Come si può affrontare il tema del rilancio dell’occupazione in un paese che ha perso un milione di posti di lavoro in un anno? Davvero basta una proroga ulteriore del blocco dei licenziamenti come chiedono i sindacati?
La posizione dei sindacati, bisogna dirlo, è più un riflesso condizionato che una vera proposta e, meno ancora, una policy per affrontare le conseguenze dell’emergenza economica e sociale del Coronavirus. Quei posti di lavoro (al di là delle modifiche nel sistema di rilevazione ISTAT) sono stati persi nonostante il divieto di licenziamento: questa misura sulla quale insistono i sindacati non è servita a proteggere “tutti” dagli effetti drammatici della pandemia, ma abbiamo avuto “sommersi e salvati”, con giovani contrattisti a termine, lavoratori autonomi e donne che hanno pagato il prezzo più elevato dello tsunami che ha investito il nostro Paese. Di fatto, i numeri dell’Istat mettono in evidenza le differenziazioni nel livello di tutele e garanzie sulle quali possono contare i lavoratori italiani
Quanto hanno inciso le politiche del lavoro, a di poco demagogiche, degli ultimi anni?
Le politiche del lavoro degli ultimi anni hanno avuto natura ideologica e poco pragmatica, soprattutto il decreto Dignità di matrice grillina. A questo va addebitato, nella somma tra recessione da virus e vincoli ai contratti a termine e a quelli in somministrazione e, soprattutto, ai rinnovi, nella scorsa primavera l’impatto devastante su questo segmento del mercato del lavoro: una valanga di mancati rinnovi per le fasce di età più giovani. A questo vizio d’origine non hanno posto rimedio nemmeno le successive modifiche e deroghe – sempre provvisorie e spesso incerte – soprattutto perché non hanno toccato comunque il maggiore costo (in termini di oneri contributivi) a carico di queste formule contrattuali flessibili. Di conseguenza il trend non è cambiato e, anzi, da settembre si è avuta una seconda ondata di ’fine lavoro’ per questa categoria: nel complesso, in un anno, sono andati in fumo poco meno di 380mila posti di lavoro a tempo determinato.
Ma assieme ai contratti a termine, di somministrazione chi rientra tra i sommersi?
Il secondo girone dei “sommersi” è quello dei cosiddetti “indipendenti”: partite Iva, commercianti, artigiani che si sono arresi, cancellandosi da ogni iscrizione ufficiale a Inps e Camera di commercio, di fronte all’azzeramento dei fatturati e al correre dei costi. Altri 360mila circa posti vanificati. All’appello delle cifre dell’Istat mancano altri 220mila impieghi perduti: si tratta di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato di imprese fallite o di lavoratori in cassa integrazione a zero ore almeno da tre mesi, oggi classificati tra i ”non occupati”
Ma allora chi sono i salvati dal divieto di licenziamento?
Il divieto di licenziamento evocato e invocato dal sindacato ha difeso le fasce già fisiologicamente più inserite del mercato del lavoro. Quello che non ha funzionato e non funziona è la presunta maggiore tutela che doveva essere garantita dai più stringenti vincoli e dai più consistenti oneri sul lavoro flessibile. Ma, su questo, i leader di Cgil, Cisl e Uil continuano a essere omissivi.
Ma ci sono novità dal governo Draghi o tutto procede come prima?
Qualcosa pare muoversi nell’ambito del nuovo governo, se è vero che sono allo studio incentivi contributivi non solo per le assunzioni a tempo indeterminato e in apprendistato, ma anche per quelle a termine e in somministrazione: in coerenza con quanto suggeriscono tutti i manuali di politica economica keynesiana, quando si suggeriscono pragmaticamente soluzioni anti-cicliche (per contrastare gli effetti di una fase recessiva) per spingere le imprese a assumere a termine in contesti incerti, rifuggendo da contratti che impegnano nel lungo periodo. Senza contare che un’ampia quota di rapporti stabili deriva proprio dalle formule flessibili ma tutelate. E non certo dal nero, rifugio di tutte le rigidità ufficiali.
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