Il tema delle energie, al plurale, riveste un significato simbolico adatto a descrivere quest’epoca complessa da un particolare punto di osservazione e con una visione che non intende arrendersi alla crisi, ma trarne gli insegnamenti, la consapevolezza e la forza necessari per cambiare paradigma. Un’impostazione di questo tipo permette di esaminare anche le vicende più recenti tenendo conto del contesto di ampia durata in cui si collocano e guardando al senso ambivalente delle crisi, cruciale punto di passaggio da un periodo a un altro di svolgimento dell’economia. Secondo Nikolaj Kondrat’ev, che studiò l’economia di mercato capitalistica sulla base della teoria delle onde lunghe (i “supercicli”), l’inversione di tendenza tra la fase discendente e quella ascendente di un ciclo era determinata essenzialmente dall’evoluzione delle invenzioni e delle tecnologie applicate al processo produttivo, in grado di rianimare il sistema. Questa concezione di tipo dinamico forniva all’interpretazione delle crisi una chiave avanzata di lettura, che non negava gli squilibri provocati da cause endogene, né, all’opposto, implicava l’ineluttabilità di un crollo, ma contemplava la possibilità di una riorganizzazione di fondo, capace di favorire la ripresa e una nuova fase di crescita.
Limiti dello sviluppo e innovazione
Le crisi sono, infatti, una caratteristica distintiva del capitalismo, che attraverso di esse può superare i limiti e le contraddizioni di un modello di sviluppo obsoleto, modificando l’assetto dell’economia e iniziando un percorso di sostanziale trasformazione. A questo proposito, Joseph Schumpeter sosteneva che le fluttuazioni economiche sono la necessaria conseguenza della rottura di un equilibrio stazionario e costituiscono la forma assunta dallo sviluppo nell’era capitalistica. Al centro di questa elaborazione compare la figura dell’imprenditore che, mediante un’opera intensa e concentrata di innovazione in risposta a difficoltà concrete, riesce a concepire nuove combinazioni di fattori produttivi e a rigenerare sistematicamente, mediante una “distruzione creatrice”, l’attività economica, la struttura e il funzionamento della produzione industriale. Questa rappresentazione sembra delineare i caratteri di un “inverno” come quello attuale – per richiamare il momento del collasso seguito da una contrazione, nella definizione dei cicli di lungo periodo – fornendo l’indicazione di una via di uscita dalla crisi proprio quando si affaccia la sua fase più difficile e tormentata.
L’energia positiva che può e deve sprigionarsi nel quadro dell’economia odierna rimanda a una riflessione sullo stato degli avvenimenti regressivi in atto e all’esigenza di contrastarli con efficaci strumenti di politica economica da parte dei governi e con un rinnovato protagonismo delle principali forze sociali, a cominciare dalle categorie produttive che hanno l’esperienza e la competenza indispensabili per affrontare condizioni di grande incertezza. Frank Hyneman Knight indicava nel compito peculiare dell’imprenditore questa capacità unica di gestire i processi di cambiamento durante una temperie imprevedibile e turbinosa. I fenomeni imponderabili (e, quindi, al di fuori anche della portata di un calcolo di rischio) susseguitisi in questi ultimi anni spingono all’assunzione di un ruolo di guida lungo territori inesplorati da parte di chi ha per propria missione la ricerca di soluzioni in situazioni di accentuata complessità e insicurezza. Decisori politici e istituzionali, imprenditori e studiosi, perciò, dovrebbero fornire un contributo collaborativo e sinergico alla costruzione di una prospettiva innovativa, collegandosi agli interessi e ai bisogni di un vasto arco di componenti sociali.
Processo di globalizzazione e modelli economici
Il contesto generale è rapidamente variato a causa della successione vorticosa di una lunga pandemia, di una guerra scellerata, di una crisi energetica complicata e di un’inflazione che non accenna a diminuire. Il processo di globalizzazione, che aveva già mutato di segno al termine del periodo del Washington Consensus con la ripresa di forme di intervento pubblico per fronteggiare la crisi del 2008-2014, sta conoscendo un’evoluzione del tutto inconsueta, fino a far ritenere plausibile a molti un ripiegamento verso confini spaziali più ristretti, di carattere continentale o nazionale, se non regionale. C’è chi amplifica l’incidenza di alcuni cambi di marcia, relativi al riassetto di catene di approvvigionamento più brevi o al rientro di imprese nei Paesi di origine, in quelli vicini o amici (reshoring, nearshoringo friendshoring). Tuttavia, se si considera la globalizzazione non semplicemente quale espressione di un modello economico storicamente definito, come quello incarnato dal neoliberismo, che l’ha accompagnata fino ai primi anni del nuovo millennio, ma un fenomeno di più ampie dimensioni, che poggia su innovazioni diventate ormai imprescindibili (le reti telematiche e la connettività, l’economia della conoscenza e l’intelligenza artificiale, la riduzione inarrestabile dei tempi di trasporto e di comunicazione), non si può pensare a un suo declino.
Del resto, la prima globalizzazione (1870-1913), pur svolgendosi in un’epoca in cui si era verificato un esteso ritorno al protezionismo, aveva permesso il dispiegamento di un volume di traffici internazionali mai visto in precedenza, grazie al poderoso motore produttivo innescato dalla seconda rivoluzione industriale e all’espansione del predominio delle principali potenze europee su una vasta parte del mondo, che diventava per loro mercato di fornitura e di sbocco. Perciò, ora come allora, non va confuso l’impulso alla prosecuzione di processi ed eventi economici su scala globale con la configurazione di peculiari indirizzi delle modalità di crescita. I teorici della deglobalizzazione devono fare i conti, innanzitutto, con l’entità stessa delle crisi attuali, che, come ha ricordato Mauricio Cárdenas, “sono veramente globali per portata e impatto” e le cui soluzioni “non dipendono più esclusivamente dalla competenza delle autorità economiche nazionali”. Di questa natura sono stati gli effetti del Covid-19, così come gli esiti calamitosi dell’inquinamento e del mutamento climatico, nonché le conseguenze di accadimenti politici, bellici, economici e sociali che si trasmettono facilmente da un lato all’altro del mondo, influenzandosi vicendevolmente. Anche fenomeni di valore fortemente positivo, come i progressi nella ricerca scientifica e tecnologica, le forme di contaminazione dell’arte e della cultura, le buone pratiche nella conduzione delle attività economiche o nella promozione della solidarietà sociale, hanno una dimensione che travalica i confini tra gli Stati e le distanze geografiche.
Invasione dell’Ucraina e irreversibilità della globalizzazione
Per Pinelopi Koujianou Goldberg, la globalizzazione, sopravvissuta alla Brexit, a Donald Trump e perfino alla pandemia, ha subito un blocco significativo a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Dopo la fine della guerra fredda, il processo di crescita globale aveva permesso una drastica riduzione della povertà estrema e favorito lo sviluppo dei Paesi emergenti dell’Asia, a cominciare dalla Cina. Ma anche in tempi difficili, secondo il Fondo Monetario Internazionale, il commercio mondiale, misurato dal rapporto tra le importazioni di merci e il Pil globale, si è dimostrato resiliente e, a partire dal 2019, è aumentato ancora. Il conflitto odierno ha modificato largamente questo scenario, erodendo le relazioni economiche internazionali e spostando l’attenzione sulle alleanze geopolitiche, con una pericolosa involuzione verso un inasprimento del livello dello scontro economico e militare. Le enormi responsabilità di Putin sono del tutto evidenti e, proprio per questa ragione, il mantenimento di un saldo coordinamento e la prosecuzione di uno sforzo unitario da parte dei Paesi europei è indispensabile.
Tuttavia, vi è chi sostiene, nonostante tutto e a meno dello scoppio di ostilità generali, l’irreversibilità della globalizzazione. Grzegorz Witold Kołodko è convinto che, terminato “l’attuale periodo di turbolenza – e i difficili adattamenti sociali, culturali, demografici e tecnologici che esso comporta – la globalizzazione economica riprenderà a decollare”. L’economista della Kozminski University sostiene che, rispetto agli anni di avvio di questo fenomeno, il volto della globalizzazione è cambiato sostanzialmente, facendo prevalere un’economia mondiale priva, però, di un adeguato sistema di governance globale. Egli descrive efficacemente i problemi dirompenti di questo momento: “È vero che la globalizzazione politica è in ritirata, spinta dalla pandemia di Covid-19, dalla nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina e dalla guerra calda in Ucraina, che ha stimolato l’imposizione di dure sanzioni alla Russia. È anche vero che questi shock hanno causato gravi sconvolgimenti economici; hanno ostacolato la produzione e la distribuzione di beni e servizi, ostacolato il trasferimento di tecnologia, testato gli accordi finanziari internazionali e minato la cooperazione multilaterale. Inoltre, l’opinione pubblica si è sempre più rivolta contro la globalizzazione, che molti erroneamente incolpano di tendenze come l’accelerazione dell’inflazione e l’aumento della disuguaglianza di reddito. Ciò ha spesso portato i responsabili politici a evitare il pragmatismo a favore del populismo e del protezionismo, le nemesi dell’apertura economica globale”.
A parere di Kołodko, però, mentre la globalizzazione politica si trova di fronte a uno stallo molto serio, la globalizzazione economica ha smarrito solo temporaneamente il suo slancio. Dopo questa fase di grande turbolenza, si ritornerà a una maggiore apertura economica e si ridesterà l’ineliminabile propensione all’estensione delle connessioni internazionali. Questo processo, tuttavia, incontrerà notevoli intralci fino a quando il mondo agirà in due blocchi separati e la globalizzazione politica non riuscirà a imporsi, attraverso una nuova stagione del multilateralismo: “L’impresa, alleata naturale della globalizzazione economica, e quindi nemica della deglobalizzazione politica, dovrebbe impegnarsi di più per sostenere questi processi”. La quarta rivoluzione industriale e, più in generale, gli interessi dell’economia mettono in chiaro, come aveva fatto Norman Angell oltre un secolo fa nel volume “La grande illusione”, l’esito disastroso di una guerra per vincitori e vinti e la necessità di ravvivare l’intreccio dei rapporti di debito e credito tra i Paesi, l’interdipendenza della produzione e degli scambi commerciali, la ricerca dello sviluppo e del benessere, quali potenti dissuasori di ogni inutile avventura bellica e supporti fondamentali della globalizzazione.
Crisi energetica e unità dell’Europa
La grave crisi energetica che sta attanagliando l’Europa dovrebbe indurre a comportamenti assennati e, in particolare, dovrebbe spingere gli Stati membri della Comunità a muoversi all’unisono, evitando una rischiosa disarticolazione, come quella che potrebbe suscitare la decisione della Germania di finanziare autonomamente il fondo di aiuti di 200 miliardi di euro per ridurre i costi interni di cittadini e imprese. Paul Krugman, nelle scorse settimane, aveva osservato che una parte della scossa sui prezzi causata dal conflitto si era mitigata. Eppure, la dipendenza dell’Europa – soprattutto di Germania e Italia – dal gas russo e, quindi, la sua fragilità dal punto di vista strategico costituisce un pericolo incombente sull’economia mondiale. Infatti, il mercato del gas, a differenza di quelli del petrolio e del grano, non è interamente globale e questa condizione lo sottopone a tensioni dovute all’assenza di alternative immediate. Krugman, perciò, pur valutando l’accumulazione di scorte di gas per superare l’inverno e la capacità di adattamento europea, ha previsto un rigurgito di alta inflazione e, con qualche attendibilità, una recessione a livello continentale. Questa prospettiva, dunque, può alimentare ulteriori incertezze rispetto a quelle che già pesano sulla vita quotidiana di ognuno.
Anders Åslund ha affermato che l’Unione Europea necessita di “una strategia energetica comune più forte, più unificata e molto più coerente”. All’inizio del 2009, la Russia aveva già interrotto le forniture a 18 Paesi, provocando l’adozione da parte della UE di provvedimenti unificati per elettricità e gas, che hanno dato impulso a processi di diversificazione, commercializzazione e disaccoppiamento all’interno del settore energetico. Ai produttori di gas ed elettricità, in particolare, non era permesso di possedere gasdotti e reti. Dopo quel passo iniziale, però, alcuni Paesi come la Germania, seguita a distanza dall’Italia, hanno percorso una via solitaria, che andava nella direzione opposta a quella di un vero coordinamento europeo e che ha portato alla situazione di soggezione attuale. Per questa ragione, l’Unione Europea è chiamata ad allargare il campo della sua iniziativa, rifinanziando e ampliando il REPower EU, emancipandosi progressivamente dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili e facendosi carico di una strategia energetica più condivisa, integrata ed efficace, allo scopo di razionalizzare l’impiego delle risorse e di ridurre i consumi, ma anche di intervenire per superare i vincoli del mercato del gas di Amsterdam (Title Transfer Facility) e porre un tetto ai prezzi (price cap) come prima azione per una riforma strutturale del mercato dell’elettricità, per rafforzare la transizione verso un insieme di fonti differenziate e facilitare il passaggio a nuove forme di energia di sempre minore impatto.
La doppia transizione
Michael Spence, nei mesi scorsi, ha scritto che: “la transizione verde è un processo pluridecennale, durante il quale il mix energetico si sposta gradualmente dai combustibili fossili alle alternative pulite. Nel breve termine, le economie, in particolare l’Europa, potrebbero ricorrere all’energia ‘sporca’, compreso il carbone, per soddisfare i propri bisogni. Ma questo non deve significare un disastro per la transizione energetica, per non parlare dell’agenda globale della sostenibilità”. È possibile governare questo complesso e straordinario processo di trasformazione, senza necessariamente ricorrere ai combustibili fossili più inquinanti, se si riesce a modulare con raziocinio una combinazione di risorse come il gas con l’incremento delle fonti rinnovabili. Vi sono buoni motivi per ritenere che la crisi in corso potrebbe permettere, anziché un deragliamento, un’accelerazione della transizione verso una prospettiva di basse emissioni di carbonio e di maggiore sostenibilità. Secondo Spence, i prezzi elevati inducono ad aumentare l’efficienza energetica e a investire in tecnologie e produzioni “ecologiche”. Inoltre, “la geopolitica sta anche rafforzando l’incentivo alle energie pulite: […] le rinnovabili in gran parte non creano dipendenze esterne. La transizione verde è quindi un potente meccanismo per aumentare la resilienza e ridurre la vulnerabilità nell’approvvigionamento di forniture energetiche”.
Il futuro prossimo dell’Europa – come di gran parte del pianeta – dipende, oltre che dalla fine di una guerra insensata, dalla risolutezza di attuazione di una doppia transizione, verde e digitale. Tale scelta rappresenta l’asse centrale delle politiche comunitarie e potrebbe fornire una soluzione ai dilemmi acuti di questo periodo tumultuoso, favorendo, attraverso la sintesi dei due processi di trasformazione ambientale e tecnologica, la costruzione di un’economia circolare avanzata. Come l’economia nuova di Walther Rathenau, questa innovazione di sistema starebbe a effigiare la capacità di indirizzare le energie positive del Vecchio Continente verso l’uscita da una grave crisi, un diverso assetto economico e una modernizzazione industriale diffusa, in grado di rinvigorire il progetto di una stagione inedita del processo di integrazione europea.
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