Eravamo la quinta potenza industriale, orgogliosi di questo risultato. Oggi tra l’opinione pubblica sui social è considerata una colpa grave: sbagliavamo allora?
Ma certo che no. L’Italia mantiene forti caratteristiche di potenza industriale: siamo il secondo esportatore di beni manufatti del continente, manteniamo una forte base industriale, anzitutto di piccole e media imprese, di distretti specializzati in beni che esportiamo, restiamo un importante paese trasformatore. Il vero handicap italiano è la bassa o nulla crescita che si trascina, tra alti e bassi, da troppo tempo. Dopo il quadriennio 2013/2017 in cui avevamo invertito la tendenza al declino e alla stagnazione, due fattori ci hanno riportato all’indietro: il rallentamento del ciclo economico internazionale ed europeo; le politiche assistenzialiste del governo populista che, ad oggi, il governo giallorosso non è riuscito a rovesciare. Per cui la crescita economica rimane un miraggio. A questo si somma lo stop delle riforme strutturali di cui avrebbe bisogno la nostra economia (debito, spesa pubblica, giustizia). Il quadriennio populista si rivela veramente disastroso per la stabilità e il rilancio della nostra economia.
Come si legano le vicende di ILVA a Taranto dove un ambientalismo fondamentalista pretende la chiusura dello stabilimento e Alitalia che la spasmodica ricerca di consenso impedisce qualsiasi soluzione di mercato, sicuramente non indolore, con costi sempre crescenti per le finanze pubbliche?
Ilva è l’esempio più clamoroso del fallimento del quadriennio populista. Insieme ad Alitalia (ma ci metterei anche la brillante idea della revoca delle concessioni autostradali e del passaggio ad Anas della gestione del servizio) è l’esempio dell’assenza di ogni visione moderna di politica industriale. E il patetico, vecchio e miserabile tentativo di supplire a tale incapacità rispolverando pratiche stataliste, idee vecchie di statalizzazione e di intervento pubblico. Non si capisce che il problema chiave- in Ilva, come in Alitalia e nei servizi autostradali- è la capacità di investire per riorganizzare e rilanciare queste attività. Lo stato non ha né le risorse, né le competenze e né le professionalità per tornare a rendere competitiva la nostra siderurgia o il nostro trasporto aereo. E direi, le nostre infrastrutture. Dobbiamo aprirci coraggiosamente all’apporto dei capitali privati, esteri e nazionali, che devono essere incoraggiati a guardare alle opportunità della nostra economia. Invece non stiamo facendo altro che allontanare gli investitori dall’Italia.
Sono centinaia i tavoli per crisi aziendali dove si finge di ritrovarci alla ricerca di soluzioni impossibili: è politica industriale questa? Quali dovrebbero essere invece i capisaldi di una politica industriale all’altezza dei tempi e proiettata verso il futuro? Davvero la strada è abolizione del jobs act e ripristino dell’art. 18?
La politica industriale non ha niente a che vedere con la chiacchierologia, inutile e fumosa, su job act e articolo 18. Sul primo il vero dramma è aver sostituito il completamento e l’avanzamento ulteriore della riforma del job Act con la miserabile e illusoria sciagura del Reddito di cittadinanza che ha fallito entrambi i suoi conclamati obiettivi: combattere la povertà e creare lavoro giovanile. Nessuno dei due nemmeno avvicinato: anni persi. E una liability di risorse sprecate sulle manovre di bilancio italiano (insieme a quota 100) che bloccano ogni margine di manovra delle leggi di bilancio. Per gli anni a venire se non vengono cancellate. L’articolo 18 è un’autentica invenzione simbolica: la sua abolizione per i licenziamenti collettivi, senza giusta causa, non ha creato, praticamente, effetti e conseguenze. Come si era sempre detto. Questo tema non esiste nella realtà. Lo si solleva solo come bandierina ideologica. E per pigrizia intellettuale: certa sinistra farebbe bene ad applicarsi a ben altre urgenze e riforme necessarie per il mercato del lavoro.
La certezza del diritto è condizione indispensabile per qualsiasi operatore economico: che potranno pensare gli investitori esteri dell’Italia che cancella lo scudo penale a Arcelor Mittal e vuol colpire Autostrade (che dovrà essere sanzionata per le sue responsabilità ed omissioni) modificando in corsa i presupposti della concessione?
Il voto di Pd e Italia Viva, che ha cancellato lo scudo penale da un decreto di questo governo su richiesta 5 Stelle per parare il caos interno di quel partito, è qualcosa di scellerato del Conte 2: un atto dannoso, che si sapeva di non poter cancellare ma che ha creato un pericoloso segnale per l’azienda con cui si era firmato un contratto e concordato un piano di rilancio. Per coprire l’errore fatto, Pd e Italia Viva hanno avuto una condotta contraddittoria: da un lato si è cercato di minimizzare il disastro fatto dall’altro si è cercato di avallare la tesi falsa che esso fosse un alibi dell’azienda per andarsene. Per fortuna ha poi prevalso la trattativa. E gli atti successivi, anche quelli della Magistratura e degli stessi commissari governativi, hanno dimostrato che non c’era alcun alibi, che l’azienda aveva ragione. Comunque, purtroppo, la trattativa non è chiusa e dello scudo legale si è ancora in attesa. Per la concessione siamo all’incredibile: i 5 Stelle ne fanno una questione di vita o di morte; il resto del governo scopre l’acqua calda e dice: si revoca solo se c’è un giustificato motivo. Giustificato e soppesato nella sua fattibilità giuridica e costituzionale. Ma se questo motivo, dopo mesi di discussioni e valutazioni, non è emerso (altra cosa è il risultato delle indagini sul ponte Morandi, che non sono concluse) di che parliamo? Tutte le cose che non piacciono al governo, nelle concessioni che lo Stato ha dato con gara e contratto, si possono modificare con una trattativa con i concessionari. La revoca non serve, allunga i tempi degli interventi, costa di più allo Stato e getta nel caos totale il servizio autostradale. La si smetta con questa manfrina.
Uno sguardo al Sud: quali potrebbero essere gli interventi in grado di rilanciarne l’economia? Davvero è sufficiente il turismo? Ed esistono in quei territori le condizioni minime di legalità per investirvi?
Si continua a ritenere il Sud un territorio dove, per ragioni misteriose o antropologiche, occorrerebbero fattori “speciali” e interventi specifici e particolari (ritagliati solo per quell’area) per recuperare i divari. Oppure che la soluzione risieda in surplus di spesa pubblica, indipendentemente dall’uso che se ne fa. Messa su queste basi, la questione è irrisolvibile. Il problema è diverso: è la politica economica nazionale- industriale, del lavoro, della qualificazione dei servizi (giustizia, trasporti, scuola, ricerca, università), del mercato del lavoro e dell’attrazione degli investimenti, delle infrastrutture che deve avere uno scatto (chiamiamolo pure shock). Nel quadro di nuove opportunità per tutta la nostra economia, il governo e le Regioni meridionali devono essere attrezzati a concorrere per recepire queste opportunità nei propri territori. Le condizioni minime, legalità ad esempio, certo pesano. Ma non diventino un alibi: lo stato della giustizia va risolto per tutto il paese; i problemi della sicurezza e della criminalità (sia quella macro che quella micro) non sono prerogativa del Sud. Sono temi nazionali.
Alla fine del primo millennio processioni di flagellanti e penitenti percorrevano le città e le strade altomedievali annunciando la fine del mondo per i peccati dell’uomo. La fine del secondo millennio ha visto il diffondersi dell’annuncio della fine del mondo per aver colpevolmente trasformato l’ambiente e modificato il clima. Il movimento ha trovato la sua profetessa. Tu ti opponi con la forza della ragione e della scienza ma il nuovo paradigma scientifico è il politicamente corretto: cosa dobbiamo fare per rendere compatibili la vita di oltre 7 miliardi di persone e la salvaguardia dell’ambiente?
Il pianeta, per fortuna, da circa 20.000 anni non ha mai incontrato (anche se si è varie volte fatto ricorso a questa paura e minaccia apocalittica) un vero “limite” a quella che chiami “compatibilità” tra la vita e la salvaguardia dell’ambiente. Mai. La storia della civilizzazione è storia di adattamento perenne tra esigenze umane, crescita demografica e risorse ambientali. E sempre in un crescente e progressivo “miglioramento” della condizione umana e di quella ambientale. Oggi si muore sempre meno per fame e carestia. E le malattie epidemiche e distruttive sono state debellate. Sono sempre più minoranze del mondo quelle costrette a persistere in condizioni primitive di disagio elementare. Se migliora la vita, l’aspettativa di vita, la durata di vita, la qualità della vita significa che l’ambiente non è peggiorato. Come si fa a separare l’ambiente dal modo in cui l’uomo sta in esso. Certo ci sono problemi nuovi e globali che vanno affrontati: l’inquinamento, la qualità dell’aria nelle nostre città, lo stato degli ecosistemi marini ecc. La mia impressione è che non serva il catastrofismo. Anzi: questa drammatizzazione apocalittica sul riscaldamento globale, cui si imputa tutto e il contrario di tutto, rischia di distogliere attenzione e risorse dalla priorità vera che è la lotta all’inquinamento. O dalle politiche di adattamento ai cambi climatici che sono una costante della vita terrestre: assetto idrogeologico delle aree urbanizzate, adeguamento delle aree costiere, adeguamento degli assetti urbani ai fenomeni estremi ecc. Invece ci stiamo annichilendo in un mantra apocalittico inconsulto. Cui poi non corrispondono politiche costruttive e concrete di adattamento e mitigazione degli effetti del clima. Io mi batterò sempre perché a sinistra si abbandoni questo malinteso ambientalismo pessimista, impotente e apocalittico e si approdi, finalmente, ad un ambientalismo riformista, efficace, concreto e ottimista. Ottimismo della ragione, oltre che della volontà.
Nel mare non inquinato nuotano in branchi le sardine. In Italia con una potente operazione mediatica è nato il movimento delle sardine. Migliaia di giovani sono scesi in piazza ai quali si sono mescolati pesci di lungo corso ed oggi se ne predice la trasformazione in movimento politico organizzato. Ma è un movimento contro. Che ne pensi? Cosa prevedi?
Mi colpisce questo perenne e ricorrente innamoramento della sinistra verso i “movimenti”: ogni volta e ogni tanto ci si inebria su uno nuovo o descritto come quello, finalmente, decisivo per rilanciare le fortune politiche, culturali ed elettorali della sinistra. Tanta illusione che poi sortisce frustrazione e delusioni. Viviamo una fase di inedito protagonismo della cosiddetta “società civile”: i social facilitano enormemente la mobilitazione di istanze, gruppi, movimenti. Di segno variegato e articolato (pensiamo ai gilet gialli). Fanno male i politici a correre, in modo infantile, all’accaparramento. Quei movimenti devono mantenere il loro distacco dai partiti. Pena il loro evaporare nel nulla. Con la stessa rapidità con cui sono nati. I partiti sono altra cosa: devono parlare ai movimenti attraverso l’offerta politica, programmatica, elettorale che fanno. E all’intera società non a pezzi segmentati corporativamente. Delle sardine mi piace la compostezza non estremista. È sicuramente una novità positiva. Non mi piace la vaghezza, genericità e inconsistenza delle issues che propongono. E, tantomeno, il movimentismo ad personam contro Salvini. Ma mi indigna, assai di più, il consueto gregarismo e vassallaggio, poco educativo e privo di maturità e saggezza, di una sinistra che pratica, con i movimenti, sempre lo stesso sport: vezzeggiarli invece che intessere una relazione matura di dialogo nella distinzione. E dove è necessario anche nel contrasto.
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