“E come potevamo noi cantare/ con un piede straniero sopra il cuore…”. L’incipit di Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo mi è rimbalzato lacerante in testa, alla notizia della morte di Victoria Amelina.
Vika era una giovane poetessa ucraina. Nata a Leopoli il 1 gennaio 1986, da adolescente aveva vissuto per un breve periodo in Canada per tornare molto presto in Ucraina, dove ha compiuto tutto il suo ciclo di studi. Si era laureata in Scienze informatiche, ma nel 2015 scelse di fare la scrittrice. Il suo primo libro (The Fall Syndrome about Homo Compatiens) parla dei fatti di Euromaidan 2014; ha poi pubblicato una storia per bambini (Somebody, or Water Heart), e un romanzo sulla storia di un colonnello sovietico, ospitato negli anni Novanta nella casa dello scrittore ebreo polacco Stanislaw Lem.
Nel 2022, dopo l’invasione russa in Ucraina, Vika ha cominciato a scrivere poesie, perché – diceva – la “realtà della guerra” sta “divorando la coerenza della trama”, la scompone, la semplifica lasciando tutto il suo peso di morte. Come nella poesia, anche nella guerra “le frasi sono più brevi, la punteggiatura un ridondante lusso, la trama oscura, ma ogni parola evoca tanto senso”.
Poetry, uno dei suoi ultimi componimenti, parla dell’ansia di chi fa letteratura e sa che in guerra ci sono compiti ben più urgenti che scrivere poesie.
“Se proiettili colpissero la lingua/ i detriti cadrebbero come poesie/ Ma non lo sono/ Anche questa non è poesia/ Poesia è a Kharkiv/ volontaria per l’esercito”.
Infatti, come molte e molti colleghe/i, Vika si è spostata ripetutamente nelle aree del fronte, facendo la fixer, questa figura che abbiamo imparato a conoscere proprio con la guerra in Ucraina. Aveva iniziato a collaborare con l’associazione Truth Hounds (Segugi della verità), alla ricerca di documenti e prove dei crimini di guerra russi. Fino al 29 giugno scorso quando, durante un bombardamento su Kramatorsk, Victoria è stata colpita mentre cenava in una pizzeria. E’ morta nell’ospedale Mechnikov di Dnipro il 1 luglio.
In un intenso articolo del Corriere della Sera, Paolo Giordano[1] ci ricorda che soltanto il 23 giugno, alla Fiera del libro di Kiev, Victoria aveva presentato il diario di Volodymyr Vakulenko, altro scrittore ucraino ucciso nella zona di Izyum e identificato grazie al DNA dopo essere stato prelevato da una fossa comune. “E’ stata lei a disseppellire (letteralmente: disseppellire) il diario, nascosto dove lui aveva indicato”.
E allora veniamo a scoprire che il mondo degli scrittori ucraini non si è fermato con la guerra, anzi ha moltiplicato la sua produzione e la circolazione delle opere. Ha continuato a organizzare festival letterari e altre occasioni pubbliche, per raccontare la guerra dalla parte delle vittime. Partecipa alla resistenza ucraina facendo da guida ai giornalisti, riempiendo di storie comuni e di vissuto umano quelle notizie che a noi sembrano sempre più lontane e indifferenti.
Perché è così. A un anno e mezzo dall’inizio della guerra, noi ci siamo abituati. Le notizie della guerra occupano ormai la terza o quarta posizione nella scaletta dei telegiornali. Alla fin fine, l’escalation della guerra non c’è stata; questa è e rimane (sembra) una guerra locale anche se ad alta intensità. Anche la tensione occidentale verso la guerra per la libertà di tutti contro l’autocrazia putiniana pare scemata, trasformata nella più dimessa postazione dell’osservatore che a distanza si permette di formulare valutazioni sull’incespicante controffensiva ucraina. E’ rimasta, ma più fredda e distaccata, la posizione di condanna della violazione del diritto internazionale che legittima la prosecuzione del sostegno militare a Kiev fino a costringere le truppe russe al ritiro dal territorio ucraino (la condizione per il negoziato posta dal governo ucraino e ribadito in tutte le risoluzioni ONU approvate dalla maggioranza dell’Assemblea).
Io stessa dallo scorso marzo – mentre infuriava la battaglia casa per casa a Bachmut – non avevo più scritto né commentato le sequenze del conflitto, perché non trovavo le parole per continuare a oppormi alla logica bellicista né coglievo gli spiragli di una strada verso la pace. E sono rimasta in silenzio davanti ai tentativi di negoziato prima della Cina, poi del Vaticano, e persino di un gruppo di Stati africani preoccupati per la crisi del grano. Seguo in silenzio le cronache quotidiane degli scontri: il massacro di soldati ucraini nella controffensiva iniziata a giugno, sbattuti contro le trincee costruite dai russi nei mesi precedenti; gli annunci del ministero della difesa ucraina che inneggia all’uccisione di 500 soldati russi al giorno; la catastrofe ambientale del crollo della diga di Kakhovka che minaccia la centrale nucleare di Zaporizhzhia e spazza via villaggi nelle regioni di Kherson, Mykolaiv, Zaporizhzhia e Dnipropetrovsk (più o meno nei giorni della devastante alluvione in Emilia-Romagna). Ho letto in silenzio tutto quello che si poteva leggere della rivolta della Wagner, delle ipotesi sulle sorti di Prigoghin, delle previsioni di rovesciamento di Putin.
In silenzio. “E come potevamo noi cantare”.
Ma silent leges inter arma, diceva Cicerone. Le leggi (leges), non qualsiasi altra forma di espressione, restano mute tra le armi. La notizia della scomparsa di una giovane donna che dava voce al proprio popolo invaso e martoriato mi richiama (ci richiama) alla “realtà della guerra”, alle sue brevi frasi spezzate dalla violenza bellica, alla vita dentro la morte di centinaia di migliaia di persone. Si è come aperto uno squarcio nel muro che divide i fronti opposti, nella guerra e nei talk show, risuonano le sirene di un’altra intensa poesia di Victoria (“le sirene dei raid aerei in tutto il paese sembrano mettere tutti allo scoperto/ ma puntano solo su una persona/ di solito quella sul limite/ questa volta non su di te”).
Persona, cultura: queste le parole che ridanno senso, riattivano il linguaggio e ricreano spazi di umanità. Per persona intendo tutte le donne e tutti gli uomini in carne ed ossa che vivono sotto le bombe, tra gli spari dell’artiglieria pesante e le mine sparse per terra. Ognuna di loro ha una storia da raccontare, lutti da piangere e ferite da risanare. E’ il punto di vista delle vittime[2] che deve sempre interpellarci e scuotere dal torpore dello spettatore, per chiedere ogni giorno che cosa è giusto fare o non fare per fermare la guerra. E’ l’istanza morale, repressa dalle ragion di stato, che appare in tutta la sua debolezza disarmata, ma che proprio qui ha la sua forza di rompere l’assedio della realpolitik. E’ la scandalosa presenza di chi, a poche centinaia di chilometri dalle nostre case, combatte per la propria libertà; noi ci diciamo che combatte anche per la nostra libertà e paghiamo il debito prima con le nostre armi, poi coi nostri capitali per la ricostruzione. Persona è l’insieme delle contraddizioni e dei dilemmi che affliggono i popoli in guerra, una realtà molto più oscura e combattuta delle lineari e stentoree affermazioni dei governanti e che per questo ha bisogno di persone anche dall’altra parte; incontro – si direbbe in gergo filosofico-politico – di società civili, senza poteri né armi: solo parola.
Solo parola, e quindi cultura. Cultura è dare voce a una comunità, come stanno facendo gli scrittori ucraini; tutti possono ascoltarla e diffonderla, pubblicarla e parlarla, farla arrivare fino agli scrittori e ai poeti russi, che risponderanno, parleranno, diffonderanno (come nell’epoca del grande dissenso alla dittatura sovietica), e costruiranno la memoria per le prossime generazioni. La cultura è libera per definizione, dà forma al sentire condiviso e lo rappresenta in tutte le arti: dalla letteratura alla musica, dalla scultura alla pittura all’architettura. Per questo anche la cultura è vittima della guerra, rischia il soffocamento, l’imbrigliamento, la distruzione. E per questo la violazione e la distruzione del patrimonio culturale sono considerate crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma secondo il diritto internazionale il riferimento è ai beni culturali (edifici monumentali, storici, opere d’arte …), non a chi li rappresenta, li narra. Il diritto ancora una volta è dietro alla vita, che invece custodisce la cultura soprattutto in coloro che la interpretano e la depositano per chi verrà dopo. E allora mi chiedo se non si possa rubricare come crimine contro l’umanità anche l’uccisione di donne e uomini di cultura, che combattono sì, ma con la loro voce e le loro parole, per la libertà propria e dei propri popoli.
[1] P. Giordano, La guerra di Victoria Amelina e degli altri scrittori ucraini in cerca di verità, «Corriere della Sera», 4 luglio 2023.
[2] Mutuo l’espressione da René Girard, nei suoi scritti sulla violenza e il capro espiatorio. In particolare, questa formula è analizzata in Vedo Satana cadere come la folgore (Adelphi 2001): assumere il punto di vista delle vittime significa riconoscere la loro sofferenza, la responsabilità che abbiamo nei loro confronti e il dovere della cura.
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