Assistiamo a un fenomeno apparentemente paradossale. Da un lato, mai nessuno oggidì scrive e parla (perlomeno pubblicamente) senza come minimo alludere alla pandemia. Dall’altro, pare che le categorie del pensiero – sotto ogni copricapo disciplinare – non siano state in alcun modo perturbate da quanto avvenuto e da quanto avviene. Fenomeni i più accadimentali – come l’aumento dei prezzi delle materie prime, lo smart working, l’onda di dimissioni dal lavoro… solo per fare qualche esempio – hanno colto di sorpresa anche gli osservatori più attenti. Di più: tuttora questi fenomeni vengono affrontati o con spirito destinale/fatalista o con strumenti inadeguati a comprenderli e, dunque, a predirne lo sviluppo.
Questo mio giudizio non è chiaramente generalizzabile. È uno sguardo fuggevole cui molto, per conseguenza, sfugge. Vi sono pensatori, scienziati, economisti, scrittori, artisti, imprenditori, attivisti che evidentemente quello che è avvenuto e che avviene lo hanno compreso e lo comprendono. Penso, per fare un solo esempio, a un saggio notevole, Filosofia della casa di Emanuele Coccia, un testo avventuroso che proprio nella cattività pandemica ha saputo leggere il codice di una nuova grammatica dell’abitare e in genere della dimensione domestica. Qui ho trovato – per quel che il mio giudizio può valere – non solo un’analisi intelligente e saggia, ma anche la bramosia del di di–più, l’entusiasmo intellettuale per qualcosa che sfugge ai paradigmi in essere e ne reclama di nuovi.
Questo è ciò di cui scrivo: non solo del dare considerazione al Covid–19 (ciò che tutti fanno quasi per obbligo e spesso in modo ultroneo), ma di avventurarsi nella zona di confine tra un’epoca che si chiude e una che principia. In sintesi, chiedo al pensiero di raccogliere la sfida del confine. I confini sono l’opposto dei limiti. I limiti delimitano. I confini sono fatti per essere valicati. E vissuti. E dunque – cito qui il mio maestro Fabrizio Desideri in una sua conferenza su Walter Benjamin di alcuni anni fa – nulla è più distante da un pensiero del confine e sul confine di un pensiero del limite e sul limite.
Le riflessioni sul Covid–19 finora esibite e diffuse hanno la tipica caratteristica di riflessioni del limite e sul limite. Di riflessioni, in summa, limitate. Parlano di ciò che la pandemia chiude, impedisce, delimita. Per quanto riguarda il dopo, due sono le strade solitamente percorse: o quella di un ritorno al passato (l’ormai liturgico «ritornare alla normalità») o quella di un generico «cambierà tutto». Di qua i comfort spirituali dell’identico, più in là l’abisso (in fondo confortevole, perché mai esplorato) dell’ignoto.
È invece già evidente che i cambiamenti introdotti o – frequentemente – soltanto accelerati dalla pandemia non hanno né i tratti gattopardeschi di una mutazione soltanto apparente, né i tratti di qualcosa di archiviabile in un generico totus caliginoso e quasi mistico. Sono cambiamenti di struttura e di infrastruttura. Riguardano cultura, condotte, credenze, valori, espressione e percezione. Hanno tratti precisi e identificabili, se siamo disposti a rintracciarli. Tratti che talvolta (ma non sempre!) si tengono tra loro, producendo più coerenze di quanto immaginiamo. Facciamo un esempio: smart working, dati economici regionali, consumo di antidepressivi e mercato immobiliare costituiscono un insospettabile quartetto tematico ricchissimo di fattori di coerenza. E dunque una costellazione di verità.
Pensiamo poi a un tratto più apparentemente superficiale e creaturale (e solo apparentemente psicologistico): l’alternativa tra volto e presenza. Da due anni viviamo un contesto di vita che, assai spesso, ci costringe a scegliere tra l’incontrare qualcuno rinunciando a vederne il volto e il percepirne l’intera figura facciale, in collegamento video, rinunciando però alla sua presenza fisica. Si può pensare che qualcosa del genere non stia lasciando tracce nel nostro sistema percettivo, dunque emozionale e cognitivo insieme? Si può forse credere che l’infrastrutturazione umana del nostro interesse e del nostro stringere trame e relazioni possa uscire indenne e immutata da un perturbamento percettivo di questa portata? Si può credere che tutto ciò che facciamo in forma collettiva possa non recare la segnatura di questa krisis?
Sono almeno quattro i contesti in cui si deposita il precipitato chimico di questa frattura. Quattro coincidenti confini. Il primo è quello ambientale. Il secondo è quello sociale. Il terzo è quello economico. Il quarto è quello culturale (in senso stretto come in senso lato). Ciò che li tiene insieme può chiamarsi scienza. Oppure può chiamarsi politica. La fragilità della seconda sta producendo un equivoco, ovvero che le risposte della scienza siano anche risposte politiche. E, soprattutto, che le domande della scienza siano le uniche domande date. Quand’anche con scienza intendiamo l’intero novero delle dottrine scientifiche (includendo dunque le scienze non matematiche e non positive), l’analisi non cambia granché. La politica deve dare orecchio alle domande e alle risposte della scienza. Ma – in special modo in una democrazia – deve avere, oltreché la responsabilità dell’azione, anche un discorso proprio. Un coraggioso discorso del confine e sul confine. Deve seguire le tracce di un ‘dopo’ che certo non è uguale al ‘prima’ ma che nemmeno è azzeramento di tutto. Un ‘dopo’ che non è salvifica apocalisse. Ma che potrebbe diventar catastrofe.
Massimo Pizzingrilli
Bravo, giusta riflessione infrastrutturale 🙂