Una giusta causa (On the basis of sex) è un bellissimo film del 2018, trasmesso qualche giorno fa da Rai Movie, che racconta la vita di Ruth Bader Ginsburg: la celebre giurista americana nominata giudice della Corte Suprema dal presidente Clinton e recentemente scomparsa.
Ruth studiò legge all’Università di Harvard, dove era una delle sole nove studentesse in un corso di 500 persone; quando il marito avvocato si trasferì a New York per lavoro, lei continuò gli studi presso la Columbia University e si laureò brillantemente nel 1959. Ma non riuscì a entrare in uno studio legale, perché donna.
Così iniziò una carriera da docente nella Columbia University: fu il primo docente ordinario donna e fu autrice di un libro di testo sulla discriminazione sessuale. Negli stessi anni si impegnò come volontaria nell’American Civil Liberties Union e patrocinò diverse cause legali a favore dei diritti delle donne. Nel 1980 fu nominata giudice della Corte d’Appello nel Distretto della Columbia e in seguito venne chiamata a far parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, dove ha operato fino alla morte.
Ruth Ginsgurg è stata una delle menti più brillanti della stagione delle battaglie per i diritti civili, che hanno caratterizzato in modo esaltante la storia americana di tutti gli anni Sessanta e Settanta. Non c’è dubbio che personaggi come lei abbiano determinato dei cambiamenti culturali di enorme portata; e intere generazioni di donne, che oggi possono lavorare liberamente nei settori più disparati, ne hanno beneficiato.
Ma se andiamo a paragonare le battaglie epocali della Ginsburg o di altri coraggiosi leader del secolo scorso, come Martin Luther King e Bob Kennedy, con quelle dell’attuale movimento a favore della cosiddetta cancel-culture, beh, ci viene da pensare che gli Stati Uniti stiano vivendo una vera e propria fase di declino.
Sorvoliamo sugli episodi più imbarazzanti avvenuti di recente, come la distruzione o l’imbrattamento di statue di personaggi storici (G.Washington, giusto per citarne uno di qualche rilievo), accusati di essere stati degli schiavisti bianchi. Il dato veramente grave è che questo movimento, intollerante e moralistico, si è diffuso all’interno delle università americane, dando luogo a una nuova caccia alle streghe, che per certi versi ricorda il maccartismo anti-comunista del secondo dopoguerra. In nome della cancel-culture, vengono oggi messi all’indice autori come Omero, Platone, Ovidio, Skakespeare e persino Herman Melville, il creatore di Moby Dick, considerati pericolosi sostenitori dello schiavismo o di avere mostrato nelle loro opere pregiudizi verso i gay e le donne.
Naturalmente, come è più volte accaduto in passato quando le mode americane hanno attraversato l’Oceano, la crociata politicamente corretta contro il linguaggio dell’odio (hate speech) e l’omofobia ha trovato molti seguaci anche in Italia. Al punto che il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia è stato calendarizzato nella Commissione Giustizia del Senato e potrebbe essere definitivamente approvato in Parlamento.
Ma c’è un grosso problema con questo disegno di legge, che, anche se pretende di riallacciarsi alla sacrosanta tradizione delle lotte per i diritti civili, in realtà potrebbe diventare una norma illiberale perché contraria al principio della libertà d’espressione. Se, infatti, qualcuno domani parlasse o scrivesse contro l’istituzione del matrimonio tra omosessuali, in base all’art 4 del ddl potrebbe essere facilmente portato in giudizio e magari condannato in quanto libero di esprimere le sue idee “purché non idonee a determinare il concreto pericolo di compimento di atti discriminatori o violenti”.
E chissà quanti magistrati ideologicamente schierati sarebbero pronti a utilizzare quel “purché non idonee”, per interpretare la legge nel modo più rigorista e moralista possibile.
La legge Zan non discende, dunque, neppure idealmente, dalla storia dei diritti civili degli anni Sessanta, nonostante che ad essi formalmente si richiama. In realtà, è molto più simile alle leggi liberticide, come quella contro la blasfemia, vigenti nei paesi governati dal fondamentalismo islamico e utilizzate per reprimere le minoranze religiose.
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