Il discorso di Draghi all’Assemblea di Confindustria richiama alla mente, nel tono e nei contenuti. i discorsi di Ciampi da Presidente del Consiglio 1993-1994 e Ministro del Tesoro 1996-1997. In entrambi i casi, si tratta di interventi di due personalità non paragonabili, come spessore e autorevolezza, a quelle dei contendenti politici delle due epoche. In entrambi i casi, è simile la situazione economica e il contesto istituzionale: la fine di una crisi profonda e il rilancio portato avanti da forze esterne ai partiti nazionali, oggi come allora impegnati in modeste diatribe a sfondo elettorale. Anche oggi, da un lato, c’è l’Europa e, dall’altro, un premier non politico sorretto da una maggioranza tipo unità nazionale. In entrambi i casi, il ragionamento di fondo del premier si basa sull’idea di realizzare una prospettiva economica condivisa e di relazioni industriali il cui equilibrio è volto al benessere della società e a non a meri bilanciamenti di potere. Ma è bene interrompere qui la similitudine, perché l’azione di Ciampi venne, come è noto, interrotta dall’opposizione della sinistra radicale e dall’opportunismo delle forze di centro-sinistra di governo che condussero al governo D’Alema prima e poi al decennio sostanzialmente berlusconiano.
L’intervento di Draghi si è concentrato su alcuni aspetti che sanciscono i limiti della presente ripresa economica nel nostro paese. Innanzitutto, la crescita sostenuta del 2021 sta riportando in tutto il mondo in auge l’inflazione. Ciò non porterà a reazioni scomposte e violente delle autorità monetarie, come incautamente avvenne nel 2008, ma certamente l’azione accomodante della politica monetaria sarà via via ridotta e questo porterà a qualche scossone sui rendimenti dei nostri titoli pubblici. Per Draghi, l’Italia può affrontare questa prospettiva di fine della cuccagna solo innalzando il livello della produttività totale dei fattori, al palo da oltre un ventennio, quindi ben prima della crisi finanziaria e di quella pandemica, ed aumentare il tasso di crescita potenziale. Un contributo importante in tale direzione dovrà venire dall’attuazione degli investimenti e delle riforme previste nel PNRR. Ma in Italia la possibilità per la politica e la pubblica amministrazione di vincere questa sfida è ancora tutta da verificare. I primi passi dal lato degli investimenti sono tutto sommato rassicuranti, meno dal lato delle riforme, che toccano nel vivo gli interessi dei partiti politici e delle forze sindacali. Lo stop alla delega fiscale per evitare lo spauracchio della riforma del catasto, ineludibile e indilazionabile dopo più di vent’anni, è un esempio di questa rigidità dei meccanismi decisionali su cui si scontra l’azione del governo a maggioranza eterogenea.
Sul fisco la partita è tutta da giocare sul versante della tassazione delle imprese. Al riguardo, l’unanimità sull’abolizione dell’IRAP è quanto meno sospetta poiché accompagnata solo da poche e vaghe proposte di sostituzione non attentamente meditate. Ogni riduzione del carico fiscale sui fattori di produzione è auspicabile, ma come si organizzerà il finanziamento della sanità delle regioni? Sarà seguito l’insegnamento dei padri della scienza delle finanze che ammonivano dal fare riforme fiscali ricorrendo al debito?
Draghi sa bene che la crescita della produttività è principalmente legata al rafforzamento delle condizioni di sviluppo degli scambi e delle produzioni, con limitazione delle rendite di posizione e di poter di mercato. Questo per Draghi significa riuscire finalmente ad elaborare una legge sulla concorrenza (attesa da oltre sette anni) che rafforzi i poteri dell’Antitrust, limiti gli eccessi di regolamentazione, contenga i monopoli pubblici dei servizi a rete e renda attrattivo l’investimento estero nei territori italiani. Su questi temi, l’aria che tira è piuttosto funesta, le forze politiche di maggioranza, di semi-opposizione e di opposizione non sembrano sensibili alle istanze dell’economia di mercato, per cui non sarà facile per Draghi portare a casa un risultato soddisfacente, innanzitutto per la Commissione europea, ma soprattutto in definitiva per tutti noi. Una concorrenza soffocata significa prezzi e tariffe più elevati e investimenti in innovazione insufficienti.
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