A chiusura dell’anno scolastico 2021-2022, la Didattica a distanza (DAD) sembra ormai un ricordo lontano; anche se, notizia di pochi giorni fa, non sono ancora chiare le indicazioni su come riapriranno le scuole a settembre.
Ma prima della pausa estiva con #OltrelaDAD, la nostra serie dedicata alla didattica digitale oltre la pandemia, vogliamo fare il punto su alcune questioni legate al tema. Dopo aver indagato cosa ha significato la didattica a distanza per chi l’ha vissuta e le esperienze di didattica digitale in Italia, – focalizzandoci in particolare su tre istituti di Ancona, Busto Arsizio e Bari parte del movimento Avanguardie Educative – prima della pausa estiva facciamo il punto discutendo quanto emerso sino ad ora con un gruppo di esperti che rappresentano tutte le componenti del mondo scolastico: la dirigenza, i genitori, gli studenti e gli insegnanti.
Gli esperti coinvolti
Assunta Amendola è docente di informatica e matematica nei licei, psicologa dell’età evolutiva, formatrice di insegnanti. Collabora con il CIDI – Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti Milena Piscozzo è dirigente scolastica di Milano, collabora con l’Osservatorio nazionale di integrazione per gli alunni stranieri; si occupa di dispersione scolastica e di valutazione formativa Claudia Caprari fa parte del CGD, Coordinamento Genitori democratici Luca Iannello è membro della Rete Studenti Medi |
Lo facciamo strutturando l’articolo in tre parti:
- Quello che è stata la DAD
- Le lezioni apprese
- Le indicazioni per il futuro
Il risultato è una riflessione che chiude il cerchio del lavoro di questi sei mesi e che possiamo considerare una sorta di “editoriale condiviso” o “editoriale collaborativo” che ci permette di fare il punto e iniziare a guardare all’anno scoalstico che verrà.
Quello che è stata la DAD
Prima questione: cosa è stata, davvero, la didattica a distanza?
La DAD è dipesa dai contesti
In Italia in questi due anni non c’è stata una sola DAD. La didattica a distanza è stata vissuta e realizzata in maniera molto diversa se consideriamo il primo e il secondo anno di pandemia, come ci avevano raccontato le studentesse dell’Istituto Marco Polo di Bari: se nel corso del 2020 è stata un rimedio emergenziale, nell’anno scolastico 2021-2022 è stata invece la principale modalità di fare lezione. Nel confronto con gli esperti, Claudia Caprari del CDG ha confermato questa percezione: “La Dad ha trovato impreparati tutti. Nel primo anno di pandemia è stata molto diversa rispetto al secondo: è cambiata completamente la modalità di attuazione”.
La DAD non è cambiata solo in base al periodo, ma anche a seconda del contesto. Come spiega Luca Iannello della Rete Studenti Medi: “nel secondo anno abbiamo vissuto una grande incertezza, dettata dalle differenze fra regione e regione. Alcuni studenti sono andati in classe un mese sì e uno no, altri non hanno mai fatto un giorno in presenza”.
Questa diversità nei modi di concepire la DAD genera ulteriore complessità se vogliamo valutare che cosa sia davvero stata. Di certo la didattica a distanza, nelle difficoltà che ha generato in tutti coloro che vivono la scuola, ha imposto un cambiamento forzato.
La DAD ha enfatizzato alcune diseguaglianze
La DAD ha impattato negativamente sulle competenze degli studenti allargando il gap tra chi aveva risorse materiali, fisiche e cognitive e chi invece no. Due in particolare sono le fasce più coinvolte.
La prima è quella degli studenti con genitori stranieri (come già evidenziato da Istat, ne avevamo parlato qui). Lo conferma la dirigente Milena Piscozzo: “alle scuole primarie gli studenti stranieri più piccoli hanno avuto necessità dell’adulto per collegarsi. È chiaro che questo ha coinvolto l’alfabetizzazione informatica dei genitori stranieri, che hanno faticato ad aiutare i bambini”.
La seconda è quella dei ragazzi con disabilità, emersa chiaramente durante il confronto con gli esperti. Sempre Piscozzo spiega come “i ragazzi con disabilità grave avrebbero bisogno di servizi integrativi. Durante questi due anni le loro famiglie hanno sofferto molto perché è mancata una cerniera istituzionale di supporto. È emersa la necessità di tessere relazioni con il territorio: la scuola è il presidio più diffuso sul territorio, è un luogo di welfare, ma non può fare tutto da sola. Serve una comunità educante per coinvolgere tutti, anche le famiglie più fragili”.
Le lezioni apprese dalla DAD
La didattica a distanza dunque è stata solo una parentesi negativa? In realtà abbiamo imparato tante cose grazie ai mesi “difficili” della DAD.
La DAD ha innescato un cambio di paradigma
Si tratta di un aspetto già emerso negli studi di caso, in particolare all’istituto Savoia Benincasa: la DAD ha segnato un discrimine tra gli insegnanti in grado di stare al fianco e quelli che rimangono di fronte allo studente. Stare al fianco implica un cambio di postura in chi sta in cattedra, passando da un approccio frontale e gerarchico a uno collaborativo. Significa essere capaci di collaborare per creare insieme apprendimento e nuovo sapere.
La classe, insomma, non gira più intorno alla cattedra, ma agli studenti. E la didattica digitale può rafforzare questo cambio di paradigma: “spesso, in presenza la scuola funziona perché c’è un “controllo” dell’adulto. Con la DAD i docenti si sono resi conto che non poteva essere così: a distanza il controllo non funziona e gli studenti hanno fatto quello che volevano. Oggi bisogna ripensare le metodologie didattiche integrandole con il digitale. Questo aspetto va sviluppato ora. La DAD ha permesso un ripensamento della didattica: bisogna andare oltre la didattica frontale” spiega ancora Piscozzo.
La didattica digitale integrata non è la DAD
Riuscire a cambiare postura significa però riflettere sulla didattica e sul digitale in quanto tali: occorre abbinare agli strumenti digitali una didattica innovativa nel metodo e nell’approccio, cioè arrivare a una vera didattica digitale integrata (DDI).
Nella pratica che cosa significa? Avevamo già parlato della differenza a livello teorico e normativo tra DDI e DAD qui. Assunta Amendola, docente di informatica e matematica e membro del CIDI, ci ha spiegato concretamente cosa sia la DDI oggi nella scuola italiana. “Prendo in prestito da Roberto Maragliano, che da decenni si occupa di didattica multimediale, il concetto di “zona franca”. Una buona didattica digitale e multimediale è quella che concede maggiori spazi di libertà agli studenti, sia nella gamma di contenuti che nella conduzione del gruppo” spiega.
“Con questa modalità di lavoro, che non si può attuare sempre, si esplorano modalità nuove di avvicinarsi al sapere. Se al gruppo di apprendimento concedi “spazi di libertà”, cioè di autonomia nel creare il percorso di apprendimento, saranno i ragazzi a scegliere se e quali tecnologie usare”. “Il tema” conclude Amendola, “è la cooperazione tra pari: lasciandoli liberi, e con una guida opportuna, si ottengono trasformazioni incredibili. Libertà creativa e lavoro tra pari sono i due ingredienti della didattica digitale. Tanti colleghi dicono che lavorando in gruppo si perde tempo, ma questo tempo viene in realtà recuperato”.
Indicazioni per il futuro
Tirati questi fili delle tante cose che abbiamo scoperto in questi mesi di #OltrelaDAD,possiamo immaginare anche cosa potrebbe accadere in futuro?
Riconoscere un nuovo ruolo agli studenti
Nell’approfondimento per la nostra serie era emerso come all’istituto Tosi tra le necessità più sentite degli studenti ci fosse quella di potersi esprimere e raccontare, definendo la propria identità. Questo è un elemento fondamentale fin dalle scuole medie. Secondo Piscozzo “la preadolescenza è il momento in cui l’adulto comincia a perdere il proprio ruolo, ci sono i primi conflitti, e il gruppo dei pari è importante per la co-costruzione del sapere. È quello che è mancato. Tanti disturbi alimentari e molti “ritiri sociali” si manifestano a quell’età. La Dad ha alimentato tutto questo”.
Per fare didattica digitale, quindi, non è sufficiente “trasferire su piattaforma” quel che si fa in aula, ma è necessario rendere la didattica più partecipata per gli studenti. Questo significa innanzitutto concedere spazi di libertà, favorire il lavoro tra pari, guidare il gruppo lasciando un margine, anche ampio, di iniziativa ai singoli. “Si è scoperto che anche nell’era social i giovani hanno bisogno di socialità fisica, a quest’età bisogna trovarsi insieme. Nell’anno scolastico che si è concluso ci sono state più occupazioni che negli anni precedenti. C’era il bisogno di riprendersi lo spazio” racconta Iannello.
Lasciare spazio agli studenti significa attribuire loro un ruolo diverso, perché sono loro stessi i primi ad avere competenze digitali. Come spiega Amendola, “dobbiamo pensare a una didattica in cui i ragazzi siano protagonisti, perché siamo in un momento in cui nella scuola esistono gli immigrati digitali (gli insegnanti) e i nativi digitali, che hanno una preparazione diversa dalla nostra. La loro cultura arriva non dai libri ma dai video e dalle piattaforme. Gli insegnanti più sensibili si stanno ponendo il problema di come fare una didattica più adatta agli studenti di oggi. Serve lasciare spazio ai ragazzi e osservare come le loro capacità naturali possono essere valorizzate dall’insegnante per sviluppare le competenze”.
Agli insegnanti servono le competenze per fare una vera DDI
Nei nostri casi di studio abbiamo visto come la DAD abbia svelato un problema di competenze digitali che riguarda la componente docente ormai da diversi anni. In particolare abbiamo capito come nelle scuole che aderiscono a Avanguardie Educative la maggior parte degli insegnanti sia riuscita a fare il salto concettuale e pratico necessario, che implica assumere una nuova consapevolezza. Un punto di partenza che dovrebbe essere alla base dell’esperienza di ogni insegnante.
Sul tema Amendola rifletto come sia “la forma del sapere che deve cambiare: prima passava dai libri, ora non più. Quello che dovremmo chiederci è: quale conoscenza di fondo serve per utilizzare in maniera consapevole le tecnologie digitali e affrontare temi come le fake news o la cyberviolenza? Ben vengano gli strumenti digitali a scuola, ma teniamo sempre presente il mandato costituzionale della scuola pubblica: creare cittadini critici e democratici”.
La formazione dei docenti diventa quindi un punto cardine per poter innescare il cambio di paradigma di cui si parlava sopra. Superare le difficoltà dell’uso delle piattaforme e dello schema tradizionale di lezione (didattica frontale, compiti, verifica e voto) non è però semplice per tutti: “Alcuni docenti hanno faticato, va detto, ma la maggior parte si è attivata. C’è stato comunque un cambio di approccio rispetto alle strumentazioni” racconta Piscozzo.
L’innovazione didattica non va confusa con i suoi strumenti
Quando si parla di innovazione didattica, c’è il rischio di confondere metodologie e obiettivi. Il digitale può prestarsi a enfatizzare questo equivoco: si scambia l’accesso facilitato a dati e informazioni – gli strumenti – con la possibilità che questo crei nuovi modi e frontiere di apprendimento. Come spiega ancora Amendola: “un’innovazione didattica non si può basare solo sugli strumenti. Quello che facciamo noi è formazione pedagogica. Un insegnante deve conoscere tante tecniche e tanti strumenti digitali per poi dimenticarli quando occorre. Gli insegnanti sono degli intellettuali, non dei tecnici, perciò sarebbe importante rivolgere gli interventi di formazione alla didattica e non alle tecnologie. Se i ragazzi non sono in grado di pensare criticamente le tecnologie sono inutili”.
La didattica è quindi prima di tutto pedagogia, cioè guida gli altri alla conoscenza di sé e del mondo. Stimola il pensiero critico, la capacità di creare connessioni e di generare pensiero originale. È questa premessa che rende sensati gli strumenti, non viceversa. In sintesi: il digitale è un mezzo con cui stimolare l’innovazione, non è innovativo di per sé.
La continuità didattica e amministrativa è una condizione abilitante
La transizione digitale ha tempi lunghi. Per garantire dotazioni, ma anche per sperimentare il digitale come leva di una didattica innovativa, è necessaria una continuità didattica. Avere un arco di tempo sufficientemente ampio è infatti una condizione abilitante della sperimentazione e dell’innovazione, di qualunque tipo. “Se andiamo in alcune scuole, ci accorgeremo che hanno molto personale precario all’interno delle segreterie e tra gli insegnanti. Ma per poter accedere ai fondi bisogna progettare, seguire il progetto in corso d’opera e rendicontarlo. In un arco temporale lungo. Perciò le realtà più fragili che hanno meno personale di ruolo rischiano di rimanere fuori da certe opportunità, malgrado ci sia la possibilità di farlo” racconta Piscozzo.
Stabilizzare e trovare un modo per garantire continuità al personale, è dunque una precondizione per attuare una reale transizione al digitale della scuola, sia in termini di dotazioni che di attività didattica in aula.
Per la transizione digitale serve creare una comunità di pratiche della sperimentazione
L’ultima riflessione che sentiamo di condividere è fatta da Amendola. “Non possiamo pensare di risolvere i problemi della scuola con i tablet, serve parallelamente un discorso di osservazione e ricerca con gli insegnanti. È necessario inserire tutto quello che il digitale può offrire nello specifico contesto delle classi, nelle attività proprie dell’insegnante. Quello che si dovrebbe fare è realizzare momenti di ricerca e attività collegiali perché, dato che le cose da vedere sono tante e il processo di trasformazione è delicato, è essenziale la possibilità di confrontarsi tra insegnanti e presentare le esperienze che si possono fare”.
La transizione digitale nelle nostre scuole ha bisogno di momenti di condivisione delle pratiche didattiche, per adattare gli strumenti digitali ad ambiti, classi, contesti diversi. Occorre avere metodo, ma anche sapere e volere condividere, creando e alimentandocomunità di pratiche, sia all’interno dei singoli istituti che con altre scuole. È un processo che sta già avvenendo, che abbiamo raccontato parlando del Movimento Avanguardie Educative, ma che per essere efficace dovrebbe diventare una prassi.
(questo articolo, con il permesso della direttrice, è stato ripreso da www.secondowelfare.it)
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