Breve riassunto della puntata precedente: sempre più Paesi emergenti stanno cercando di trovare una alternativa all’egemonia del dollaro come valuta internazionale di riferimento, sia per motivi geopolitici che commerciali.
Per ora il risultato è ancora piuttosto modesto, ma sappiamo che una valanga può innestarsi anche da una palla di neve: nel settore del petrolio la Cina ha già avviato contratti internazionali in renmimbi e l’ultimo summit allargato in Sudafrica dei Paesi emergenti ha testimoniato una certa volontà di smarcarsi dal pesante fardello del biglietto verde. Si era anche detto che la fine del dollaro non dipenderà da una sostituzione con una nuova valuta dominante, ma piuttosto per uno sgretolamento dell’attuale sistema dei pagamenti internazionali.
Fine del prologo.
Perché il ruolo del dollaro allora, solo nel tempo, dovrebbe sbiadirsi? Perché stiamo assistendo a una caduta del dollaro fra le valute di riserva (sceso al 47% nel 2022 rispetto al 70% di quindici anni fa). La Cina, (come confermato dalla vendita shock di qualche giorno fa) sta diminuendo sensibilmente il suo stock di titoli USA in valuta (nel 2023 è sceso del 35% rispetto al valore di 10 anni fa) ed è il Paese che ne accelera maggiormente il processo.
Ma il dollaro soffre anche la grande performance dell’oro, che sta tornando al suo ruolo di commodity regina, favorita dal susseguirsi degli ultimi sviluppi geopolitici. Sempre la Cina lo sta comprando in grandi quantità, raggiungendo il quinto posto a livello mondiale. (Per nostra curiosità, l’Italia è in quarta posizione per riserve auree). Sono prevalentemente le banche centrali artefici di questa crescita e il trend sembra destinato a continuare anche per il futuro.
Una altra ragione è che la bilancia commerciale USA è da tempo in rosso: secondo un vecchio insegnamento imparato sui banchi dell’università, quando un’economia ha più da vendere che da comprare, la sua moneta allora sarà desiderata in quanto chiave d’accesso per ottenere le sue merci, ma vale anche il viceversa. E a differenza degli Usa, i Brics hanno invece una bilancia commerciale in surplus: se fossero in grado di organizzarsi in maniera efficace, potrebbero davvero costituire un problema per il dollaro.
La loro debolezza tuttavia sta, almeno ad oggi, nella necessità di dover coinvolgere Paesi dalla pessima reputazione finanziaria per poter fare massa critica: quale investitore terzo si sentirebbe tutelato nell’affidare i propri scambi o i propri risparmi ad una valuta rappresentativa dell’Argentina o dell’Egitto, dell’Etiopia o dell’Iran?
Faccio un esempio al riguardo. Se io ho un credito in dollari che per qualche ragione mi viene contestato, a proteggere i miei diritti ci sarà la giustizia americana, quindi uno Stato di diritto. Se io ho un credito in renminbi cinese e io dovessi incontrare qualche problema dovrò affidarmi ai tribunali cinesi. Auguri… Se lo avessi in pesos argentini, oltre alla giustizia locale a cui affidarmi, dovrei sperare che l’inflazione nel frattempo non mi abbia del tutto mangiato il valore del denaro da incassare (per la cronaca nel 2023 l’inflazione argentina è cresciuta del 113% circa a/a). Doppiamente auguri…
C’è anche un altro esempio che racconta bene la fragilità di questo club anti-americano in formazione: l’India sta comprando petrolio e gas russo a prezzi scontatissimi e pagandoli in rupie indiane. Ora, l’India è uno Stato di diritto, ma la rupia indiana ha scarsa utilità globale. Quando i russi incassano quelle rupie, moltissimi paesi le rifiutano, così i russi dopo aver svenduto la loro merce (energia in questo caso) all’India sono anche costretti a comprarsi prodotti indiani, di cui magari non hanno stretta necessità, per ri-utilizzare la valuta ricevuta. Se avessero ottenuto dei dollari anziché delle rupie, li avrebbero potuti utilizzare come volevano.
Insomma, che piaccia o meno, questa dittatura del dollaro è destinata a durare ancora per un po’, perché è molto conveniente per tutti.
Ma come tutte le dittature (illuminate o meno) si fondano su processi di controllo accentrati ed assolutistici.
Essere esclusi dal circuito del dollaro equivale, ancora ad oggi, ad una forte menomazione economica perché condanna all’emarginazione. Le sanzioni decise dagli USA hanno infatti il dono della “extra-territorialità”, cioè il loro impatto va ben oltre il continente americano (come ad esempio l’espulsione dal circuito Swift) e devono essere applicate e replicate da tutti i Paesi aderenti a quel sistema (anche se magari non ne condividono le ragioni).
E se questo fa davvero arrabbiare i Paesi del club anti U.S.A., fa arricciare il naso anche a tutti quei Paesi fondati su solidi sistemi democratici, necessariamente allergici a qualsiasi forma di tirannia. Anche quella monetaria…
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