La guerra è finita, per il momento, o almeno si è concluso questo capitolo. Tacciono da lunedì notte i missili e le bombe. A Gaza si sgombrano le macerie, 14mila palestinesi hanno attraversato il “passaggio di Erez” vicino a Beith Hanoun, e sono tornati a lavorare in Israele; i camion riforniscono la Striscia, si organizzano interventi tecnici e umanitari. La popolazione non osa certo, a Gaza, criticare chi ha di nuovo trascinato i giovani in una guerra sanguinosa. La Jihad Islamica ha perduto, e Gaza è più stravolta e depressa di prima. Ma non se ne dispiace Hamas, l’apice del potere, invece sempre più forte, che prepara il prossimo round dopo essersi astutamente astenuta da questo. La gente del sud di Israele esce a lavorare, va alla spiaggia, siede al ristorante, i bambini giocano nei campi estivi. Le sirene non urlano, non ci sono più solo quei maledetti dieci secondi per buttarsi nel rifugio. La vita riprende il suo ritmo. In cielo non si rincorrono gli incredibili ghirigori salvifici di “kipat barzel”, cupola d’acciaio, che da undici anni fa il miracolo: stavolta ha fermato in aria il 97 per cento dei quasi mille missili lanciati sopra le città israeliane, 610 invece sono stati sparati per sbaglio dalla Jihad stessa in mare o sul proprio territorio a Gaza. Dei 37 morti di questa guerra, 27 sono innocenti civili di cui 16 uccisi dalla Jihad stessa e 11 da Israele. Il resto, sono terroristi eliminati da Tzahal perché dediti alla caccia agli ebrei di Israele. Il primo, venerdì scorso, è stato il capo del Comando Nord della Jihad Taysir al-Jabari, che aveva tenuto Israele chiusa in casa per quattro giorni con la minaccia di stragi di civili, e poi è toccato a Khaled Mansour, capo del Comando Sud.
Questo ha determinato la guerra. Israele ha vinto rapidamente portando lo scontro sul campo nemico, nell’West Bank a Jenin con l’arresto di un capo della Jihad, poi a Gaza, senza aspettare attacchi terroristici. Agendo in fretta e senza sbagli di persona, ha consentito che Hamas potesse tenersi in disparte. Adesso, con la vita, torna lo scontro politico: il primo di novembre ci saranno le elezioni, Netanyahu al momento è il favorito, ma il governo spera che aver dimostrato di saper combattere aumenti i suoi consensi. Yair Lapid, privo di esperienza militare ha saputo tenere in conto l’apparato militare, e tenere la guida. Bibi è sempre stato “mister sicurezza”, un passato militare valoroso, un’estrema abilità nel gestire la difficile situazione di “isola nella Jungla” di Israele. Netanyahu ha sottolineato la solidarietà nazionale con un incontro amichevole con Lapid. Ma sotto, si percepisce il senso di una critica evidente alla gestione della guerra: questa puntata ha avuto un lieto fine, ma che succederà in futuro? Hamas sta allargando la sua forza anche sull’Autorità palestinese di Abu Mazen, rischia di mobilitare tutto il mondo palestinese in uno schieramento terrorista. In più, la Jihad Islamica è stata battuta, ma la strategia che l’ha guidata minuto per minuto è stata quella di Teheran: essa già dal 1981 nasce con Fathi Shikaki, e il capo ideologico Zyiad al Nakhalah ha fino a sabato segnalato la sua stretta collaborazione con il capo delle Guardie Rivoluzionarie a Teheran, Hossein Salami. La decisione iraniana è quella di infiltrarsi dentro Israele, di minacciarne la popolazione civile. Tutto il mondo lo sa, ma l’ONU o l’Unione Europea si occupano di invitare alla moderazione soltanto Israele. Gli ayatollah, come i palestinesi, non si criticano.
(Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giornale” del 9 agosto. E’ ripreso con il consenso dell’autore)
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