Il passaggio a un nuovo paradigma di sviluppo non è mai semplice. Il riassetto di un’economia e di una società passa sempre per una scomposizione degli equilibri precedenti, che necessitano di un sovvertimento e di una capacità creativa inusitata, prima di trovare una diversa sistemazione. Il tempo in cui viviamo è il frutto di una lunga età di turbolenze e transizioni, che non ha ancora iniziato la sua fase di assestamento. Il panorama dell’ultimo mezzo secolo è stato costellato dai colpi di crisi ripetute, a partire dall’emergenza dell’innalzamento dei prezzi petroliferi e della stagflazione degli anni Settanta del secolo scorso, fino al crollo economico e finanziario del 2007-2014. Dopo di allora, il mondo ha dovuto affrontare pandemia, guerra e crisi energetica, ma anche avversità climatiche e ambientali, in un susseguirsi di forti scosse, brevi riprese e pesanti ricadute. Questa sequenza ha consegnato alla storia e all’attualità una realtà segnata da “policrisi”, ovvero da un insieme di notevoli perturbazioni che è più grande della somma delle sue parti. Il termine è stato coniato da Edgar Morin e Anne Brigitte Kern nel 1999 per descrivere “crisi intrecciate e sovrapposte”, che non rappresentavano più una singola minaccia, ma la “complessa interconnessione di problemi, antagonismi, crisi, processi incontrollati con la crisi generale del pianeta”. Lo storico Adam Tooze, in un articolo di poche settimane fa dal titolo rivelatore (Welcome to the world of the polycrisis), ha rilanciato questa espressione, rimarcando la differenza sostanziale con i periodi passati di una crisi che richiede soluzioni sempre più complesse: “Immaginare che i nostri problemi futuri saranno quelli di cinquant’anni fa significa non capire la velocità e le proporzioni della trasformazione storica”. Nello scenario odierno, vi sono molteplici fonti di incertezza, che complicano le prospettive economiche: la questione energetica europea, intimamente connessa con l’andamento della transizione ambientale e la realizzazione degli interventi per la ripresa; l’evoluzione dell’inflazione e il rapido incremento dei tassi di interesse; la sfida monetaria globale e la tenuta dell’euro; la trasformazione o il decadimento del sistema industriale; la mancanza di una visione strategica per l’elaborazione di un nuovo modello di sviluppo. Questi motivi di crisi si intrecciano con un conflitto costantemente in bilico tra minacce di escalation e possibilità di tregua e con gli imprevedibili sbocchi degli assetti geopolitici. Sul versante di un cupo pessimismo si colloca un economista come Nouriel Roubini, che, al cospetto di pressioni stagflazionistiche capaci di comprimere un debito pubblico e privato di enormi dimensioni (salito dal 200% del Pil nel 1999 al 350% nel 2021), preconizza un “inevitabile schianto”. Anche perché una tale massa finanziaria, invece di stimolare gli investimenti in nuovo capitale, si riversa nella spesa per consumi e, spesso, in “elefanti bianchi” (ovvero, progetti infrastrutturali inutili). Per i Paesi fragili e con un indebitamento eccessivo, quale l’Italia, il rischio è plurimo: costi di finanziamento in forte aumento, redditi e ricavi in calo e valori patrimoniali decurtati. In questi giorni, il Financial Times e l’Economist hanno riportato ampie previsioni economiche per il prossimo anno. Il primo sottolinea la condivisione generale di un quadro nel quale la crescita del Pil globale continuerà a rallentare e l’inflazione, pur toccando il suo picco, si manterrà “vischiosa”: per gli investitori, ma anche per le azioni di politica economica da porre in atto, si tratterà di comprendere la portata dell’interazione tra questi due fenomeni a livello dei singoli territori. L’Economist osserva che l’economia mondiale sta decelerando e molti Paesi corrono il pericolo di una crisi profonda. Tuttavia, le attese per il 2023 appaiono controverse. Da un lato, nel primo semestre, si prevede qualche miglioramento sia dell’inflazione che delle disponibilità energetiche, dall’altro, limitandosi all’Europa, le ingenti somme spese per proteggere l’economia dai costi elevati dell’energia e il pieno impatto degli aumenti dei prezzi potrebbero portare a una recessione, nel corso dell’anno, seguita da una ripresa molto lenta. Inoltre, “il prossimo scontro tra inasprimento monetario e sostenibilità fiscale” avrebbe come teatro il nostro Paese e, se la BCE dovesse rialzare i tassi, il bilancio italiano sarebbe sottoposto a un consistente stress. Secondo i redattori del Collins English Dictionary, la parola dell’anno per il 2022 è “permacrisi”, intesa come “un lungo periodo di instabilità e insicurezza”, che richiama l’idea di un’epoca di crisi non ancora conclusa. La costruzione di un nuovo paradigma dipende, dunque, dall’evoluzione e dal condizionamento reciproco dei tre shock (geopolitico, energetico ed economico-finanziario), che pervadono il contesto attuale. Il compianto David Sassoli scriveva, ricordando proprio Edgar Morin nel centenario della nascita, che “l’Europa può svolgere un ruolo da protagonista e indicare nuovi modelli capaci di conciliare crescita economica e sostenibilità”. Senza questa rinnovata ingegnosità e forza di innovazione, accompagnata da un eccezionale impegno per il rilancio dell’unità europea, sarà molto difficile uscire da questa fase di “policrisi”, provando a completare una transizione intricata e piena di incognite.
(questo articolo, già pubblicato dal quotidiano Il Mattino, è ripreso con il consenso dell’autore)
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