Nel 1897 Paolo Mantegazza, medico, fisiologo e antropologo (1831-1910), pubblica il romanzo L’anno 3000. Sogno (che può essere letto in una pregevole edizione del 2010 curata da Paolo Chiozzi).
Mantegazza non è il primo ma è tra i primi in Italia a provare a raccontare cosa ci potrebbe riservare il futuro.
L’autore, nella scia generale di Jules Verne, H. G. Wells (La macchina del tempo, 1895, in italiano 1902) e soprattutto di Guardando indietro 2000-1887 dell’americano Samuel Bellamy – pubblicato in originale nel 1888 e tradotto subito in Italia nel 1890 – propone una fantascienza socio-tecnologica, dove il positivismo del suo tempo si proietta in avanti, oltre il 2000 di Bellamy, arrivando con qualche polemica in risposta all’americano sino al 3000.
In Guardano indietro gli Stati Uniti sono uno stato socialista e il protagonista illustra modelli e linee di questa trasformazione utopica.
Se poi Wells ci mostrava il futuro di una Terra abbrutita Mantegazza illustra un mondo nuovo, retto dalla tecnica e senza più ideologie, neppure il socialismo, dove presenta le sue idee in campo sanitario, educativo, sociale proiettate in avanti.
Al di là della narrazione, delle idee di questi autori, e ce ne sarebbero molti altri, ho accennato a Mantegazza in primis perché quando scrive L’anno 3000 è a Firenze, dove dal 1869 tiene la prima cattedra italiana di Antropologia e nel 1871 con Felice Finzi fonda la rivista “Archivio per l’antropologia e la etnologia”, ancora oggi pubblicata.
Nel 1863 Jules Verne aveva scritto un romanzo, Parigi nel XX secolo, ambientato nella capitale francese degli anni Sessanta del Novecento. Verne era all’inizio della carriera e il suo storico editore, Pierre Jules Hetzel, valuta che il romanzo non fosse adatto al gusto del secolo: forse lo avrebbe potuto pubblicare venti anni dopo.
Verne vivente non pubblicò poi il romanzo, che esce solo nel 1994 e che illustra una Parigi “meccanica”, con grattacieli, treni veloci, comunicazioni diffuse a livello mondiale.
È interessante notare inoltre che nel 1902 Wells pubblica il volume Anticipazioni. Profezie (raccolta di saggi apparsi in rivista nel 1901, tradotto in italiano nel 1922), con l’idea di “presentare qui, in un ordine metodico, quanto lo può permettere la natura necessariamente diffusa dell’argomento, alcune induzioni che, nel loro insieme, offriranno un abbozzo ipotetico, ma il meno imaginario che sarà possibile, di come andranno le cose di questo mondo nel secolo XX.”.
Ora, se Mantegazza avesse voluto ambientare il suo romanzo invece che nel 3000 e nella città mondiale di Andropoli (e il nome evidenzia come l’Uomo sia al centro del nuovo universo), in India, nella Firenze degli anni Ottanta del Novecento, come l’avrebbe raccontata?
Ovviamente la domanda è retorica: questi romanzi illustrano le idee, non i fatti, la Parigi di Verne è una scenografia, come quelle della gran parte dei romanzi utopici, che o vengono narrati in una stanza, senza mai mostrare il mondo di fuori o devono giocoforza rapportarsi con nuovi mondi ma intravisti. Qui ciò che interessa all’autore è la trasformazione del pensiero: non si tratta di profezie e neppure di romanzi utopici.
In questi lavori c’è uno sforzo per tentare di capire il futuro, di proiettare nel futuro il meglio di un tempo presente, sforzo che tende in genere ad andare troppo in avanti, magari non cogliendo appieno le vere mutazioni. Nella Parigi di Verne se si guarda la televisione (o qualcosa di simile) si scrive ancora con la penna d’oca, ma in fondo i cittadini sono soli e alienati… Certo non è il 1984 di Orwell, ma quello davvero è un altro piano.
Il loro valore è complesso, diseguale, in una lettura del futuro che ha mille sfaccettature: “Alla science-fiction, per essere profezia, mi sembra manchi il carattere univoco che hanno avuto le profezie in ogni tempo, fin dall’epoca delle Sibille e dei profeti biblici. Profetare significa leggere un solo futuro nell’intera, misteriosa, omogenea complessità del presente: e impegnarsi su quel futuro, e non su un altro. La profezia può essere, e lo è quasi sempre, ambigua, ma non mai pluralistica. Come può conciliarsi con la funzione profetica la contraddittorietà delle infinite ipotesi che la science-fictionaffaccia continuamente, le migliaia di futuri ch’essa ci prospetta? Un medesimo autore può ‘anticiparmi’, di volta in volta, ad esempio: la conquista dell’immortalità ad opera della scienza per l’anno seimila; la distruzione della civiltà meccanica tra mezzo secolo per effetto di una guerra atomica, e il ritorno dell’umanità a forme di esistenza preistorica, con l’inizio di un nuovo ciclo; la fine del mondo per domani mattina. La profezia che si avvera non è una casualità, ma il risultato della difficile lettura di un’unità profonda, viscerale, nell’infinita complessità della realtà presente, autenticata e riconosciuta nel suo successivo divenire. La previsione della science-fiction che risulterà esatta è o lo sviluppo di un’ipotesi o il verificarsi di una probabilità statistica. Man mano che il futuro ‘incomincia’ e si integra alla nostra esistenza presente, è la stessa struttura della science-fiction a bruciare e a consumarsi.” (Sergio Solmi, 1959).
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Ma oggi c’è qualcuno che si ingegna a immaginare le nostre città nel futuro? Anzi, chi potrebbe o dovrebbe farlo? Gli scrittori ancora? o altre categorie di professionisti?
Gli scrittori di oggi certo no, affaccendati in altre cose: affaccendati a scrivere dell’orto dietro casa figuriamoci se sono in grado di guardare oltre la siepe.
Ma se Giacomo Leopardi, duecento anni fa, proprio nel 1819, poco più che ventenne, fu in grado di vedere l’infinito oltre la siepe del giardino forse proprio chi di mestiere narra dovrebbe poter mostrarci cosa potrebbe accadere magari tra qui e venti anni…
In Italia in passato chi ha provato a guardare avanti è stato un rejetto, scartato dal bel mondo dell’editoria: Guido Morselli, suicida nel 1973 e postumo nel 1974 con Roma senza Papa…
In realtà a ben pensarci tra Orwell e Morselli più che utopia è ucronia: immaginare un futuro come “se” il passato avesse avuto in un punto uno scarto.
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Nel 1971 esce a Firenze un piccolo volume, poco più di cento pagine, pubblicato dalla storica casa editrice Sansoni e intitolato Firenze ’80. Il futuro della città.
La copertina riporta in bianco e nero la siluette di un ponte, ben riconoscibile oggi, anche per un particolare sotto le sue arcate: un tempietto ben noto: si tratta infatti di una rappresentazione del Ponte dell’Indiano. Il progetto – degli architetti Adriano Montemagni e Paolo Sica e dell’ingegner Fabrizio de Miranda – aveva vinto un concorso del Comune di Firenze del 1968. I lavori inizieranno nel 1972 per terminare nel 1978, con il collegamento nella prima fase di Peretola e Isolotto.
Nel frontespizio il titolo diventa Firenze ’80. Inchiesta sul futuro della città, e sono indicati i curatori: Dino Terra, Lelio Lagorio, Giovanni Michelucci, Agostino Palazzo, Guido Morozzi, Ugo Procacci.
Non so se molti dei nostri lettori sanno chi sono questi personaggi, magari salvo i più noti davvero, come Michelucci o Lagorio… ma si tratta certamente di un gruppo di lavoro di altissimo livello, raro nei progetti attuali.
Questo gruppo realizza e propone a una serie di figure chiave di Firenze della fine degli anni Sessanta un questionario, per tentare di capire come sarà la città di dieci anni dopo.
L’idea, e questo è interessante, parte da uno scrittore, Dino Terra, pseudonimo di Armando Simonetti, romano (1903) ma trasferito dal 1960 a Firenze, dove muore nel 1995, amico di artisti d’avanguardia, come Marinetti e Anton Giulio Bragaglia.
Lelio Lagorio (1925-2017) è stato una figura di spicco del Partito Socialista Italiano, sindaco di Firenze dopo La Pira (1965), primo presidente della Regione Toscana (1970-1978), più volte ministro.
Di Michelucci sappiamo tutto, avendo anche scritto della sua idea di città in un numero precedente di questa rubrica.
Agostino Palazzo era un sociologo (1921-2005), preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.
Guido Morozzi (2002†), architetto, soprintendente per i monumenti della Toscana dal 1964 al 1973, quindi anche nell’anno dell’alluvione di Firenze.
Ugo Procacci (1991†) infine è stato storico, soprintendente, allievo di Gaetano Salvemini, teorico del restauro e promotore dei recuperi post alluvione.
Mi sono dilungato su queste personalità sia per mostrare il loro valore specifico, sia per sottolineare come quasi tutti avessero operato nel difficile frangente dell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966. Questi aspetti, uniti anche per alcuni a esperienze immediatamente post belliche, quando c’era da ricostruire un’intera nazione, e non solo fisicamente, ci mostrano una squadra in grado di proiettare Firenze dieci anni e anche venti anni in avanti, di intercettare nuovi bisogno concreti.
Il questionario proposto era complesso, perché doveva concretamente tracciare le linee di una nuova città, doveva essere nell’idea dei curatori un documento di lavoro e non un mero esercizio intellettuale.
L’alluvione aveva evidenziato carenze strutturali, anche nel rapporto tra centro e periferia, ma allo stesso tempo aveva nella sua tragicità messo in moto una macchina di ricostruzione e ristrutturazione che col senno di poi si sarebbe mostrata essenziale, pur con limiti, e interruzioni.
In una città come Firenze il rapporto, la rete di relazioni tra “dentro” e “fuori”, capire questo modello, è essenziale per pianificare ad esempio le corrette linee di spostamento dei cittadini (e non solo). Una rete tranviaria che arriva oggi dalle periferie (Scandicci, Peretola, per ora) solo alla stazione di Santa Maria Novella senza inoltrarsi, in superfice o in galleria, nel centro è un grave errore: in tutte le città europee le metropolitane in genere sotterranee attraversano i centri storici in molteplici direzioni: Milano ha una fermata di fronte al Duomo, a Firenze di fatto raggiungibile solo a piedi.
Luciano Bausi, sindaco di Firenze – figura di grandissimo spessore, assessore all’urbanistica e al patrimonio con Giorgio La Pira, Lelio Lagorio e Piero Bargellini e poi appunto sindaco dal 1967 (e fino al 1974), con il dopo alluvione – in un denso intervento pone proprio l’accento sul rapporto dentro/fuori. Bausi sa esattamente di cosa parla, le sue esperienze di assessore durante l’alluvione gli mostrano la mutazione della città con un evento che ha fatto “saltare il banco”. Dopo il 1966 il “codice” Firenze viene in parte riscritto con regole nuove: Bausi evidenzia come il “centro” debba essere città e non un mondo a parte, che debba essere legato alla periferia e alla regione, non un museo da difendere da tutto e tutti, ma tessuto vivo. Questa straordinaria visione purtroppo negli anni viene sopraffatta appunto dalla città museo, intoccabile, sacra, dove nessuno deve vivere dopo il coprifuoco. In quest’ottica Pripyat è la città perfetta, come Pompei: visitabili, ma con regole fisse, vuote dopo il tramonto. Se Bausi oggi vedesse Firenze penserebbe a un’ucronia dopo quel 1971, così come gran parte delle figure sin qui citate.
Michelucci e Palazzo, in un intervento congiunto dal titolo di Ipotesi strumentali sul futuro di Firenze, che è una lezione universitaria più che una semplice riflessione, in una serie di rimandi sempre più ampi collocano la città nel contesto della regione – aspetto anche amministrativo: dal 1970 le regioni sono organi di governo – proiettando le “visioni”, i piani (sociale, culturale, politico) che si esplicitano e la rendono viva. Si tratta, dicono gli autori, anche loro, di scegliere se Firenze sarà un bene archeologico o ancora una città vivente, dove l’ethos si modifica, si ravviva o perde di significato, stretto tra uso pubblico e uso privato della città.
Non è possibile qui riassumere anche a grandi linee ogni intervento, ogni sfumatura degli altri autori che partecipano, non solo i curatori del progetto bensì coloro che hanno fattivamente risposto al questionario, come una nutrita schiera di politici, per la DC, il PCI, il PLI, il PSDI, sigle che oggi sembrano archeologia, ma che nel 1971, con differenze, orrori, diffidenze, tenevano vivo il dibattito locale e nazionale.
L’ingegnere capo del comune di Firenze, Giulio Lensi Orlandi – figura certamente significativa e particolare, studioso di etruschi e esoterismo – chiude il suo intervento con un’agghiacciate profezia: “Se quanto ho detto sarà solo una voce al vento non facciamoci soverchie illusioni per una Firenze del 1980 o giù di lì; sarà press’a poco quella d’oggi, più grande, più sudicia, più assetata, più antipatica, con più bancherelle e meno benessere, con più scontenti e più ribelli. Una Firenze sul tramonto che non c’invidierà nessuno.” (p. 68).
In senso più generale le risposte al questionario, e lo evidenzia nelle conclusioni del volume Lelio Lagorio tirando le somme con un po’ di amaro in bocca, sono abbastanza generiche, non si addentrano, salvo alcuni, in analisi più puntuali, in proposte anche di rottura. Emerge una visione di una città da salvare, soprattutto in qualche modo da collocare in un più ampio contesto regionale, dato appunto dalla riforma delle regioni. Per alcuni Firenze appare paradossalmente una tautologia, ancora un mondo chiuso che teme il nuovo ruolo di “capitale” della regione, così come temette quella del Regno d’Italia nel 1865. Lagorio pone criticamente l’accento su come per il PCI il futuro amplificherà lo scontro tra “la classe operaia toscana e fiorentina” e il “grande patronato”, in una visione ancora del tutto ideologica, e questo pare essere un problema che si mostra anche negli altri interventi, con una marcata settorialità: ognuno difende la “sua” Firenze, non provando a immaginare una città di tutti.
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Se questa fosse una recensione (postuma) al volume dovrei mettere in evidenza ulteriori aspetti critici del progetto, che ci sono, appunto nelle molteplici visioni che appaiono negli interventi.
Il più grande “difetto” del volume è quello di mostrare un’ingenuità di fondo, data da un forte ottimismo e una radicata speranza per il futuro, che però non si traduce in una visione più globale di un’umana e generale felicità, per dirla con alcuni saggisti del Settecento.
Dopo l’alluvione del 1966, nelle prime fasi, rapide, della ricostruzione, si vede Firenze come immortale, e questo aspetto condiziona fortemente la possibilità di analisi critiche quanto reali: i politici fanno i politici, i tecnici i tecnici e i mondi non si incontrano.
Certo, si intravedono aspetti non marginali che possono condizionare lo sviluppo, come una prevista variazione demografica e una nuova espansione territoriale, ben definita da Giancarlo Cassi, presidente della Camera di Commercio, che fa notare come Firenze perderà abitanti che si indirizzeranno nei comuni limitrofi, dato ben evidente 50 anni dopo, trend che dovrebbe e potrebbe essere opportunamente guidato secondo l’autore per non spopolare il centro.
Critico anche l’intervento di Giacomo Becattini, direttore dell’Irpet, fondato nel 1968, che evidenzia come sia quasi impossibile tracciare facili linee per lo sviluppo non solo di Firenze, ma della Toscana intera, dato che la città ne è una parte e non un blocco isolato.
In questo senso Becattini critica un approccio troppo generalista, per intravedere un “futuro” per la città, evidenziando poi, e questo aspetto è davvero molto interessante, come lo sviluppo futuro non sia “il mero prolungamento del presente”. Si tratta di una cosa molto più complessa e articolata, dove è necessario tener conto di più aspetti: “Ebbene, per tornare al questionario, la domanda sulla Firenze dell’80 è mal posta non ha senso. Il fatto curioso è che, mentre ogni architettucolo capisce benissimo l’assurdità di un progetto di abitazione per una famiglia in cui non siano note la composizione, le attività, i gusti e così via, molti, troppi, quasi tutti gli urbanisti grandi e piccoli, accettano l’incarico di disegnare città, conurbazioni, regioni intere, di cui si sa pochissimo o niente. La proliferazione dei progetti, dei disegni, delle invenzioni non è, in tal caso, un contributo alla razionalizzazione della realtà sociale, ma un ulteriore contributo alla confusione delle idee” (p. 78). Come si vede Becattini ce n’ha per tutti e oltre rincara la dose, evidenziano paradossalmente che le ucronie contano ma vanno allo stesso tempo tenute a bada: “Anticipare il discorso di Firenze, enucleare l’area metropolitana fiorentina dal discorso regionale e nazionale, significherebbe ancora una volta privilegiarla: confermare una storia che dopotutto è solo uno degli infiniti sentieri che l’umanità avrebbe potuto percorrere. Ed è terribilmente importante, oggi, all’inizio di una nuova fase della nostra storia, far sì che il passato giochi il suo ruolo ‘buono’ di sostegno al presente, non quello ‘cattivo’ di prigione del futuro.” (p. 79).
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Per concludere voglio riportare da un mio saggio recentemente pubblicato alcune considerazioni su potere e utopia, che si collegano a quanto espresso sino a qui.
“L’esortazione di Breton all’incertezza non è poi così lontana a quella presentata – in momenti storici di svolta, specie tra Settecento e Ottocento – da una vasta schiera di personaggi in Europa e in Italia anche, che prevedevano con data e ora una qualche fine del mondo, dettata non da scontri tra angeli e demoni bensì più prosaicamente da nuove forme di governo. Questa non era da intendersi però come il fisiologico termine di un ancien régime, bensì proprio di una fine dei tempi dettata da nuovi modelli politici: è il caso di Giuseppe Cappelletti (Venezia, 1802-1876) che preconizza le fasi iniziali della fine mondo nel 1860, in vista di un’unità nazionale della penisola, oramai non troppo lontana, e non certo utopica (Cappelletti, G. (1859) Sulla fine del mondo. Studi biblici. Verona: Civelli.). Il suo problema tuttavia sta appunto nell’indicare la data del 1860 in un libro datato nel finale 28 dicembre 1859 e dunque uscito proprio nel 1860. In questo senso il progetto politico di fine del mondo di Cappelletti è a posteriori l’elogio di una incertezza che si lega a modelli irrazionali di calcolo di un futuro possibile o certo per alcuni, ma che alla prova dei fatti slittano sempre oltre, in una visione duplice tra utopia e espressione artistica, dove il possibile onirico è forte e definito (Hoffman, F.J. (1948) From Surrealism to “The Apocalypse”. A Development in Twentieth Century Irrationalism. ELH, 15, No. 2: 147-165.).” S. Fagioli, Intermezzi profetici. Appunti sull’incertezza nella poetica/politica del Surrealismo (e di Breton), in “Archivio per l’Antropologia e la Etnologia”, CXLVIII, 2018, p. 97.
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Solo Riformisti dovrebbe farsi promotore di riproporre, opportunamente aggiornato, il questionario del 1971 alla nuova Firenze, a quelle personalità che oggi hanno davvero un ruolo attivo in città, non solo figure istituzionali, ma intellettuali di alto spessore (dico, polemicamente, ammesso ci siano davvero), magari ripubblicando integralmente, ma annotato, il volume del 1971 e facendo poi il punto su ciò che è accaduto in quasi 50 anni e cosa potrebbe accadere da qui a venti anni, o verso quel 2050 che oggi è, come data, tanto di moda.
Nell’immagine il Ponte dell’Indiano come appare sulla copertina del libro.
Firenze ’80. Il Futuro della città, Firenze, Sansoni, 1971.
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1 Il conflitto sul sistema pensionistico in Italia, iniziato con l’opposizione alla riforma Amato nel 1992, ha avuto il suo culmine nell’autunno 1994 con uno sciopero generale (il 14 ottobre) e una grande manifestazione a Roma (il 12 novembre) contro il governo Berlusconi. La riforma Dini del 1995 (legge n° 335) ha mutato le regole del gioco pensionistico ed ha placato, ma solo temporaneamente, il dibattito e le polemiche. I mutamenti introdotti dalla legge Dini sono infatti molto – troppo – graduali: saranno applicati integralmente solo fra trenta e piu anni. Permangono nel frattempo iniquita e privilegi e, in prospettiva, deficit e «gobbe», ovvero squilibri finanziari di rilevanti dimensioni per i bilanci degli enti previdenziali e dello Stato.