delle donne. Siamo giunti ora a un punto in cui il rischio è quello di rimanere prigioniere dell’ambivalenza del materno, tra rivendicazione di differenza e autolimitazione biologica. Ma io chiedo, perché dovremmo autoimporci questo limite, ri-naturalizzandolo, se oggi è diventato possibile realizzare per tutte e tutti i desideri di maternità? Questa ambivalenza non produce una contraddizione con il suo stesso principio?
Inoltre, come si capisce, l’attenzione di questo argomento è tutta rivolta solo alla madre gestante, che sarebbe sfruttata, ridotta a vaso sul mercato e costretta a trattamenti invasivi, violenti. Ora, abbiamo visto come questa rappresentazione non sia inevitabile – non si capisce come il contratto violi la dignità della donna che lo firma liberamente – , ma soprattutto chiedo: perché la madre intenzionale non viene mai citata? Perché non si spende una parola per la donna che vuole essere madre con le nuove tecniche riproduttive disponibili?
La trasversalità di posizioni contrarie e favorevoli, in una fase assai mediocre della politica italiana, non sta aiutando – come era successo in passato per temi come il divorzio e l’aborto – a trovare soluzioni, bensì blocca il dibattito. Da una parte Fratelli d’Italia fa della contrarietà alla GPA una delle sue bandiere ideologiche e propone il “reato universale”, che ha l’unico scopo, assai miserevole, di impedire la trascrizione di genitorialità per i figli nati all’estero con GPA; l’obiettivo è rivolto contro le coppie omosessuali, ma ne fanno le spese tutti, anche le coppie eterosessuali che sono la maggioranza. Dall’altra parte il PD è contro l’introduzione del reato universale, ma la sua opposizione è indebolita dalle divisioni interne sulla GPA; così evita di aprire il dibattito e si trincera sul fatto che la GPA in Italia è vietata. Ma qual è la fonte normativa? E’ la legge 40/2004 del Governo Berlusconi sulla fecondazione assistita, contro la quale le associazioni di donne sostenute dall’allora DS promossero un referendum; perché è una legge nel suo insieme molto arretrata, che restringe ideologicamente il ricorso alla fecondazione assistita, e che solo la Corte Costituzionale ha potuto correggere nel consentire la fecondazione eterologa originariamente proibita. E’ rimasto il divieto della GPA, su cui la Corte non poteva certo intervenire, ed è rivolto a “chiunque, in qualsiasi forma [la] realizza, organizza o pubblicizza”, con pene che vanno da 3 mesi a 2 anni di reclusione e multe da 600.000 a 1 milione di euro.
Dunque, chi ricorre alla GPA? Lasciamo da parte per ora le coppie arcobaleno, e parliamo di donne. Sono le donne che non possono sostenere una gravidanza propria (quindi nemmeno con fecondazione assistita): a causa di stati congeniti (per esempio, l’assenza di utero, come la Sindrome di Rokitansky), o a causa di condizioni acquisite (come l’asportazione dell’utero per un tumore, o le forme più gravi di endometriosi), o per patologie sistemiche che non consentono di condurre una gravidanza pur in presenza di un apparato riproduttivo perfettamente normale (patologie cardiache congenite ed acquisite, dell’apparato renale, nervoso, osseo, immunologico, pregressi tumori con necessità di terapie di mantenimento o fisicamente invalidanti per una gravidanza efficace e sicura). Si parla, in Italia, di almeno 3 milioni di donne, e di coppie, che vivono questa condizione. Alle quali la maternità è vietata. E’ giusto? Da un punto di vista femminista, di autodeterminazione femminile, di libertà di autorealizzazione rispetto ad un progetto che secondo le filosofe della differenza è connaturato all’identità femminile.
Tamar Pitch sottolinea con efficacia questa contraddizione, e aggiunge un altro carico da novanta.
“La Gpa in Italia è perfettamente lecita: per gli uomini, che se sono padri biologici possono riconoscere il neonato partorito anonimamente. Il divieto discrimina dunque le donne. Anzi, discrimina le donne che, pur avendo ovuli, non possono portare avanti una gravidanza, visto che quelle che gli ovuli non ce l’hanno, ma un utero funzionante sì, possono viceversa diventare madri con la fecondazione cosiddetta eterologa”[8].
Pensiamo che sia giusta questa discriminazione? Pensiamo che essa sia sanabile proponendo la via dell’adozione, così impervia in Italia, comunque non bastevole nei numeri e di nuovo contraddittoria con quel principio di maternità biologica tanto cara alle femministe sopra citate?
In questo divieto assoluto della GPA ci vedo tanta ipocrisia e la doppia morale insita in certe posizioni “cattoliche”: da una parte si tuona contro la denatalità e dall’altra si vieta una pratica che potrebbe contribuire a contrastarla; da una parte si denuncia la mercificazione del corpo sottomesso al vituperato profitto e dall’altra non si vede opposizione alcuna alla privatizzazione mercatista di tutte le sfere di vita, anche le più personali (il corpo reso merce dalla realtà virtuale dei media non reca scandalo?); da una parte si predica la libertà della donna e dall’altra si giudicano donne che compiono scelte a noi moralmente sgradite.
Se l’autodeterminazione delle donne, di tutte le donne, è un principio, si parte da lì. Sempre. Senza nascondersi dietro l’alibi di “temi eticamente sensibili”, su cui la discussione alza muri ideologici anziché ponti laici.
[1] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi 1990.
[2] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi 2002.
[3] Soprattutto Judith Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza 2017, e Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli 1995.
[4] D. J. Haraway, When Species Meet, University of Minnesota Press 2008; Id., Manifesto delle specie compagne. Cani, persone e altri partner, Contrasto 2023.
[5] Consiglio d’Europa, Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina, Oviedo, 4 aprile 1997: https://rm.coe.int/168007d003
[6] La lettera contro la “maternità surrogata” ha avuto ampia diffusione; questo uno dei link dove è stata pubblicata: https://www.womenews.net/2023/04/la-lettera-di-cento-femministe-alla-segretaria-del-pd-elly-schlein-sulla-maternita-surrogata/. A questa lettera è seguita una contro lettera che chiede invece di tenere aperto il dibattito: https://smips.org/2023/04/20/lettera-appello-su-gpa-serve-un-dibattito-aperto/
[7] Tra tutte, cito soltanto Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 1991.
[8] T. Pitch, “Reato universale”. Un commento al voto in Commissione Giustizia, Studi sulla questione criminale, 16 giugno 2023: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2023/06/16/reato-universale-un-commento-al-voto-in-commissione-giustizia/.
Luigi
Apprezzabile l’articolo di Daniela Belliti. Un notevole contributo alla discussione. Ma….Ma, a mio parere, pur portando serie motivazioni sulle varie posizioni, non mi pare che riesca ad optare in maniera convinta su una delle possibili scelte. Però, ripeto, offre contributi importanti. Così ìo sono stimolato non tanto ad una scelta, ma ad un contributo che qualcuno può definire anche un po’ fazioso, ma che a me pare la chiave per ïndicare la scelta. Il quesito è questo, per me permanente e fondamentale non solo per la discussione ora in atto. Chi sono l’uomo e la donna? Individui o persone? Se optiamo per la prima definizione, non finiremo mai per coniugare tante forme di libertà tutte variabili nel tempo come il variare degli usi e dei costumi. La seconda definizione, che non limita nessun progresso e nessuna libertà, presuppone una relazione costante con l’altro o l’altra che non può prescindere dal coltivare la solidarietà, il rispetto, la condivisione anche dei limiti se insuperabili, il tutto in una relazione d’amore che non è espressione limitante il piacere. Anzi. Io credo che con questi presupposti si possa discutere di tutto per la soddisfazione dei singoli e per la costruzione di una società felice tutto il contrario del percorso di oggi. Allora, si discuta pure con tutta la competenza di Daniela Belliti, ci si sbizzarrischi pure con leggi leggine ed imitazioni di nazioni cosiddette avanzate, ma ci porteremo sempre dietro l’angoscia di aver ferito qualcuno (figli non nati o figli nati dei quali i media sanno ormai solo prendere atto di terribili fatti di cronaca, nascondendo sofferenze ed angoscia. Si badi bene. Scrivo questa nota, mentre mi sento profondamente responsabile di tutto quello che insieme a chi ha la bontà di leggermi, ho provato a criticare).