Aderisco volentieri alla richiesta di SoloRiformisti di raccontare un possibile dopo Covid19 per la mia città, Venezia. Mi concentrerò sulla Venezia insulare perché per questa le conseguenze del Covid19 probabilmente avranno un impatto specifico (paradossalmente forse anche positivo) che merita un approfondimento particolare.
Questa Venezia ai tempi del corona virus costituisce una irripetibile sperimentazione sociale di massa dove i carrelli della spesa in giro sono più dei trolley, i vaporetti (troppo) vuoti, calli e campi se non vuoti tranquillamente percorribili.. una sensazione di anno zero, di realtà sospesa, di fine di un’epoca. Insomma per merito, paradossalmente, del virus ci è offerta l’occasione per una riflessione a tutto tondo sul futuro di questa città. Sulla vexata quaestio di quale economia perseguire, non sostitutiva dell’industria turistica (che sarebbe impossibile e neppure auspicabile), ma aggiuntiva e contemporaneamente competitiva a questa.
Il Covid 19 come nemesi biblica che punisce l’irresponsabile adagiamento della città sulla cosiddetta monocultura turistica e la scellerata scelta – o meglio: la “non scelta” – degli ultimi lustri di non governare processi epocali come la caduta del Muro, l’avvento delle low cost e l’apertura del mercato alle locazioni private grazie a internet che hanno fatto esplodere i numeri del turismo mondiale ovviamente impattando su Venezia. Si è lasciato fare al mercato. Un po’ per ignavia, un po’ per inadeguatezza e, molto, perché il fiume di denaro che si è riversato in città cadeva e cade nelle tasche di molti e mettersi di traverso era a dir poco impopolare..
Intendiamoci: anche se fossimo stati un’economia “sana” e diversificata saremmo in questo momento in ginocchio esattamente come sono le altre città e regioni d’Italia e del mondo perché questa pandemia avrà effetti disastrosi su tutti i settori produttivi.. Resta però il fatto che il turismo è quello che ha preso il colpo più forte. Perché ha pressoché azzerato il fatturato e, soprattutto, sarà molto difficile tornare a regime, se mai vi si tornerà.
E adesso? Qui comincia il difficile.. voltare pagina ma come? Abbondano le narrazioni romantiche e colte che esaltano l’elemento acqua come peculiarità, che sovrastimano le potenzialità dell’artigiano artistico, dell’industria culturale, che esaltano la diversità della città… insomma tutto l’armamentario ideologico ambientalista chic che condiziona da anni il dibattito in città. Sono tutte cose, beninteso, benedette ma “di nicchia”, non risolutive.
Lungi dal pretendere di avere la soluzione taumaturgica in mano (che non esiste) provo a evidenziare alcuni punti fondamentali che ritengo meritevoli di riflessione.
Il primo è che la difesa della residenzialità, ora ristretta a soli 52000 abitanti, è la madre di tutte le battaglie. Gli abitanti sono in calo da decenni (seguendo il trend tipico di tutti i centri storici) ma negli ultimi anni è irrotta la metastasi del fenomeno della locazione turistica degli appartamenti privati, che ha ucciso il mercato residenziale. Ma affittare la casa ai turisti non è “economia”. È prostituzione. Una città deve trovare i mezzi per il proprio sostentamento senza vendere, letteralmente, sé stessa. Esattamente come una fabbrica per vivere e prosperare deve produrre e vendere manufatti, non affittare i locali per farne il magazzino del capannone adiacente.
Ed ecco le potenziali ricadute positive del Coronavirus: il colpo di maglio sull’intera filiera della ricezione e la verosimile previsione che il turismo mondiale non sarà più lo stesso (se non tra molti anni) potranno riportare sul normale mercato immobiliare gli appartamenti, che ragionevolmente torneranno ad avere anche un valore più ragionevole – perché è evidente che se un appartamento non è più un’utilità ma diventa una fonte di reddito il suo valore esce dal campo sostenibile da parte di chi cerca appunto un’utilità per abitarci – e conseguentemente anche gli affitti. Insomma quello che non hanno potuto (o voluto) le Amministrazioni comunali degli ultimi anni forse lo potrà il virus.
Prevengo l’obiezione: ma come pretendi di attrarre abitanti se non offri loro prospettive di lavoro? Rispondo che il rapporto causa – effetto tra i due aspetti è interattivo, diciamo così. Sono legati in una specie di spirale, virtuosa o viziosa a seconda di quello che si riesce (o si vuole) mettere in atto. Perché il lavoro si crea anche attirando abitanti che creano lavoro. I negozi di vicinato, quelli non sostituibili dal supermercato, come la merceria, il negozio di vestiti che non sia la griffe inavvicinabile, il negozietto che vende piccole cose per la casa, il laboratorio che ripara elettrodomestici.. Si tratta insomma di invertire il senso della spirale. Oltre ai predetti servizi per la popolazione, se ne gioverebbe anche l’attrattività della città stessa. Una delle tante ricette che vengono proposte è l’insediamento in Centro Storico di Centri Studi Internazionali (in primis quello sui mutamenti climatici), una istituzione europea, fondazioni e università internazionali. Va benissimo. Ma una città si mette in gioco, in concorrenza con altre candidate, quando offre ai potenziali nuovi funzionari, esperti studiosi ecc. una prospettiva attrattiva. E viceversa, una città che non ha un’anima, che non ha attrattiva urbana, che non offre scuole internazionali, non ha neppure le carte da giocarsi per attrarre funzionari di alto livello, professori, una nomenclatura alta (che magari come censo potrebbe essere tale da permettersi di vivere nella costosa Venezia). È appunto un meccanismo interconnesso che può essere virtuoso o vizioso.
Infine la considerazione, banale ma troppo spesso apparentemente dimenticata, che per vivere nella Venezia d’acqua, non necessariamente il lavoro deve trovarsi nella stessa. Perché Venezia può e deve essere abitata anche da tecnici, ingegneri, medici e quant’altro che lavorano a Marghera, a Marcon, a Tessera.. insomma nell’area metropolitana. Per esempio a Mestre opera una assoluta eccellenza in campo aerospaziale. Sotto questa prospettiva il panorama delle potenzialità lavorative ovviamente appare un po’ meno monoculturale.. Ma ovviamente va difeso, va tutelato, possibilmente sviluppato e, naturalmente, ne va assicurata cum grano salis la compatibilità ambientale. Peccato che la lobby ambientalista chic, minoritaria ma molto ben inserita e coccolata dai media, abbia un atteggiamento di contrapposizione, direi di diffidenza ideologica, verso tutti gli asset economici di questo tipo. Peccato che il Porto non possa neppure procedere al mantenimento del pescaggio dei canali. Che tutti gli attori di potenziale sviluppo e indotto economico siano visti con sospetto e identificati come il male assoluto, l’espressione degli oscuri interessi privati, del capitalismo becero, dalle anime belle che invocano un improbabile nuovo Rinascimento costituito solo da artigiani e uomini di cultura.
Le stesse anime belle che poi lamentano (giustamente!) il degrado socio-economico di Venezia e i danni della monocultura turistica. Posto complicato, Venezia, da governare, molto complicato..
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