Per le multinazionali della componentistica automotive la Toscana ha rappresentato nel recente passato un sito localizzativo particolarmente interessante. Ciò è dimostrato dalla presenza di imprese appartenenti a vari Paesi europei ed extra europei quali ad esempio la Germania, il Canada e il Giappone. Oggi è in atto un dirompente cambiamento tecnologico, che vede un sempre più rapido e accentuato processo di migrazione di interi settori manifatturieri verso produzioni più sostenibili dal punto di vista ambientale.
Il settore automotive in particolare è stato investito da un vento impetuoso e fino a pochi anni fa del tutto imprevedibile, che da una parte sta costringendo le imprese a trasformare i prodotti in senso digitale e dall’altra ad abbandonare forme tradizionali di trazione verso l’elettrificazione dei componenti e dei motori.
Non si tratta comunque solo di un jump tecnologico, sebbene di portata epocale, ma anche di un conseguente e profondo processo di adeguamento delle risorse umane. È noto infatti che non sia di per sé sufficiente acquisire la tecnologia, ma sia necessario anche saperla usare e gestire, adattandola alle varie situazioni e quandanche migliorarla.
Ciò richiede nuove risorse, nuove conoscenze, nuove competenze e nuovo know-how. Non vi è dunque la necessità per tutto il settore automotive nel suo complesso di semplici processi di upskilling delle risorse, che hanno l’obiettivo di far sviluppare al dipendente nuove competenze nello stesso campo di lavoro, e cioè di upgrade di ciò che è già in grado di fare, quanto piuttosto di processi di reskilling, che prevedono lo sviluppo di nuove competenze e nuove capacità che consentano al dipendente di ricoprire ruoli e compiti diversi. In molti casi poi si tratta di acquisire risorse che abbiano nuove conoscenze spesso provenienti da altre aree tecnologiche, o anche di sviluppare collaborazioni con imprese di altri settori.
È una trasformazione che avrà impatto su tutta la catena del valore della filiera automotive, dalla ricerca e sviluppo, all’industrializzazione, alla produzione, la cui riorganizzazione sarà pesantemente influenzata anche dal fatto che le multinazionali first tier stanno tentando di ricercare un nuovo equilibrio guardando con attenzione a tutti i vantaggi competitivi offerti dai cosiddetti ‘Paesi low cost’5 (non solo del Far East, ma anche dell’Europa dell’Est e dell’Area Mediterranea, rispetto ai quali sono più corte e meno complesse le catene logistiche), dove infatti sta crescendo la loro propensione all’investimento.
Tutto questo è acuito dall’aumento del costo delle materie prime e in particolare di quelle indispensabili alle due rivoluzioni in corso nel sistema produttivo – la transizione green e quella digitale – come il rame, il litio (indispensabile per le batterie), il silicio, il cobalto, le terre rare (come ad esempio il rodio utilizzato per i collegamenti elettrici), il nichel, lo stagno (utilizzato per le microsaldature nel settore elettronico), lo zinco etc. Ciò si traduce in una ulteriore forte tensione sui costi, spingendo ancora di più le multinazionali a privilegiare le localizzazioni in Paesi low cost, con un conseguente impatto negativo sugli attuali livelli di occupazione nei Paesi di tradizionale insediamento. La contrazione occupazionale è inoltre acuita dal fatto non trascurabile che i motori elettrici hanno meno componenti rispetto ai motori a combustione interna e quindi minori contenuti di lavoro. Queste tensioni e queste dinamiche coinvolgono, pur con le dovute differenze, anche le multinazionali presenti in Toscana, che vedono gradualmente erodersi i vantaggi localizzativi che le hanno portate a sviluppare in zona sia le attività di produzione sia di R&D, minando alle base la sostenibilità industriale sul territorio del cambiamento.
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È opportuno ricordare a questo proposito che il processo di trasformazione tecnologica verso autoveicoli ‘green’, rende inutilizzabili non solo molti componenti del veicolo tradizionale ma anche, come ovvio, i relativi processi di produzione. Si calcola infatti che «la trasformazione radicale dell’architettura dei veicoli nella versione elettrica renderà obsoleti fino all’85% dei componenti del power train tradizionale riducendo il numero di quelli riutilizzabili a soli 20
I sistemi di raffreddamento e trasmissione dovranno essere aggiornati e serviranno componenti interamente nuovi quali batterie, elettronica e motori elettrici per i quali gli standard tecnologici devono essere ancora definiti e la tecnologia è in rapida evoluzione». Tutto ciò comporterà pesanti investimenti non solo per lo sviluppo e la progettazione di nuovi componenti, ma anche per la loro ingegnerizzazione e per l’acquisizione e l’impianto di nuove linee di produzione.
L’intervento pubblico ha puntato però quasi esclusivamente a finanziare le attività di R&D e le imprese di piccola e media dimensione, ponendo le grandi imprese (nella maggior parte dei casi stabilimenti italiani di multinazionali straniere) spesso ai margini dei flussi di finanziamento. Del tutto trascurabile poi è stato il supporto pubblico, ad eccezione di Industria 4.0, al necessario rinnovamento degli impianti, che in questo caso, come si è visto, è radicale.
Dunque le difficoltà da affrontare sono sostanzialmente di due tipi:
– Il rinnovamento delle linee di produzione, con lo smantellamento quasi totale di quelle vecchie, che richiede investimenti molto ingenti, rendendo le attuali localizzazioni assolutamente non competitive di fronte ad altre possibili siti produttivi a livello europeo;
– La conseguente assoluta necessità di reskilling delle risorse, con lo sviluppo di nuove competenze e nuove capacità, unitamente all’acquisizione di risorse che abbiano conoscenze diverse spesso provenienti da altre aree,
Altro punto critico è rappresentato dalla recente apparizione di un nuovo attore sulla scena del mercato mondiale dell’auto: il gruppo Stellantis, nato dalla fusione di FCA e PSA. Uno dei principali pericoli scaturisce dal fatto che i maggiori volumi di auto elettriche possano essere prodotti negli stabilimenti esteri. Il gruppo PSA Groupe inoltre sembra più avanti nei processi di elettrificazione (vedi più oltre anche il caso Atop), avendo già definito, ancor prima della fusione con FCA, due piattaforme modulari che permetteranno di proporre una vasta gamma di modelli elettrici sia con marchio Peugeot, sia con marchio Citroen e Opel. Segno questo che dal punto di vista tecnologico e delle competenze gli stabilimenti francesi sono più avanti di quelli italiani, dove FCA, ora Stellantis, produce solo un modello totalmente elettrico, la Fiat 500. Carlos Tavares, CEO di Stellantis, ha inoltre rilevato che i costi di produzione degli stabilimenti italiani sono più alti di quelli nelle fabbriche PSA di Francia e Spagna, fenomeno sembra non dovuto ai salari che non sono più elevati di quelli dei lavoratori francesi e spagnoli. È un fatto, ad esempio, che in Spagna non esistano produttori autoctoni, ma solo insediamenti industriali di case automobilistiche come VW, Nissan, Renault e PSA, a dimostrazione della competitività localizzativa di quelle aree industriali. Sono questi segnali di pericolo per la filiera italiana? Sicuramente è lecito porsi la domanda se il baricentro delle attività di questo nuovo colosso si sposterà verso Paesi, come la Francia, manifestamente più avanti nei processi di elettrificazione dei veicoli, o verso aree che vantano maggiori economicità dei processi produttivi.
Infine l’emergenza COVID-19: l’epidemia ha colpito tutti i settori con il blocco delle attività conseguenti alle varie modalità di lockdown messe in atto dai vari Paesi. Ma il settore della componentistica, come tutti quelli che sviluppano e producono beni dove è importante la componente elettronica, è stato in particolare colpito, oltre che dalla contrazione della domanda dei mercati a valle, anche dal blocco della supply chain, con la rottura delle catene del valore. Ciò è stato provocato dal cosiddetto shortfall o shortage dei microchip che ha costretto i produttori, lungo tutta la filiera automotive, a pianificare chiusure temporanee di stabilimenti. In effetti la produzione di microchip è quasi sempre stata in emergenza, dal momento che è legata a possibili aumenti di richieste per lo sviluppo di nuovi device o non prevedibili oscillazioni del mercato che possono manifestarsi da un giorno all’altro. L’aggravante di oggi è dovuta in parte anche alle chiusure parziali a causa della pandemia, che hanno provocato una fornitura di microchip inferiore al previsto.
Riprodotto, con il permesso dell’autore e di ANFIA, da Cap. 5 “La sostenibilità industriale della transizione I risultati di un’analisi qualitativa in Toscana” in “Osservatorio sulla componentistica automotive italiana”, ed. 2021, realizzato da ANFIA, Camera di commercio di Torino e CAMI (Center for Automotive and Mobility Innovation) dell’Università Ca’ Foscari Venezia.
NICOLA VERDICCHIO
Riflessione interessante che coglie molti aspetti della trasformazione nel settore Automotive e la debolezza della filiera italiana.