La scomparsa di Francesco Forte ha privato la disciplina economica, in particolare la Scienza delle Finanze italiana, di un protagonista della seconda metà del ‘900. Allievo di Benvenuto Griziotti e Luigi Einaudi è stato della sua generazione quello con la maggiore caratura internazionale. Giovanissimo è stato chiamato a insegnare in USA presso l’Università della Virginia dal fondatore della Teoria della public choice moderna, il premio Nobel 1986, James Buchanan. Grazie ai contributi elaborati durante quella esperienza, ha assunto, in questa importante area di studi, un ruolo di primo piano, divenendo per esempio editor di importantissime riviste di settore come Public Choice e del Journal of Public Economics.
Sempre giovanissimo è stato chiamato a coprire la cattedra di Scienza delle finanze dell’Università di Torino, su esplicita richiesta di Luigi Einaudi. Ha lasciato Torino nella seconda parte della sua vita per assumere la cattedra di Scienza delle Finanze alla Sapienza di Roma, al posto di Sergio Steve, un’altra icona dell’Economia pubblica italiana, andato in pensione.
Non conosco nessun studioso che abbia saputo conciliare l’attività di ricerca con l’impegno politico e l’assunzione di cariche amministrative di primo piano. Da ministro delle finanze, in governi di periodi particolarmente burrascosi, ha partecipato a congressi internazionali, ha pubblicato libri e articoli come se niente fosse.
In questa testimonianza decido di non considerare l’attività di Forte come ministro, sindaco, parlamentare ecc., né di tracciare un quadro generale della sua immensa produzione scientifica, un gravoso impegno che spero i suoi non numerosi ma significativi allievi vorranno fare con l’entusiasmo che questa figura merita. Tratterò brevemente un tema che ha caratterizzato il contributo scientifico di Forte: la nozione di imposta-prezzo, sulla via aperta dalla tradizione italiana di scienza delle finanze di fine 800, in particolare da Antonio De Viti De Marco.
Per Forte, qualunque sia la giustificazione teorica di un’imposta sul reddito personale, sostanzialmente il principio della Capacità Contributiva, non si può mai prescindere dal fatto che i tributi sono, nella dialettica politica democratica, il contributo che i cittadini versano all’erario per finanziare la produzione dei servizi indivisibili di cui loro stessi usufruiscono. Il costo individuale della tassazione, in termini di riduzione dell’utilità, deve avere una corrispondenza con il beneficio individuale che la spesa pubblica per i servizi attribuisce al cittadino-contribuente, aumentando la sua utilità. L’inesistenza di questo rapporto è la causa principale del fenomeno dell’elusione fiscale e soprattutto dell’evasione. Ed è invece la spiegazione del successo in termini di gettito delle stessa imposta nei paesi del Nord Europa.
Se si accetta questo presupposto viene meno l’enfasi verso la progressività del tributo, che per Forte è comunque auspicabile se pur moderatamente, ed aumenta l’enfasi verso l’efficienza della spesa pubblica, che innalzando il beneficio individuale rende il costo individuale più sopportabile. La pressione fiscale deve quindi essere controllata avendo in mente questa corrispondenza più che per finalità macroeconomiche. In un momento storico in cui nel nostro paese si fa, sciaguratamente direi, la lotta di classe con le aliquote marginali sugli scaglioni dell’IRPEF, questo cambiamento di prospettiva, che attiene al profondo rapporto tra potere politico e cittadini, dà un’idea dello spessore innovativo del pensiero di Francesco Forte e in parte anche del suo isolamento nella disciplina.
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