Trovo particolarmente scorretta la pratica di sostenere la propaganda, che è fisiologica e anche utile per far conoscere idee e proposte, al netto delle scontate iperboli retoriche, fondandola su assunti falsi ma che vengono spacciati per autentici, confidando nella diffusa ignoranza dei dati reali, nella ritrosia a documentarsi, nella gioia della gente nel sentirsi confermare i propri pregiudizi da fonti che appaiono “autorevoli”.
Un caso esemplare è quello, rilanciato più volte e comunque in ogni occasione in cui si parla di fisco, da parte dei Sindacati Confederali: ossia l’indignata denuncia che lavoratori dipendenti e pensionati pagano oltre l’80% delle imposte sul reddito delle persone (IRPEF), cui segue l’accorata rivendicazioni di redistribuire con più equità la pressione fiscale tra le categorie di contribuenti.
Ma vediamo i numeri veri, utilizzando le elaborazioni di Itinerari Previdenziali su dati MEF e Agenzia delle Entrate, relativi alle dichiarazioni dei redditi 2020 (questi dati sono coerenti e sostanzialmente uguali da anni, e non c’è quindi alcun motivo di pensare che nel 2021 o nel 2022 possano essere cambiati in modo significativo).
Che i lavoratori dipendenti e i pensionati versino più dell’80% dell’imposta sul reddito è vero: esattamente l’85%. D’altra parte queste categorie rappresentano l’84,4% dei percettori di reddito, e quindi della platea dei contribuenti. Sarebbe piuttosto inspiegabile se l’imposta da loro versata si discostasse in modo sostanziale dalla percentuale dei contribuenti.
Ma c’è dell’altro: il 39,7% dei dipendenti, ossia coloro che non guadagnano più di 15.000 e lordi l’anno, pagano IRPEF uguale a zero, in virtù di no tax area, esenzioni, detrazioni e bonus Renzi. Stiamo parlando di 8,457.000 contribuenti.
Tra i pensionati 2.617.000 (il 19,2%), cioè coloro che non superano i 7.500 € annui, pagano da zero a 55 € di Irpef. Compresi quelli della fascia superiore (7500 – 15.000 €) fanno il 44,2% della categoria, ma pagano soltanto il 6,9% dell’IRPEF versato dalla categoria.
Tra gli autonomi il 43,6% del totale dichiara non più di 15.000 €, e versa l’1,82% dell’IRPEF del comparto.
Ma, per restare al grido di dolore del sindacato, non si può fare a meno di notare che 11.073.000 tra pensionati e lavoratori dipendenti non pagano un centesimo di IRPEF: stiamo parlando del 31 % del totale delle due categorie: si fa un po’ fatica a credere al racconto del lavoro dipendente e dei pensionati che vengono spremuti dal fisco.
Piuttosto si potrebbe mettere in discussione le modalità con cui viene attuato un principio costituzionale afferente al sistema fiscale: la progressività.
Se esaminiamo nei dettagli la tassazione dei lavoratori dipendenti, vediamo (come già notato) che quasi il 40% non paga nulla; quindi il 100% dell’imposta è pagato dal 60% dei contribuenti, e in particolare il 15% dei contribuenti versano il 61% dell’imposta. Ma se vogliamo approfondire possiamo ricorrere alla analisi di Itinerari Previdenziali relativo ai redditi dei dipendenti: il rapporto tra redditi della fascia mediana, cioè quelli tra 15 e 20 mila euro (17,5 mila euro di mediana) e quelli tra 200 e 300 mila euro (250 mila euro di media) è pari a 14,28 volte, mentre il rapporto tra l’imposta media dei primi e quella dei secondi è pari a circa 46 volte, che diventano 88 volte al netto dell’effetto bonus-TIR; in realtà, è molto di più considerando le indeducibilità previste per i dichiaranti redditi oltre i 100 mila euro. Questa osservazione serve a sottolineare come nel Paese si parli sempre di redditi lordi che, a causa della doppia/tripla progressività d’imposta (sistema delle indetraibilità e indeducibilità), è fuorviante e spesso porta a errati (a volte demagogici) confronti sbagliati nella sostanza.
Ultimo argomento l’evasione: i dipendenti e i pensionati non possono evadere, per via dei sostituti d’imposta, afferma il sindacato. In realtà non possono evadere rispetto alla retribuzione dichiarata, ma il lavoro grigio è una specialità nazionale. Gli autonomi lo praticano con maggior facilità, ma i dipendenti, ovviamente grazie ai datori di lavoro, subiscono soluzioni abili e fantasiose: dallo straordinario pagato in nero, al full time pagato part time, alla CIG in realtà lavorata al sottoinquadramento con la differenza pagata in nero. D’altra parte riesce difficile credere che il 33% della popolazione (ossia la somma dei contribuenti e dei familiari a carico di dipendenti e pensionati della fascia più bassa) viva con meno di 15.000 €, pari a circa 1.100 € mensili per nucleo familiare.
In definitiva: l’intervento rivendicato dal sindacato sul sistema fiscale rischia di esaurirsi nella difesa di fasce sempre più circoscritte di lavoratori e di trascurare lo strumento della contrattazione. Naturalmente questo non vuol dire affatto che il sistema fiscale nel suo insieme (imposte dirette e indirette) vada bene così com’è. E neppure che, poiché molti evadano, si debba estendere questa possibilità ad altre fasce di contribuenti, come per esempio rischia di accadere con la flat tax. La questione centrale rimane la lotta all’evasione che potrebbe essere condotta sia con i raffinatissimi strumenti di cui dispone la tecnologia moderna sia con l’allargamento del principio del conflitto di interessi a prestazioni di vario tipo riferite a tutte quelle spese domestiche o di lavoro in cui si pratica lo scambio tra il pagamento in nero e un piccolo sconto sulla tariffa. Da questo punto di vista l’aumento a 3000 euro delle detrazioni per l’assistenza ai familiari non è certo sufficiente ma si muove nella giusta direzione. La materia fiscale è complessa. E, come si diceva una volta, non è semplice trovare soluzioni facili ai problemi difficili. Ma la materia fiscale sarebbe sì un terreno importante di iniziativa e di sfida al Governo di un sindacato capace di abbandonare ogni deriva demagogica e di misurarsi su analisi rigorose e su proposte costruttive. A questo proposito non è per nulla banale l’osservazione che Maurizio Landini fa al Governo in una recente intervista al “Corriere della Sera” invitandolo a governare, negoziare, regolare il cambiamento e non a subirne o strumentalizzarne la paura. Ma è un approccio che implica di partire da una conoscenza obiettiva della realtà e non dalla propaganda, e che dovrebbe valere per tutti i soggetti politici e sociali, sindacato in primo luogo.
(articolo ripreso da Mercato del lavoro news n. 145 della Fondazione Anna Kuliscioff)
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