La 32enne Samira Sazbian è stata giustiziata in carcere. In Iran. Si era ribellata al destino di sottomissione che il sistema sociale le aveva riservato. Concessa sposa bambina a un uomo da cui subiva violenza domestica (contro cui in Iran le donne sono assolutamente prive di tutela), madre di due bambini, aveva ucciso il marito e da 10 anni languiva in carcere. Aveva rinunciato anche alle visite in prigione dei figli sperando nel perdono della famiglia di lui e nella grazia. Non l’hanno concessa ed è stata impiccata, un cappio al collo e un parente dell’ucciso a spingere via la sedia su cui poggiava i piedi.
È stata la diciottesima esecuzione di una donna quest’anno. Per ovvi motivi (era in carcere da molto prima della morte di Masha Amini) non è una delle molte vittime della repressione alla rivolta di popolo scatenatasi dopo la morte della sfortunata ragazza curda. Quindi non c’è neppure la motivazione (per quanto aberrante) di un motivo pratico, nella fattispecie il mantenimento al potere della cricca che da più di quarant’anni regge la teocrazia iraniana. Samira (come moltissime sventurate prima di lei) ha pagato il fatto che per la “cultura” dominante del Paese in cui vive era una minus habens, un soggetto che, semplicemente, non godeva di diritti individuali che nella società occidentale diamo per scontati e che invece in Iran (e purtroppo in molte altre parti del pianeta) non sono neppure contemplati. Una condizione sancita per legge, dove il peso e il valore dell’individuo a seconda che sia un maschio o una femmina sono diversi, che definisce una condizione, per l’universo femminile, di subalternità e totale dipendenza dal capriccio degli uomini.
Consola in parte il disperato e intemerato grido di dolore di ampie fette della popolazione, di diversa età, appartenenza sociale e, importantissimo, genere che, dopo la ricordata tragedia di Masha, ha alzato la voce, finora senza essere riuscita a liberarsi dalla cappa oppressiva del regime, ha chiesto diritti e libertà, pagando un prezzo agghiacciante (20000 arresti e più di 500 morti stimati).
Tornando alla vicenda della povera Samira, colpisce l’inviluppo di orrori che questa sottende. La vessazione subita, la condizione di totale impossibilità da parte delle donne di difendersi dalle violenze familiari, la crudeltà efferata dell’ipocrita delega ai familiari della vittima di decidere sulla vita e la morte, l’orrida pratica delle spose bambine.
E qui si pone una questione difficile, che mette in gioco il nostro, di noi occidentali intendo, modo di vedere e di pensare. Credo che chiunque viva in questa parte di mondo, quali che siano le sue convinzioni politiche o religiose, se solo si sofferma a pensare al compendio di abomini e somma ingiustizia che quei fanatici sanguinari impongono al loro popolo, non possa non provare un senso di disgusto. E, assieme al disgusto, la frustrazione per l’impotenza sostanziale di fronte a ciò che accade. Frustrazione peraltro ingigantita dalla considerazione che la teocrazia iraniana non è certo un caso unico sul pianeta.
Impossibile intervenire, l’opzione militare è impensabile, le sanzioni hanno semmai avuto l’effetto di rendere ancora più miserabili le condizioni della gente comune e il regime non appare proclive alla minima apertura. Anzi! Pochi giorni fa, ai familiari di Mahsa Amini è stato impedito di andare a Strasburgo per ritirare il Premio Sakharov a nome del Movimento iraniano “Donne, Vita e Libertà”. Il Nobel per la Pace assegnato a Narges Mohammadi, attivista dello stesso movimento, è stato ritirato dai figli perché lei è in prigione da anni nel suo Paese proprio per l’attività di cui il prestigioso Premio è il riconoscimento. Mentre in Occidente ci interroghiamo, ed è sacrosanto, su come superare i bias comportamentali che fanno da brodo di coltura dei femminicidi, vi sono Paesi nel mondo, come appunto l’Iran, dove la condizione della donna è tale per cui l’Italia sembrerebbe un paradiso in terra. Paesi al cui confronto la nostra malandata democrazia appare, per dirla con Leibniz, “il migliore dei mondi possibili” perché lì non si consentono diritti elementari come viaggiare all’estero, leggere quello che si vuole, vestirsi come si crede.
Ma Leibniz, e tutta la sua costruzione del diritto naturale è, appunto, un prodotto occidentale, Lo sgomento di fronte allo sgretolarsi della sua idea di armonia e ottimismo, la percezione di un mondo che non ci appare (più) in continuo anche se ondivago progresso, la perdita di conquiste civili che ritenevamo irreversibili, la constatazione che viceversa è terribilmente facile (ri)precipitare nel Medievo (vedasi l’agghiacciante destino delle afghane) sono sentimenti propri di questa parte di mondo.
E chi non sta in questa parte di mondo può obiettare, in linea di principio, “questo lo pensi tu, Uomo Occidentale. Nessuno ti dà il diritto di parlare a nome di tutto il pianeta. È finito il tempo in cui dettavi legge nel mondo, oggi la tua legge non ha valore universale”.
Effettivamente, non fa una grinza e non a caso qualche utile idiota in questa parte di mondo sostiene questa tesi, più o meno surrettiziamente, magari in nome di un irenismo assoluto e incondizionato.
Ma allora a questo punto ci si pone un nodo concettuale inestricabile. Perché tutta l’elaborazione di pensiero occidentale “si pensa”, si concepisce, come universale. I diritti, proprio per come sono concettualmente “costruiti”, a partire dal giusnaturalismo, dall’assunto cioè che la natura si attui in un modo razionalmente intellegibile, o sono universali o “non sono”. Siamo figli dell’Illuminismo, dell’Io Penso Universale (appunto: universale) kantiano..
Quindi, o abbiamo davvero sbagliato tutto e quella di un auspicabile Ordine planetario, pacifico e condiviso, basato sui valori occidentali è stata un’illusione, una dimostrazione di arroganza, l’ennesima, dell’Uomo Bianco. Oppure sto facendo un errore di prospettiva. Semplicemente, così come l’Europa è passata per secoli di stragi orrende prima che si imponessero i Diritti (anche molto tempo dopo che gli stessi erano stati teorizzati), ci vorrà un tempo indefinito perché anche nel resto del mondo gli stessi Diritti siano riconosciuti.
Francamente, non so quale prospettiva sia la più probabile. Resta una sensazione di dolente sgomento per il futuro prossimo venturo dell’umanità. E un pensiero grato e affettuoso alla figlia sedicenne di Narges Mohammadi che, ritirando il Nobel al posto della madre, ha pronunciato le parole in farsi “Jin Jîyan, Azadi”. Donne, Vita, Libertà, il nome del Movimento di protesta. Una preghiera laica di donne e uomini di buona volontà che si battono per un mondo migliore.
Immagine di copertina: © IranHumanRights.org
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