L’attuale struttura del sistema fiscale italiano risale quasi interamente alla riforma Visentini del 1971, quando si introdusse l’IRPEF, l’attuale IRES e l’IVA fu messa a regime secondo le indicazioni dell’Europa. Si arrivò al traguardo dopo quasi un decennio di studi, proposte e dibattiti in cui si impegnarono i più brillanti studiosi di finanza pubblica italiani e uno stuolo di politici con lo sguardo proiettato al futuro. Tutti arrivarono alla fine come esausti e così non aprirono un capitolo cruciale di riforma, il fisco degli enti decentrati, consegnandoci un sistema di finanza derivata privo di una qualche parvenza di federalismo fiscale. I guai del regime non tardarono a manifestarsi con disavanzi correnti e debiti degli enti, poi ricoperti dallo stato garantendo mutui a lungo termine. A ciò si tentò di rimediare nel 2009 con la legge delega n. 42 che metteva in pratica i canoni del federalismo fiscale della riforma costituzionale del Titolo V; ma il tentativo, per molti aspetti criticabile ma per altri apprezzabile, è stato quasi interamente spazzato via dalla crisi finanziaria 2008-2014.
Oggi si prospetta una nuova ampia riforma del sistema fiscale, con una legge delega varata dal Governo un anno fa e approdata di recente dal Parlamento con molte vicissitudini. Il lavoro preparatorio è stato anche stavolta notevole con 61 audizioni presso le Commissioni congiunte di Camera e Senato. Dalle varie proposte sembra emergere la stessa dimenticanza della riforma Visentini: l’assenza di un coerente sistema di tassazione delle regioni e dei comuni. Enti che, a seguito della pandemia Covid-19, si sono scoperti fiscalmente vulnerabili come mai, sussidiati e coperti dallo stato, via via più riluttante. Le regioni sono state investite dall’emergenza sanitaria in presenza di un sistema di finanziamento rigido e totalmente guidato dall’alto. I comuni turistici e delle città d’arte hanno visto svuotare quasi interamente, e forse per sempre, basi imponibili che ne avevano decretato nel tempo la solidità finanziaria. Il tutto accompagnato da una diffusa riluttanza a pagare le tasse, non solo da parte della popolazione colpita dalla crisi pandemica. Questa nota propone una serie di elementi che a mio avviso potrebbero utilmente accompagnare la riforma fiscale in sede di decretazione attuativa, con uno specifico riferimento alla finanza comunale.
Al riguardo è utile considerare, a titolo esemplificativo, la struttura pre-Covid delle entrate di un comune capoluogo di regione, città turistica ma con anche una componente industriale significativa, come Firenze, con una popolazione residente di poco superiore ai 300.000 abitanti. Al riguardo in Tabella 1 è riportata la composizione delle principali entrate fiscali e tariffarie. Emerge un significativo ruolo, ma non strutturale, di alcune entrate come quelle legate all’attività turistica, i dividendi delle partecipate, le multe e in un certo senso anche il recupero dell’evasione. Nei bilanci consuntivi più recenti si è manifestato, causa Covid, un disavanzo cospicuo coperto da trasferimenti compensativi, sotto forma di “ristori” dello stato. Una pratica piè di lista alla quale i sindaci si affezionano prontamente.
Tutte le entrate comunali sono state falcidiate dagli effetti della pandemia e dall’interruzione dell’attività economica nel 2020, ma veri tracolli hanno subito l’imposta di soggiorno e i proventi dei servizi, tra cui rientrano anche i ticket d’ingresso degli autobus turistici, e le multe. L’imposta di soggiorno, o una sua razionalizzazione, sarà sempre un tributo di scopo importante, ma potrebbe non essere così basilare, in quanto a gettito. I tributi più stabili sono l’ADDIRPEF e i tributi collegati alla proprietà immobiliare locale e da soli rappresentano l’effettivo sistema tributario comunale.
Tab.1. Principali entrate tributarie e tariffarie pre-Covid, Comune di Firenze
Tributo | Mil € | % totale entrate |
ADDIRPEF | 9 | 1,2 |
IMU | 159 | 22 |
TASI | – | – |
Dividendi aziende partecipate | 16 | 2 |
TARI | 100 | 14 |
Imposta soggiorno | 42 | 6 |
Permessi a costruire e altre licenze | 10 | 1,5 |
Proventi
· vendita di servizi (asili, impianti sportivi, contrassegni ZTL, ingresso musei) · gestione di beni, canoni, multe
|
131
66
65 |
18 |
Recupero evasione
da IMU, ADDIRPEF, TARI |
18 | 2,5 |
Fonte: Consuntivo 2018
La delega fiscale sostituirà l’ADDIRPEF con una sovrimposta sul gettito IRPEF localmente riscosso, a parità di entrata aggregata, con un’aliquota media nazionale di circa il 3%. Il comune di Firenze, che attualmente applica un’aliquota dell’addizionale molto bassa, potrebbe, al momento del passaggio, confermare l’attuale gettito applicando un’aliquota di sovrimposta pari allo 0,71%, che rimarrebbe sempre una delle più basse d’Italia. Potrebbe però, se sarà consentito dal decreto legislativo di applicazione, modificare la sua strategia cercando di aumentare un po’ questa fonte di entrata, scegliendo di applicare aliquote gradualmente più elevate, anche per compensare la prevedibile perdita di gettito di altri tributi e l’aumento delle spese per il welfare. Attualmente cittadini abbienti che, non avendo nel comune case di proprietà se non quella in cui risiedono, non pagano IMU, e che pagano aliquote ridottissime di ADDIRPEF, di fatto non contribuiscono alla spesa per i servizi indivisibili comunali, il cui peso è costantemente in crescita per motivi demografici, per necessità di manutenzione della città e per la cura delle periferie e delle aree di pregio. Forse in futuro non sarà più possibile mantenere uno schema fiscale con questi vuoti. D’altra parte, lo stato dovrà riprendere in mano alcuni progetti riformatori, lasciati in sospeso negli anni passati, per dare maggiore autonomia, consistenza e ragionevole certezza al fisco comunale. Si tratterrebbe in particolare di agire sul sistema dei tributi immobiliari.
Non si è trovato nel nostro sistema fiscale un equilibrio tra la natura di prelievo patrimoniale, giustificato dal principio della capacità contributiva e di prelievo che colleghi l’onere dell’imposta ad una valutazione di quanto i contribuenti ricevono di beni e servizi pubblici (non solo divisibili ma anche sia indivisibili) offerti dai comuni e ne costituisca il corrispettivo, giustificato dal principio del beneficio (espressamente richiamato dalla LD n. 42/2009, art. 11). In ogni caso il tributo possiede sempre le caratteristiche di un’imposta sul capitale, influenzando prezzi e allocazione degli investimenti.
La convivenza di queste due finalità diverse in un solo prelievo è molto difficile. I soggetti passivi cambiano: (i) il proprietario nel caso di prelievo patrimoniale; (ii) l’utilizzatore, nel caso del corrispettivo ai servizi, che può anche non essere proprietario. Cambiano basi imponibili, aliquote, sistemi agevolativi, modalità di dichiarazione, accertamento e versamento. La tipologia stessa di tributo muta: l’imposta, nel caso dell’IMU, la tassa, nel caso di una Service-tax, che voleva essere la TASI, per la copertura dei costi della fornitura di servizi pubblici indivisibili e, in prospettiva, la tariffa nel caso della Tari, come copertura dei costi delle componente divisibili del servizio rifiuti, collegata al principio di “chi inquina paga”. In spregio a questa tradizionale caratterizzazione, dal 2013 al 2020 questi tre tributi hanno costituito, nell’ordinamento italiano, una fantomatica “Imposta unica comunale” (IUC): la classica somma delle mele con carciofi e patate. La legge di bilancio 27.12. 2019, ha però abolito IUC (tranne che per quanto attiene la disciplina della TARI) e, abolendo la TASI (in quanto erroneamente considerata un doppione dell’IMU), ha istituito la NUOVA IMU.
Nell’ambito della teoria del federalismo fiscale vige un principio della separazione in base al quale è opportuno che almeno un tributo comunale abbia una base imponibile ampia ed esclusiva: il c.d. tributo municipale, dotato di una certa consistenza di gettito e un’adeguata manovrabilità. Nei paesi in cui è applicata, l’imposta ricorrente sul patrimonio immobiliare locale tende ad assumere questo carattere, cioè di imposta municipale propria. La NUOVAIMU assume questo nome, sebbene vi siano elementi che contraddicono il principio della separazione[1]. Quanto alla manovrabilità, l’autonomia della NUOVA IMU è piuttosto accentuata, ma solo in senso agevolativo, verso il basso: al limite un comune può azzerare tutte le tipologie di tributo. E’ invece molto contenuta verso l’alto. Stante l’impiego da parte di un gran numero di comuni dell’aliquota massima, 1,06%, la possibilità di ottenere, specialmente quelli con un territorio economico più debole e afflitti da evasione fiscale endemica, ulteriori risorse è di fatto assente. Si spiega così il dissesto di numerosi comuni.
Tra le possibili variazioni dell’attuale disciplina, particolarmente due ci paiono percorribili e meritevoli di attenzione. In primo luogo, occorrerebbe ripensare il trattamento della Cat. D (4,7 mld per immobili ad uso produttivo, i capannoni industriali) riportando il gettito ai comuni, con ampia possibilità di differenziazione dell’aliquota base. Le motivazioni per l’attribuzione allo Stato della Cat. D sono infatti venute meno[2]. In secondo luogo, sarebbe opportuno recuperare un tassa come la Tasi, ma totalmente disallineata rispetto alla NUOVA IMU sia per la base imponibile, per le aliquote e per le esenzioni, ribadendo la sua natura di Service tax. Questa tassa potrebbe svolgere il ruolo di tributo locale per eccellenza, discrezionale, manovrabile e in linea con il principio del beneficio. La sua assenza, dopo l’abolizione della TASI, costituisce una perdita di flessibilità del sistema, tanto più che la semplificazione per i contribuenti non deriva solo dalla riduzione tout court del numero di tributi, quanto dalla riduzione dei compliance costs relativi alla definizione del debito di imposta e alle pratiche per la sua liquidazione. La Service tax dovrebbe sempre ricollegarsi al patrimonio immobiliare, come proxy del valore dei servizi usufruiti, ma dovrebbe ricadere anche sulle abitazioni principali e in una certa misura sugli utilizzatori degli immobili come gli affittuari. Questi soggetti passivi usufruiscono infatti dei servizi indivisibili per cui tutti sono tenuti a contribuire al corrispettivo dei costi di fornitura.
Le motivazioni principali della scelta di abolire la tassazione (per IMU e TASI) sulle abitazioni principali (cioè tutela di un bene primario il cui costo incide sui bilanci familiari e redistribuzione della ricchezza), se coerenti con la forma di tassazione su base patrimoniale (imposta), sembrano deboli nel caso di una service-tax (tassa). Il principio del beneficio identifica la tassazione come “prezzo” dei servizi e lascia ad altre forme di prelievo il perseguimento di finalità di politica economico e sociale. L’imposta-prezzo deve essere quindi generale in quanto tutti usufruiscono dei servizi comunali indivisibili per cui è poco sensata l’applicazione solo per alcune categorie di immobili e fabbricati. Ma ci rendiamo conto che solo l’idea, per quanto logica ed economicamente razionale, di reintrodurre un nuovo tributo locale di questi periodi pare più che improbabile, velleitaria.
Non possiamo concludere queste note senza un qualche riferimento al problema della riforma del catasto, avviata con la legge 23/2014 ma mai attuata, il cui obiettivo fondamentale era ed è quello di ridurre l’attuale incongruità tra le rendite catastali, fissata al momento del primo atto di vendita dell’immobile e aggiornate solo tramite l’applicazione di coefficienti non differenziati, e i valori di mercato. Dato che il gap tra questi due valori non è uniforme, il sistema impositivo genera iniquità in favore di alcune aree dove i prezzi sono più alti e i valori catastali più obsoleti. Da questo punto di vista, la nuova modalità di calcolo che basa la dimensione catastale delle abitazioni sui mq di superficie è più equa. La rendita catastale di una proprietà sarebbe determinata a partire dall’affitto, effettivo o figurativo, per quella categoria e aggiornata periodicamente. La legge 23/2014 prevedeva esplicitamente che la rivalutazione dovesse avvenire ad invarianza di gettito a livello nazionale e locale. Ma questo non può eludere una diversa distribuzione del carico fiscale sui singoli proprietari. Sarebbe quindi opportuna una gradualità a partire da un sistema provvisorio misto.
Sono state queste complicazioni, notevoli, inevitabili ma superabili, che hanno impaurito i politici e scoraggiato all’applicazione della riforma. In sede di discussione della legge delega si è scatenata una vera e proprio “gazzarra” sul tema catasto, scrivendo una delle pagine più buie della storia parlamentare del paese. I resoconti della stampa quotidiana hanno contribuito alla confusione. Dell’idea originale è rimasto, con lo sbigottimento della Commissione europea che richiede la riforma da quasi dieci anni, solo un timido e vago riferimento ad un processo di mappature dei valori per verificare le differenziazioni sul territorio. Anche questa volta è probabile che non se ne farà di nulla.
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[1]In particolare impone la deducibilità dell’IMU sui beni strumentali, ai fini delle imposte erariali sul reddito. Inoltre, il gettito ad aliquota base della categoria catastale D (immobili ad uso produttivo, i capannoni industriali) accertato e riscosso dai comuni viene trasmesso all’erario, come una compartecipazione a ritroso, quindi disattendo il criterio dell’esclusività. Vi sono poi le esenzione stabilite dalla legislazione nazionale per specifiche categorie immobiliari, tra cui quella relativa alle abitazioni principali. Quindi lo stato mette mano pesantemente sulla base imponibile, patrimonio locale comunale, soggetta a tassazione locale, contraendo l’entrata degli enti locali.
[2] Erano due: il rischio di competizione fiscale, gravando sulle imprese e la distribuzione differenziata sul territorio. La prima motivazione non sembra decisiva, perché i capannoni sono fissi sul territorio e poi decade nel momento in cui si concede la possibilità porre un’addizionale comunale dello 0,3% all’aliquota riservata allo Stato. Per quanto riguarda la seconda motivazione, è certamente vero che più della metà dei fabbricati Cat.D sono nei comuni di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ma potrebbe intervenire il meccanismo perequativo sulla capacità fiscale per quanto ad aliquota perequativa non integrale, che potrebbe essere innalzata.
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