Sono stati tantissimi i miei compagni di liceo che, superato l’esame di maturità nel lontano e caldo luglio del 1978, si sono iscritti alla facoltà di medicina. Se non ricordo male, solo nella mia classe uno su tre ha aspirato a indossare il camice, e quasi tutti, forgiati dallo studio matto e disperatissimo del greco e del latino, ce l’hanno fatta.
Erano anni ruggenti per i professionisti; forse non guadagnavano come quelli della generazione precedente, ma una volta superate le forche caudine e necessarie delle guardie notturne (che oggi molti ci raccontano come momenti eroici), o delle sostituzioni del collega ormai arrivato, la strada era in discesa.
Per chi si dedicava alla medicina generale, e conquistava la convenzione con il servizio sanitario nazionale, era previsto un orario di lavoro tutto sommato comodo, le ferie, il telefono staccato dal venerdi al lunedi mattina, la garanzia di una vita tranquilla. I tempi del Dottor Cronin erano passati.
Non erano neppure i tempi del dottor House, per chi entrava in ospedale: se volevi, potevi vivacchiare, sotto la coperta comoda del pubblico impiego, con il vantaggio di poter arricchire lo stipendio con la libera professione, se decidevi di farla. L’eccellenza era gradita, spesso più dai pazienti che dai colleghi (che magari ne erano privi); e talvolta invisa alla direzione sanitaria; quindi potevi non averla.
Sono stati anche tempi in cui gli specialisti di libera professione hanno proliferato, e ben vissuto: talvolta perdendo di vista il quadro medico generale, e dedicandosi alla specifica, o alla specifica della specifica (ortopedico si, ma della spalla)! Sostenuti dal sistema pubblico a supporto, erano forse i più fortunati fra i medici, avendo la fortuna di poter scegliere casi, tempi e modi di lavoro; sono stati di fatto imprenditori di se stessi.
Tutti loro, quale che fosse il percorso che avevano scelto o era toccato in sorte, erano e soprattutto si sentivano i veri”dottori”.
Tuttavia, il credito sociale che un tempo era scontato, si è via via perso, e ci permettiamo di giudicarne l’operato: tante volte li abbiamo criticati, derisi e offesi, i nostri medici.
Ma come diceva un film dei nostri tempi; quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare.
E loro duri lo sono: molti di loro, quei ragazzi che erano nel banco con me, già pronti a raccogliere i risultati finali di prestigiose carriere, ora sono chiamati alla partita più grossa della loro vita. L’emergenza li ha travolti, e oggi tutti si ritrovano in prima linea, a onorare quel giuramento di Ippocrate che hanno fatto appena laureati, in quel momento solenne e un po’ retorico che ti apre idealmente la porta alla professione.
L’epidemia li ha messi davanti a orari stravolti, a ospedali che scoppiano, costretti a rinviare tutto ciò che non è urgente; spostate profilassi, screening di massa, pulizia dei denti, interventi programmabili. Tutti in trincea, a sessant’anni, il Paese affidato alla loro professionalità, all’esperienza e a quell’occhio clinico che anni di lavoro ha esercitato.
Loro stessi sono consapevolmente esposti al rischio contagio, e con la paura di portarsi la carica virale a casa, infettando mariti o mogli, figli, genitori ormai per forza anziani.
Chiamo, ogni tanto, qualcuno di loro; sfiniti, storditi, ma sempre all’erta; e in fondo fieri di partecipare a questa guerra che i libroni di medicina non ha mai raccontato.
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Ecco, io non ho un balcone da cui cantare Azzurro, e non farò un flash mob per ringraziarli; voglio però scrivere che a loro dedico queste parole, il mio pensiero, il ricordo degli anni belli e la speranza che ne avremo ancora.
A loro, alle loro famiglie, ma anche a noi tutti, un abbraccio ideale e un grande: forza, ragazzi, siete forti, e ne usciremo anche grazie a voi tutti.
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