È da molto tempo che, all’interno dell’Associazione “il Mulino”, stiamo ragionando su questo tema e singoli soci, in quanto intellettuali pubblici, ne hanno fatto oggetto delle loro riflessioni in libri, riviste, quotidiani e altri media. Segnalo in particolare la discussione sul libro di Carlo Trigilia (La sfida delle disuguaglianze, Il Mulino, 2022) di cui abbiamo riferito nel precedente numero della rivista (Che ne è della sinistra?, n. 1/2023). Da queste riflessioni e ragionamenti, il presidente dell’Associazione ha tratto l’idea di promuovere una riunione dei soci esclusivamente dedicata a questo tema. La riunione si è svolta il 15 aprile scorso e il compito di introdurla è stato affidato a chi scrive, con la raccomandazione di affrontare il tema con un forte approfondimento storico e in modo politicamente non partigiano, concentrandomi sulle esigenze del Paese e non sugli interessi e gli obiettivi della parte politica cui mi sento più vicino. La mia relazione introduttiva può essere letta per esteso seguendo questo link. Di seguito cerco solo di dare un’idea dei criteri ai quali mi sono attenuto e delle poche conclusioni cui sono arrivato.
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Per attenermi ai suggerimenti del presidente mi sono rivolto al grande affresco storico e teorico di Francis Fukuyama sulle origini, l’evoluzione e le attuali difficoltà dell’ordine politico interno in una grande varietà di Paesi ed epoche storiche, e in particolare sugli obiettivi che gli attuali Paesi industrialmente avanzati e retti da democrazie liberali devono soddisfare simultaneamente: Stato di diritto, democrazia politica e istituzioni pubbliche efficienti. Per Fukuyama, Stato di diritto e democrazia politica non sono in grado di radicarsi in una comunità nazionale se manca uno Stato forte ed efficiente che accompagni questi obiettivi promuovendo lo sviluppo economico e sociale del Paese.
Stato di diritto e democrazia politica non sono in grado di radicarsi in una comunità nazionale se manca uno Stato forte ed efficiente che accompagni questi obiettivi
Il problema, dunque, non è solo quello di sbloccare la politica, ma anche quello di sbloccare la crescita. Per un Paese che non cresce da un quarto di secolo, sono convinto che non si riesce a sbloccare la politica se non si sblocca la crescita. Ma è altrettanto vero che non si riesce a sbloccare la crescita se non si sblocca la politica: i due obiettivi devono essere raggiunti insieme. Da qui nasce l’esigenza di porre al centro del progetto riformatore l’inefficienza delle istituzioni pubbliche del nostro Paese, e dunque la riparazione del debole State Building italiano che il passato ci consegna.
È per questa ragione che nella relazione insisto sull’opportunità di dialogo e di accordo su temi specifici tra forze di governo e di opposizione. Nel contesto di una democrazia rappresentativa e di uno Stato di diritto esse sono, per definizione, libere di perseguire i loro orientamenti politici e i loro interessi organizzativi come meglio ritengono, nel rispetto della Costituzione: non c’è modo di impedirlo e non sarebbe giusto farlo. Ma mi è sembrato giusto sottolineare che un eccesso di conflittualità tra di esse, specie se motivato da considerazioni prevalentemente ideologiche, può contrastare con l’obiettivo di raggiungere accordi parziali benefici per l’intero Paese. Tuttavia, anche controllando una conflittualità ideologica ingiustificata e dannosa, siamo sicuri che le principali forze di governo e di opposizione concordino sui principi di uno Stato di diritto e di una democrazia rappresentativa? Un esempio importante può suggerire qualche serio dubbio in proposito.
Se non per accenni, nella mia relazione non affronto una difficoltà che può rivelarsi assai grave in un disegno che aspiri a ridurre l’attuale conflittualità e polarizzazione tra gli schieramenti di Destra e Sinistra, accompagnate spesso da tensioni all’interno di entrambi. È sufficiente un diffuso ma generico consenso sui due primi obiettivi di Fukuyama (democrazia rappresentativa e Stato di diritto) per definire una posizione politica potenzialmente maggioritaria (e dunque spesso trasversale) in un Paese economicamente avanzato retto da un regime liberal-democratico? Si noterà che ho sovente aggiunto a questi obiettivi l’espressione “e le alleanze internazionali necessarie per garantirli”. Ma le forze politiche che a parole si dichiarano d’accordo su Stato di diritto e democrazia sono anche d’accordo sulla politica internazionale (ed europea) che dev’essere perseguita? Per un Paese di media taglia inserito in un fitto tessuto di rapporti internazionali, e in particolare nell’Unione europea, un consenso trasversale, se non necessario, è auspicabile: la sua mancanza ci condurrebbe ad un inasprimento dell’attuale polarizzazione e toglierebbe forza a forme di collaborazione utili per promuovere proposte di maggiore efficienza delle nostre istituzioni pubbliche.
La polarizzazione politico-ideologica è la grande nemica del “mettersi tutti alla stanga”, come vorrebbe il Presidente della Repubblica, e i dissensi sulla politica europea e internazionale sono di fatto più polarizzanti dei riferimenti ideologici a un passato che non può ritornare. Essi mettono alla prova se esista oggi un vero consenso sui principi liberali e democratici sui quali le democrazie occidentali si fondano.
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Riassumo le principali conclusioni cui sono arrivato nei tre punti seguenti e nell’ultimo capoverso.
- La debolezza istituzionale dello Stato italiano e l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche è oggi un grave ostacolo, forse il principale, che il nostro Paese incontra nel suo progresso economico e sociale. L’origine storica della debolezza e dell’inefficienza è quella che ho cercato di descrivere nella relazione.
- Questo ostacolo può forse essere lentamente superato se si crea un maggior spirito di collaborazione tra le principali forze politiche del nostro Paese. Cioè se si attenua l’attuale polarizzazione tra la coalizione di Destra-Centro e la “non-coalizione” delle forze che l’oppongono, prevalentemente di sinistra.
- Una strategia di de-polarizzazione e parziale collaborazione è difficile. Essa non convince la coalizione di Destra-Centro, per ora al governo con una solida maggioranza. E convince ancor meno la non-coalizione delle forze di opposizione. A mio avviso sono oggi più significative le strategie polarizzanti del Destra-Centro, sia perché una pur faticosa coalizione effettivamente esiste, sia e soprattutto perché, essendo al governo, essa ha la possibilità di metterle in atto.
Ma vediamo meglio. Lasciamo pur da parte le dichiarazioni ideologiche e identitarie di alcuni importanti esponenti della coalizione di destra e veniamo invece ai progetti politici che questa intende attuare, per ora o non ben definiti, o solo parzialmente attuati. Da questi sembra di scorgere un disegno che non fa leva su un proposito di collaborazione, ma sull’imposizione di una politica fortemente di parte. E questo sia per la politica interna, sia per quella internazionale ed europea.
Per la prima si pensi a una riforma costituzionale, necessaria ma insidiosa per chi l’avversa o vorrebbe qualificarla proprio perché ancora indefinita: se presentata senza un reale impegno da parte del governo e se fosse mal gestita dalle opposizioni, essa potrebbe ridursi a un’arma di … ”distrazione” di massa. Si pensi al regionalismo differenziato, questo invece a uno stadio avanzato di elaborazione e che suscita forti resistenze nella sinistra e nel Mezzogiorno. Si pensi al carattere regressivo del disegno fiscale del governo. Si pensi all’inevitabilità di ulteriori privatizzazioni, in mancanza di un disegno di maggiore efficienza delle amministrazioni pubbliche. Si pensi soprattutto alla gestione del Pnrr e al tentativo di Meloni e Fitto di attribuire le responsabilità di una sua mancata attuazione ai precedenti governi di Conte e Draghi. Responsabilità che indubbiamente ci sono, e hanno proprio a che fare col basso livello di efficienza delle nostre pubbliche amministrazioni, ma che l’attuale governo aggrava eliminando misure che potrebbero attenuarle.
Per la politica internazionale ed europea si pensi all’alleanza senza se e senza ma con gli Stati Uniti, anche nel caso in cui la futura presidenza americana fosse caratterizzata da una linea politica più lontana dagli interessi italiani ed europei di quella che sta perseguendo l’attuale amministrazione. Stesso discorso sull’approvazione senza se e senza ma del ruolo che sta assumendo la Nato. E si pensi al tentativo di rovesciare gli attuali equilibri politici dell’Unione europea appoggiando una alleanza tra Popolari e le forze politiche della destra. Insomma, un disegno alla Morawiecki, dal nome del presidente polacco che l’ha formulato con maggiore franchezza e precisione. Si tratta di una linea che avrebbe ripercussioni inevitabili e pericolose anche in politica interna, sui principi liberali e democratici ai quali l’Unione si è sinora attenuta.
Una coalizione o un partito che ha vinto le elezioni ha il pieno diritto di attuare il suo programma, se questo è perseguito nel pieno rispetto della Costituzione, ciò che è sinora avvenuto. Deve però mettere in conto che il programma sommariamente descritto pone il governo in forte contrasto con le opposizioni. E va riconosciuto che l’incapacità delle opposizioni di presentarsi unite su un chiaro progetto politico alternativo non può che esacerbare la polarizzazione del sistema, o condurre a una sua frantumazione, in un contesto in cui finora è mancato un contrappeso credibile con il quale le forze di governo debbano confrontarsi.
L’incapacità delle opposizioni di presentarsi unite su un chiaro progetto politico alternativo non può che esacerbare la polarizzazione del sistema, o condurre a una sua frantumazione
Aggiungo infine, per tornare all’obiettivo cui la mia relazione è dedicata (maggiore efficienza delle nostre istituzioni pubbliche), che una riforma costituzionale può essere utile, ma non è necessaria per avviare riforme importanti, se si parte col piede giusto. Non la risolutiva “Riforma della Pubblica amministrazione”, ma riforme mirate di alcune delle tante e diverse amministrazioni nelle quali essa si articola. Si tratta dunque di scegliere di intervenire non su tutte ma solo su quelle maggiormente implicate in politiche pubbliche rilevanti per il sostegno alla crescita economica e il benessere dei cittadini e per queste individuare gli strumenti adeguati (spesso diversi, data la diversità dei settori e dei contesti in cui operano) al fine di incidere su alcuni momenti chiave della vita degli apparati. In particolare: il reclutamento del personale; il relativo statuto giuridico ed economico; l’autonomia organizzativa e di gestione delle risorse necessarie; il ruolo dei dirigenti; la valutazione dei risultati. Nessuna parte politica ha da sola le risorse e le competenze necessarie e soltanto un gruppo pluri-partisan di esperti, fortemente sostenuto dal governo e con la collaborazione delle opposizioni, potrebbe assolvere questo compito. Se poi, in corso d’opera, si rivelassero necessari interventi di ordine costituzionale potrebbe essere lo stesso gruppo a richiederli. Ma se per iniziare non c’è bisogno di grandi e controverse riforme costituzionali, c’è però bisogno di un livello di fiducia e di cooperazione tra governo e opposizioni assai superiore a quello di cui l’Italia dispone oggi.
Concludendo in via generale: la polarizzazione è destinata a rimanere o a inasprirsi, ed è questo ciò che ci dice il pessimismo della ragione con il quale concludo la mia relazione. Per trovare qualche motivo che giustifichi un ottimismo della volontà avrei dovuto, però, entrare in un campo che nella relazione mi sono volontariamente precluso, quello di riflettere su un programma politico che le forze della sinistra liberale e democratica potrebbero adottare. Cioè ragionare in un’ottica di parte e assumere il punto di vista di un partito che elabori e persegua, nell’attuale contesto italiano, un disegno politico riformista. Come cittadino militante nel campo della sinistra liberaldemocratica è quello che farò. Ma, per le ragioni sulle quali ho insistito fin troppo nella relazione, non intendevo farlo nella riunione dell’Associazione del 15 aprile.
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