Ci sono state svariate prese di posizione sulla stampa da parte di specialisti in tema di Eurobond e istituti simili per sostenere le ingenti spese dovute all’emergenza COVID-19 e alla successiva ricostruzione del tessuto economico, per cui non è facile districarsi agevolmente sull’argomento. Senza chiarezza l’opinione pubblica può venire distorta, tanto più che è bombardata da interventi nei talk show televisivi da parte di una corte dei miracoli e di apprendisti stregoni, che non meriterebbero attenzione se non fosse che quanto più diffondono inesattezze quanto meno vengono smentiti da improbabili giornalisti conduttori.
Le posizioni serie si collocano su due lati distinti di ragionamento. Da un lato ci sono i sostenitori di un intervento diretto con emissione di titoli del debito pubblico europeo a lunga scadenza, meglio se irredimibili (Monti, Tabellini, Draghi per indicare i più autorevoli), e dall’altro i contrari a questa soluzione. Per la verità questi ultimi si distinguono in due gruppi: gli scettici, se pur europeisti convinti (Bini Smaghi), che sottolineano le difficoltà della soluzione Eurobond (che ci sono tutte), e i di fatto antieuropeisti che ragionano come se non fossero in un’Unione monetaria. Questo sottogruppo esce poco sui giornali ma influenza in modo sostanziale l’atteggiamento dei politici tedeschi e del Nord Europa.
C’è poi una posizione intermedia alla quale farò riferimento non perché il mio cuore stia in mezzo (il mio cervello forse un po’ si) ma perché è utile per districare la matassa. Si tratta del saggio a più mani su Vox Cepr Policy del 21 marzo a firma di alcuni tra i più autorevoli economisti della materia, da Benassy-Quéré, a Fuest, Marimon, Pisani-Ferri e altri, tra cui due studiosi italiani Francesco Giavazzi e Lucrezia Reichlin. In questo saggio si condividono le indicazioni di gravità e urgenza della situazione sottolineate da Draghi e dagli altri e si traccia la via per un intervento pubblico a livello europeo, in particolare prospettando due percorsi da intraprendere in successione temporale.
Una prima via che chiameremo di First best prevede la soluzione della mutualizzazione diretta della risposta da dare alla crisi, con la creazione di un veicolo sotto forma di un Fondo europeo finanziato dai paesi membri e capace di prendere a prestito con l’emissione di debito con responsabilità comune dei paesi dell’Eurozona, Eurobond quindi, o qualcosa di simile. Le risorse del Fondo verrebbero allocate ai paesi membri in proporzione alle necessità della crisi sanitaria ed economica. Le difficoltà di questa soluzione sono quelle indicate da Bini Smaghi. Il debito, non basandosi nel lungo periodo su un flusso di entrate tributarie che arrivano al Fondo in forza di una legge europea che declina un vero e proprio sistema fiscale europeo, la così detta European fiscal capacity, non avrebbe le stesse garanzie risk free che il solido sistema fiscale tedesco attribuisce ai bund decennali.
Un debito pubblico europeo richiede un’istituzione finanziaria che raccoglie entrate tributarie e le alloca per il servizio del debito. Inoltre, la destinazione delle risorse del Fondo nei vari capitoli di intervento nei singoli paesi dovrebbe essere coordinata a livello europeo e questo è molto difficile in specie per i capitoli di spesa corrente.
In altre parole, non è facile istituire rapidamente un vero e proprio bilancio federale europeo anche se sarebbe fortemente auspicabile. Gli stessi fautori della soluzione Eurobond, a cominciare da Draghi, non hanno indicato come sarebbe stato risolto questo delicato aspetto, pur essendone assolutamente consapevoli.
Gli autori del saggio citato su Vox Cepr Policy hanno quindi prospettato una soluzione di Second best da mettere in atto nelle more del complicato processo di istituzionalizzazione degli Eurobond: una linea di credito del Meccanismo europeo di stabilità (MES) specifica, dedicata al reperimento delle risorse all’emergenza da pandemia, la così detta Covid Credit line. L’allocazione delle risorse avrebbe luogo in proporzione alla severità dei problemi sanitari ed economici dei singoli stati. Si tratterebbe di una linea di credito di durata molto lunga, con condizioni di accesso molto leggere e condizionalità ex-post molto limitata. In particolare, gli stati sarebbero chiamati solo ad essere trasparenti nell’uso della linea di credito e di non introdurre surrettiziamente misure di riduzione delle imposte o di aumento di spese non correlate al Covid-19 (per fare un esempio la nazionalizzazione di Alitalia). La lunga durata del prestito non richiederebbe ai singoli stati di emettere debito non safe per finanziare il rimborso del valore nominale che vanificherebbe tutti i benefici del prestito garantito MES. Attualmente le risorse del MES ammontano a 410 miliardi di euro pari al 3,4% del PIL dell’Eurozona ma questa capacità potrebbe essere però integrata con intervento di tutti gli stati in proporzione. All’Italia, azzardo, potrebbero arrivare dai 50 ai 75 miliardi di prestiti.
La gravità della situazione, ogni giorno che passa sempre più ampliata, indica come la soluzione di Second best della linea di credito dedicata MES non possa che essere un primo passo da integrare e superare una volta che la soluzione di First best, gli Eurobond, sarà operativa, perché a quella l’Europa dovrà arrivare, meglio prima che dopo.
L’Italia giunge a questa intricata fase con tre debolezze. È il paese che sta, finora, sperimentando la perdita più ampia; è il paese membro dell’Eurozona che, prima del Coronavirus, registrava l’andamento più debole dell’economia, frenata da irrisolti problemi strutturali; è il paese con il più alto rapporto Debit/PIL (135% che arriverà al 150% dopo i recenti decreti), originato da lontano ma ribadito e aggravato dalle politiche economiche degli ultimi due governi, tutte spesa corrente ad effetto nullo sul PIL. Queste debolezze che, è bene sottolineare, non si rimuovono come d’incanto eliminando le regole del Patto di stabilità e crescita, pongono il paese in una posizione di grande vulnerabilità. Aggravata da una quarta debolezza: ¾ dei partiti in Parlamento (nell’opposizione e nella maggioranza) non aspettano altro che incolpare l’Europa di tutti i nostri problemi e non intendono, sostanzialmente, operare all’interno di istituti comuni, per quanto riformati.
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