Le nuove regole di disciplina fiscale europee (Nuovo PSC), in discussione presso il Consiglio di Europa, la ratifica del trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (MES), con l’Italia unico stato membro a non avere ancora preso la decisione, e l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) sono le tre questioni più importanti nelle relazioni tra Italia e Unione Europea che il governo Meloni deve affrontare e risolvere a breve termine. Sono tre questioni tra loro collegate e sono dei veri e propri banchi di prova per il nostro paese.
Nelle pagine che seguono tratterò le tre questioni separatamente in modo da far emergere la delicatezza del momento e fornire elementi per valutare le azioni del nostro governo, forse non del tutto consapevole del passaggio stretto che deve varcare. In concreto, non siamo in grado, qualora lo volessimo, di professare intenti sovranisti in questa materia: le conseguenze potrebbero essere molto negative per adesso e per il futuro.
NUOVO PSC
Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, in primo luogo, istituisce un’unica regola di disciplina fiscale in sostituzione delle tre macchinose del Fiscal Compact, basata su una dinamica annuale della spesa pubblica nominale ancorata al tasso di crescita reale del PIL, all’inflazione attesa, e al conseguimento di un obbiettivo graduale di convergenza del debito su PIL verso un benchmark definito (che di fatto rimane il 60% di Maastricht). Si abbandona dunque il saldo strutturale come indicatore di policy, l’output gap come riferimento base, e si lascia variare il livello delle entrate pro-capite lungo l’andamento del ciclo, per concentrare la sorveglianza sull’andamento della spesa pubblica. La formula ha il pregio della semplicità, della trasparenza e della flessibilità.
In secondo luogo, il nuovo Patto prevede che, ogni anno, il governo di uno stato membro con un alto livello del debito proponga un obbiettivo di medio termine di riduzione del debito su PIL. Il piano ha uno sviluppo quadriennale, ma può essere esteso a sette anni se il profilo di riduzione del debito è accompagnato da riforme strutturali concordate. In sostanza è la logica che caratterizza il NextGenEU: maggiore gradualità in cambio di riforme.
Il piano è vagliato dalla Commissione europea sulla base di diversi parametri, come la distanza tra l’attuale debito su PIL e l’obiettivo a lungo termine (nel senso che un gap più elevato richiede un più ambizioso aggiustamento); un’ampia analisi della sostenibilità fiscale, dando credito agli stati che pongono in essere riforme strutturali che favoriscono la solvibilità e la crescita del PIL potenziale, e un’analisi della situazione economica. La Commissione presenta le sue conclusioni in merito ai target di riduzione del debito per ciascun stato al Consiglio che approva. Ciascun governo prepara una proiezione della crescita a medio termine del PIL, dell’inflazione attesa, e una possibile correzione ciclica, quando le condizioni iniziali differiscono in modo marcato dall’equilibrio di lungo periodo. Dato l’obbiettivo di medio termine sulla riduzione del debito, si definisce un coerente sentiero di crescita della spesa pubblica nominale e lo si usa per definire un tetto per gli anni successivi, da utilizzare per la predisposizione dei saldi programmati di bilancio.
La spesa pubblica sotto controllo è calcolata al netto della spesa per interessi, della spesa per gli interventi contro la disoccupazione, dell’impatto atteso di ogni cambiamento discrezionale sulle entrate (basi imponibili e aliquote) e di una quota concordata di investimenti pubblici per la transizione ecologica e digitale. I primi due aggiustamenti tendono ad una più evidente anti-ciclicità della regola, che esclude l’effetto di misure strutturali sulla spesa pubblica. In effetti, le simulazioni effettuate mostrano come la regola abbia buone proprietà anti-cicliche di fronte a shock inattesi della domanda. Il terzo aggiustamento è volto ad eludere manipolazioni delle regole fiscali (per esempio tagli pre-elettorali) che non sono compensate da riduzione di spesa. Per quanto riguarda gli investimenti pubblici, questi possono andare a ridurre la spesa regolata tramite un accordo con la Commissione. La concessione di portare in deduzione gli investimenti, che riproduce la così detta golden rule, non è dunque automatica ma avrebbe carattere più sistematico dei semplici margini di flessibilità concessi fino al 2019, per meriti di “buona condotta”.
Il ministro Giorgetti ha espresso un parere piuttosto favorevole del nuovo Patto dato che le stime per l’Italia prevedono contrazioni annue tutto sommato sostenibili del debito su PIL dallo 0.5% (sette anni) allo 0,8% (quattro anni), ma è ancora presto per i numeri veri. Tuttavia, molti mugugni sono presenti nella maggioranza (e non solo) che vede l’austerità e la famigerata troika un po’ dappertutto. Ma non c’è molto da scherzare perché la riforma è rivolta in modo esplicito proprio a noi e ancora non soddisfa la Germania e altri paesi “frugali” e quindi non possiamo tirare troppo la corda.
Ratifica del MES
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES) è stato creato nell’ottobre del 2012 per rafforzare l’istituzione temporanea di intervento (l’EFSF) per la crisi dei debiti sovrani. Il MES è regolato da un Trattato ad hoc, richiamato nel Trattato del Fiscal Compact. E’ quindi esterno alla Commissione europea e al Parlamento europeo, una specie di FMI europeo di cui si sono avvalsi l’Irlanda, la Grecia, la Spagna e Cipro. Nel 2018 il MES è stato riformato per ampliare le sue funzioni e ora, dopo lunghe trattative sfociate nell’accordo del 27 gennaio del 2021, attende la ratifica di tutti gli stati membri. In realtà, solo l’Italia continua inspiegabilmente a tergiversare bloccando quindi la riforma, per gli stessi motivi, diciamo psicanalitici, che alimentano le diffidenze verso il nuovo PSC. Malgrado una colpevole disinformazione alimentata da “esperti” di vari partiti presenti in Parlamento (sinistra radicale, 5S, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia), la ratifica del Trattato è cosa bene diversa e non implica l’utilizzazione del “salva stati”.
Il MES svolge la funzione di “prestatore di ultima istanza” nell’Unione Monetaria, per cui, tranquillizzando i mercati, rende meno probabile il ripetersi di situazioni di crisi. Segue una logica di assicurazione, ma rappresenta un importante fattore di solidarietà e di divisione del rischio sovrano. La solidarietà dei paesi più solidi dell’Eurozona, a cominciare dalla Germania che è il suo principale contribuente, nei confronti dei paesi più fragili, tra cui il nostro, deriva dal fatto che, a differenza di una normale assicurazione, i contributi al capitale del MES non sono commisurati alla rischiosità di ogni assicurato, ma dipendono esclusivamente dalle dimensioni del paese in termini di PIL e popolazione. Le possibilità di intervento del MES sono notevoli: l’ammontare impiegabile è un multiplo del suo capitale (417 miliardi di euro) dato che può emettere obbligazioni sui mercati internazionali a tassi molto convenienti e con scadenze molto lunghe. Ciò è reso possibile, oltre che dalla dotazione di capitale, anche dallo status di creditore privilegiato di cui gode l’istituzione, secondo solo al Fondo Monetario Internazionale.
Per quanto riguarda l’Italia i vantaggi del meccanismo riformato sono numerosi ed evidenti. Il più importante è che, pur gravata da un elevato debito su PIL, gode di una potenziale linea di credito che potrà venire in aiuto se ne presenteranno le circostanze. Non si prevede alcun nesso automatico tra richiesta di assistenza finanziaria al MES e ristrutturazione del debito pubblico. Ma vi sarà un’analisi di sostenibilità del debito paese che fa richiesta di assistenza, ovvero si valuterà se, grazie agli aiuti europei e alle misure concordate, un paese sarà in grado di riportare il rapporto tra debito pubblico e PIL su una traiettoria discendente, tale da scongiurare una futura insolvenza. Solo se questa valutazione desse un esito negativo, prima di accordare il prestito si dovrebbe procedere a ristrutturazione del debito, con costi per i detentori dei titoli come il taglio del valore delle obbligazioni e/o degli interessi, e un allungamento delle scadenze di rimborso.
La riforma del MES ha anche una rilevanza ai fini dell’Unione bancaria, infatti il MES può erogare prestiti al Fondo europeo destinato a gestire le crisi bancarie: il Single Resolution Fund (SRF). Questa è una novità positiva e da tempo richiesta nel dibattito europeo da paesi come il nostro. Essa consente al SRF di disporre di una linea di sicurezza (common backstop) in caso esaurisca le sue risorse. Il fatto che questa sia fornita dal MES implica una prima forma, seppure limitata, di condivisione dei rischi paesi dell’Eurozona. Finora, le risorse fiscali usate nelle crisi bancarie erano solo quelle nazionali. Comunque, il completamento dell’Unione bancaria richiede anche altre riforme, a cominciare dall’introduzione di una assicurazione europea dei depositi (EDIS). Finora, però, non si è andati oltre la proposta di un sistema di prestiti che interverrebbe in seconda battuta, una volta esaurite le risorse dei fondi di assicurazione nazionali.
La Meloni a un certo punto ha strumentalmente dichiarato di condizionare la ratifica del MES all’istituzione dell’EDIS, ben sapendo che tale riforma è al momento molto controversa. In realtà tenta di incrociare l’accordo sul nuovo PSC con il via al MES. Nella decisione sulla ratifica dobbiamo prendere atto del fatto che noi siamo dei concreti potenziali utilizzatori del meccanismo. Se facciamo saltare tutto non firmando il Trattato saremo i primi a pagarne le conseguenze: i mercati avranno un motivo in più per non fidarsi di noi e vendere i nostri titoli.
Attuazione del PNRR
Nelle difficoltà di attuazione dei progetti nel paese (il tasso di attuazione degli investimenti PNRR raggiunge a fine 2022 a stento il 5%) emerge l’assenza in alcune realtà territoriali della funzione di coordinamento, assistenza e consulenza della regione nei confronti dei 6 seimila comuni impegnati nell’attuazione dei bandi. Le regioni, dove un minimo di cooperazione inter istituzionale ha funzionato, come in Toscana, i risultati in termini di attuazione dei progetti PNRR sembrano meno negativi, se pur non esaltanti.
In Toscana sono stati finanziati 4983 progetti nelle sei missioni, diffusi capillarmente nel territorio, per una ammontare di 6,3 miliardi di euro. Oltre il 60% dei progetti riguarda le infrastrutture sociali (scuole, asili nido, sanità), ma in termini di risorse il ruolo più importante è svolto dalle infrastrutture di trasporto dove vi sono alcuni grandi progetti (tramvia di Firenze in primis). A gennaio 2023, il 24% dei progetti sono stati avviati (63,7% per i lavori pubblici). Tuttavia, di quasi 3000 progetti predisposti nel 2022, solo circa il 10% ha superato la fase di progettazione e di studio di fattibilità. Ovviamente ancora più lente sono le fasi di cantierizzazione e di spesa che vedrà il massimo impegno nel 2023-2024. Tuttavia, secondo stime IRPET, in Toscana, occorrerebbe quasi triplicare la velocità di spesa al fine di ottenere che almeno il 95% delle risorse assegnate venga speso nei tempi previsti. Nelle regioni del Sud cui è destinata una riserva del 40% delle risorse le capacità di spesa è notevolmente meno efficace.
Il Decreto PNRR 3 recentemente varato sulla semplificazione e la governance introduce delle misure per il rafforzamento della capacità amministrativa dei Ministeri, nonché delle PA interessate, per l’attuazione dei progetti PNRR. Lo strumento prevalente è ancora la possibilità di effettuare assunzioni straordinarie dell’amministrazione centrale con qualche ricaduta nei soggetti attuatori dei piani. Queste misure non sembrano del tutto efficaci: un ingegnere informatico in un piccolo comune non può garantire granché per la formulazione e implementazione dei progetti. Servono uffici attrezzati a livello sovracomunale con competenze specifiche nel campo della valutazione ex-ante ed ex-post dei progetti. Ma questi uffici non sono stati istituiti, inoltre tra il 2020 e il 2022, il 71,6% dei posti banditi per architetti e ingegneri per il reclutamento straordinario sono rimasti scoperti perché proposti solo a tempo parziale. In effetti, il Decreto PNRR 3 interviene allungando la durata di questi contratti e anche per assicurare il supporto ed assistenza tecnica agli enti locali destinatari delle risorse. Ma lo fa paradossalmente attraverso le Prefetture e gli Uffici territoriali del governo cui è fornita la capacità di avvalersi di assistenza tecnica della Consip per superare le attuali criticità. Vengono quindi definitivamente bypassate le regioni e le città metropolitane.
Il ministro Fitto predisporrà e porterà in Parlamento una correzione del piano per tenere conto dei principali e invalicabili colli di bottiglia. Vedremo. Ciò che va invece fin d’ora contrastata è l’idea, da più parti enunciata, che convenga rinunciare a una parte dei fondi in quanto debito da restituire.
In primo luogo, perché è vero che così di ridurrebbe il debito sul PIL, ma essendo il debito NextGenEU il meno costoso della storia, con che faccia si emetterebbe nuovo debito (3/4 volte più costoso) a qualche mese di distanza per ripagare i titoli in scadenza o per finanziare l’ennesimo scostamento di bilancio? Intendono i proponenti di non ricorrere più al debito pubblico in futuro? Sarebbe lodevole, ma non credo vero.
In secondo luogo, l’idea della rinuncia trascura il carattere che è invece alla base del Dispositivo applicativo del NextGenEU e cioè il conseguimento di risultati non solo di tipo quantitativo sull’ammontare degli investimenti ma anche di tipo qualitativo (gli equilibri tra le 6 missioni e le 16 componenti, e la combinazione di targets e milestones). Quindi tutto si tiene nel PNRR. Bisogna, peraltro sottolineare che, se dagli incrementi di spesa si registrano gli effetti moltiplicativi sul PIL, è dagli investimenti attuati e operativi e dalle riforme strutturali ancora “al palo” (fisco, concorrenza e pubblica amministrazione), che si avranno gli aumenti della produttività di cui il paese ha soprattutto bisogno. In conclusione tutto il PNRR, essendo performace based e non expenditure based, ha una sua coerenza interna che sarebbe compromessa da una serie di “sforbiciate” indotte dalla incapacità amministrativa e dall’inefficienza dei soggetti attuatori.
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