Il 2022 si è chiuso con più di un interrogativo sulle prospettive dell’economia globale per il prossimo futuro. Del resto, quest’anno è stato segnato da eventi come la guerra e la crisi energetica, che hanno aggravato le condizioni di incertezza seguite alla pandemia e non sembrano affatto in via di soluzione. Secondo Jeffrey Frankel, tuttavia, le previsioni di una recessione nel 2023 sono quantomeno premature: “I principali economisti mondiali hanno passato la maggior parte del 2022 a convincersi che, se l’economia globale non era già in recessione, stava per entrarci. Ma con la fine dell’anno, la crisi globale è stata rinviata al 2023”. Lo studioso di Harvard, criticando radicalmente la regola in base alla quale bastano due trimestri consecutivi di variazione negativa del Pil per definire tecnicamente una recessione, pronostica un anno difficile per l’economia, ma non una situazione irreparabile. Tuttavia, al di là di previsioni ardue da effettuare, torna in campo un fenomeno che rischia di essere valutato con approssimazione. L’inflazione non è solo un termine che riassume l’andamento dello scorso anno, come ha titolato in questi giorni il Financial Times, ma rappresenta il ritorno, dopo un’assenza quarantennale, di un nemico del progresso economico e dell’equità sociale, che può incidere anche sul nuovo anno. Alla “grande moderazione” innescata negli anni Ottanta, un periodo di lungo contenimento dei prezzi, e alla fase successiva di politiche espansive, caratterizzate dal quantitative easing, è subentrata una politica monetaria restrittiva, che, nell’intento di frenare l’inflazione, può produrre l’effetto, per eccesso di rigidità e mancanza di alternative, di comprimere redditi familiari e investimenti aziendali. Nonostante questo tentato rimedio, appare “probabile che i prezzi elevati nel 2022 saranno il catalizzatore delle recessioni nel 2023, anche quando i tassi di inflazione principali inizieranno a diminuire”. Ed è proprio quanto sta accadendo. Consistenti pressioni sui prezzi, per l’accelerazione dell’inflazione core(che esclude le variazioni dei prezzi di cibo ed energia), si stanno ancora verificando in molti Paesi avanzati, malgrado le recenti riduzioni della generale tendenza inflazionistica. Inoltre, l’impennata dei prezzi in altri Paesi – come, ad esempio, quelli Baltici, avvezzi a questo fenomeno – può essere un sintomo di come la ripresa dell’inflazione sarebbe in grado di diffondersi in tutta Europa nel corso del nuovo anno, anche se il tasso di inflazione primaria dovesse raggiungere il picco. Questi pericoli erano stati già paventati ai primi di novembre da Kaushik Basu: notando come la comprensione dell’inflazione sia tuttora a livelli rudimentali, egli ha affermato che il suo impatto strutturale può manifestarsi molto tempo dopo la stabilizzazione dei prezzi al consumo. Al tempo stesso, l’ex capo economista della World Bank ha evidenziato che le spinte inflazionistiche odierne non sono paragonabili alle vicende dell’iperinflazione del secolo passato. Eppure, l’incremento dei prezzi continua ad avere una notevole influenza sugli orientamenti politici, dato che, a differenza di altri fattori economici, le sue conseguenze si avvertono immediatamente nella vita quotidiana delle persone. Alcuni economisti, come Charles Goodhart e Manoj Pradhan, hanno sostenuto che la “grande inversione demografica” significherà un’inflazione più elevata e maggiori tassi di interesse a lungo termine. Mentre altri, come Olivier Blanchard, insistono sulla prevalenza di bassi tassi di interesse reali sugli assets sicuri, una volta superato l’attuale shockinflazionistico. Anche il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, pur conducendo le sue analisi da una postazione interessata, diversamente da quella europea, da un’inflazione da domanda più che da offerta, mette in dubbio, senza rinnegare le sue idee, che la tempesta dei prezzi si sia definitivamente attenuata. In ogni caso, ha poco senso richiamare una disputa sulla probabilità di aumento o diminuzione del tasso di inflazione, come quella che ha visto protagonisti l’estate scorsa, su posizioni opposte, Jason Furman dell’Università di Harvard e James K. Galbraith dell’Università del Texas. Piuttosto che attestarsi sulle ipotesi, meglio guardare ai fatti e provare a prevenire le minacce. L’inflazione permane ancora a due cifre nell’eurozona e nel Regno Unito, mentre negli Stati Uniti è oltre il 7%. Quindi, la questione non va sottovalutata. Ma neppure enfatizzata a dismisura, correndo il rischio di una profezia che si autoavvera. Certo è che la preoccupazione per l’inflazione non può essere lasciata solo alle cure dei monetaristi, ma deve stare a cuore anche di chi punta decisamente sulle strategie di sviluppo, pena la loro vanificazione. Questo tema va affrontato con politiche idonee, molteplici mezzi operativi e un coordinamento a livello sovranazionale. In Europa, pur scontando una disparità di condizioni tra le varie economie, la lotta all’inflazione può costituire un aspetto fondamentale dei piani di ripresa, facendo interagire la leva fiscale con quella monetaria e non rimettendo alle sole scelte della BCE, che vanno meglio ponderate, il compito di risolvere il problema. L’auspicio per il 2023 è che si possa sperimentare una nuova sintesi di politica economica, capace di combinare in modo flessibile teorie che mettevano in contrasto tra loro strumenti ora destinati a convivere per favorire l’uscita dalla crisi.
(questo articolo, già pubblicato dal quotidiano Il Mattino, è ripreso con il consenso dell’autore)
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