In una intervista del 1978 a Carla Ravaioli, il segretario del PCI Enrico Berlinguer, parlando della centralità della “questione femminile” per il cambiamento della società – in un anno in cui i passi avanti nella legislazione nazionale erano stati epocali – , concludeva il ragionamento richiamando una celebre frase di Marx: “«Non può essere libero un popolo che ne opprime un altro» scriveva Marx; un’affermazione che potrebbe essere parafrasata a questo modo: non può essere libero un uomo che opprime una donna.”
Questo passaggio mi è tornato in mente riflettendo sui movimenti per i diritti e la libertà delle donne, che stanno segnando la fine del 2022 e l’inizio del 2023. Il grido “Donna, vita, libertà” risuona nelle piazze dell’Iran e in quelle solidali di molte città occidentali, e rimbalza sui social network da quando Masha Amini, una ragazza iraniana di 22 anni, è morta a causa delle botte inferte dalla polizia morale iraniana. Accanto a quella che molti osservatori ormai definiscono una “rivoluzione”, mai vista in Iran in queste proporzioni dal 1979 a ora, sta dilagando anche la mobilitazione delle donne afghane in difesa del diritto all’istruzione, dopo che il regime talebano, tornato al potere nel 2021 dopo venti anni di presenza occidentale, ha vietato alle donne l’accesso all’università.
In entrambi i casi, la differenza rispetto a iniziative del passato la fa la presenza di uomini alle manifestazioni promosse da donne; giovani studenti universitari, fratelli, padri e mariti, si schierano al fianco delle loro compagne, sorelle, figlie e mogli, perché hanno capito, come non era accaduto finora, che la battaglia per la libertà delle donne è anche una battaglia per la loro libertà.
Questa inedita alleanza tra generi, in paesi dove i diritti umani sono sistematicamente calpestati (e non solo in Iran e Afghanistan), può rappresentare la leva di una nuova politica internazionale che torni ad avere uno sguardo sul mondo e un messaggio universale. Ma perché ciò avvenga, è necessario cambiare prospettiva, assumere radicalmente il punto di vista femminile e aprire una riflessione critica su come è stata fino a qui interpretata e condotta una “politica dei diritti umani” nelle relazioni internazionali.
Provo a porre soltanto alcuni punti, che dovranno necessariamente essere discussi, criticati, integrati o anche stravolti. D’altra parte, il mondo sta vivendo uno di quei momenti di disordine, culturale, politico ed economico, di crisi e delegittimazione di quelle immagini del mondo che per secoli ci hanno aiutato a muoversi anche in contesti difficili, di rischi globali e potenzialità tecnologiche tali, che non un solo pensiero, o ideologia o religione basterà a ridare ordine.
Il primo punto è che bisogna rimettersi a studiare e discernere. Dovremmo sapere che in Iran la Costituzione parla di pari diritti tra uomini e donne, ma la parità è limitata dalla sharia; così, le donne possono lavorare, studiare (anche se alcuni indirizzi, come giurisprudenza, sono vietati a loro) e fare sport, sono presenti in politica, in Parlamento, nel governo, possono addirittura diventare vice-presidenti (come adesso), ma non presidenti perché nel Corano si dice che la donna è inferiore all’uomo. Per questo, in tutte le occupazioni sopra descritte, devono mantenere il loro posto ed essere vestite adeguatamente, con i capelli “coperti” dall’hijab; solo il volto e le mani possono essere visibili. E gli uomini? Certo, hanno più libertà di movimento, ma la sharia vieta molte cose pure a loro, a partire dalla libertà di pensiero. Se le donne devono nascondere anche il corpo, gli uomini devono tenere prigioniera la mente, e questo, si sa, pesa anche sul piano fisico. Inoltre, dobbiamo ricordare che l’islam iraniano ha una forte componente nazionalistica; l’Iran della rivoluzione khomeinista si forma recuperando la tradizione islamica contro la modernità occidentale impressa dallo scià, ma anche contrapponendosi all’Iraq (la guerra tra Iran e Iraq è durata ben 8 anni, dal 1980 al 1988), e il maschio iraniano doveva essere rappresentato dal mullah per un verso e dal martire per l’altro. Le nuove generazioni sentono lontani l’uno e l’altro profilo, sentono come una vessazione i due anni obbligatori di servizio militare (contro chi e come, poi, dovrebbero combattere?), hanno imparato che le madri sono altrettanto importanti dei padri e che anzi, nell’economia domestica, in tempi di crisi economica e di disoccupazione, assumono un ruolo di maggior rilievo. Il doppio registro religioso e politico che ha retto l’Iran negli ultimi quarant’anni potrebbe essere scardinato proprio grazie a questo cambiamento di identità di genere in corso. La battaglia dei capelli ha una forza simbolica dirompente, perché sotto quell’hijab sta l’ordine supremo dei mullah che impedisce il libero sviluppo della democrazia, solo formalmente riconosciuta; qualche diritto politico, senza diritti civili e sociali, non è mai condizione sufficiente per la democrazia, in Iran e in qualsiasi altro paese.
Non va meglio laddove la democrazia si è provato a esportarla. In Afghanistan, dopo la guerra del 2001 e un’occupazione militare delle truppe NATO che è durata vent’anni ad accompagnare il processo di democratizzazione e modernizzazione del paese, i talebani sono tornati al potere quasi senza colpo ferire reinsediando a Kabul l’Emirato Islamico. Nonostante i tanti proclami e le promesse di rispetto dei diritti umani, a più di un anno dal ritorno la situazione del popolo afghano è drammatica. Essendo cessato il flusso di risorse umanitario e bloccato ogni rapporto economico e commerciale con l’esterno, il problema più grande è quello del cibo; la gente soffre letteralmente la fame e a causa della siccità anche la produzione alimentare interna è crollata vertiginosamente. In questo dramma socioeconomico, il regime ha introdotto nelle ultime settimane dure misure repressive contro le donne: prima il divieto di accesso all’istruzione, poi lo stop al lavoro delle donne nelle organizzazioni non governative. E’ chiaro il segno di queste decisioni: temendo di perdere il controllo di una popolazione stremata, i talebani hanno pensato che ricorrere all’elemento identitario per eccellenza, la sharia, inasprendo la repressione sulle donne, li rilegittimasse agli occhi della popolazione maschile, soprattutto quella più povera, delle campagne, che non ha mai molto apprezzato la parentesi di modernità dei governi filo-occidentali. Ma sembra che non funzioni più così. Anche in Afghanistan, i più giovani capiscono poco questa imposizione della sharia e ancora meno capiscono l’allontanamento delle ragazze dai luoghi di studio. Inoltre, l’impatto del divieto di lavoro nelle Ong colpisce pesantemente tutto il settore d’intervento umanitario, che nel 2021 aveva deciso di restare in Afghanistan, mentre tutte le altre agenzie occidentali e internazionali smobilitavano. Quelle Ong non soltanto avevano lavorato sull’empowerment femminile, ma avevano investito direttamente le donne afghane nella gestione dei servizi. Quindi, a subire questa esecrabile decisione non sono solo le donne, ma tutta la popolazione che beneficiava di quelle attività. E con la povertà assoluta e la fame che incombe, non c’è sharia che tenga.
La situazione è molto più opaca di quella dell’Iran, perché opaco è anche il sistema di potere talebano, ma le manifestazioni degli ultimi giorni dicono che qualcosa si sta muovendo. Si dice anche che dentro il regime si stia determinando una spaccatura tra l’ala moderata, che ha provato a tenere aperti i canali di comunicazione con l’esterno, e gli ortodossi, fautori della linea autarchica e ora apparentemente prevalenti. Ma difficilmente il cambiamento partirà dall’interno del regime.
Bisognerebbe che i presidi umanitari di Ong e Nazioni Unite non abbandonassero il paese, e le donne afghane, al loro destino, ma proseguissero il lavoro importante di educazione, formazione e consapevolezza del valore rappresentato dal rispetto dei diritti fondamentali.
Ultima considerazione riguarda il ruolo delle Nazioni Unite, dei paesi democratici, della società civile internazionale davanti a regimi che negano i diritti umani, e in particolare i diritti umani delle donne. C’è il momento della solidarietà, espressa nelle manifestazioni che danno voce anche a donne rifugiate nel nostro paese e che protestano davanti alle ambasciate. C’è il momento delle assemblee internazionali che approvano risoluzioni di condanna e intimano ai governi di cessare le violazioni dei diritti, pena l’isolamento del paese in questione dai consessi internazionali, come la decisione di espellere l’Iran dalla Commissione ONU per i diritti umani. C’è il momento della diplomazia, quando l’ambasciatore del paese incriminato viene richiamato e avvertito delle conseguenze che le azioni del suo governo possono avere sulle relazioni tra gli Stati. C’è il momento di organismi con poteri anche esecutivi, come l’Unione europea, che ha deciso sanzioni economiche contro l’Iran, o gli Stati Uniti che hanno deciso il sequestro di 7 miliardi depositati nella Banca afghana per destinarne almeno la metà alle famiglie delle vittime dell’11 settembre.
Ma quali sono gli effetti di queste iniziative? Fino a qui, molto limitati, quando non addirittura dannosi, se è vero che l’ONU ha chiesto agli USA di scongelare le sue riserve nella banca afghana, per alleviare la crisi alimentare.
Da quello che si vede e si legge, il cambiamento può venire dalle donne e dagli uomini di quei paesi, uniti nella battaglia per la libertà e i diritti. Se così è, dobbiamo saper investire sulle società civili, incrementare le risorse della cooperazione internazionale a favore delle organizzazioni non governative, vincolare aiuti a progetti di emancipazione femminile e di prevenzione e contrasto alla violenza di genere, sostenere la condivisione delle battaglie di ragazze e ragazzi . Da qui potrebbe nascere una nuova politica internazionale, una vera politica dei diritti umani, meno sovranista e più orientata a risolvere pacificamente le controversie tra gli Stati.
Elisabetta Briano
Bisognerebbe che imparassimo a superare la sineddoche quando ci avventuriamo nei discorsi su paesi che conosciamo solo per le poche immagini che ci arrivano e tuttalpiù dai commenti di qc emigrato/a. Altrimenti continuiamo ad interpretare l’agitarsi di alcune elite urbane cone rivoluzioni o comunque trasformazioni del paese. Poi scopriamo che i talebani riprendono tranquillamente il paese e instaurano la pace sociale, come avevamo già constatato che la caduta degli autocrati a seguito delle primavere arebe e dell’intervento occidentale ha provocato il collasso e il disastro di quelle società. E’ ancora presto per dire se le proteste delle iraniane siano sintomo di una trasformazione profonda e irreversibile di quella società.