Il Decreto Legge n.39 del 14 aprile 2023 si propone il contrasto alla siccità attraverso il potenziamento e l’adeguamento delle reti idriche, degli invasi, delle vasche di raccolta di acque meteoriche per uso agricolo, e di altre infrastrutture del settore. Per gli interventi viene istituita una Cabina di regia, che può attivare procedure per superare ritardi, criticità, e nominare singoli commissari ad acta. Inoltre viene nominato un Commissario straordinario nazionale per la scarsità idrica (nominato il 4 maggio, il cui mandato durerà fino al 31 dicembre 2023) che ha tra i suoi compiti “la verifica e il coordinamento dell’adozione, da parte delle regioni, delle misure previste per razionalizzare i consumi ed eliminare gli sprechi….”. Il Commissario potrà esercitare poteri sostitutivi nei confronti delle amministrazioni locali.
Vedremo, a proposito di questo coordinamento, come risponderanno le Regioni, vista la disparità di efficienza e di attenzione ai servizi pubblici.
Dai dati di ARERA, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, si rilevano valori di perdite più contenute al Nord, valori medi più elevati al Centro e nel Sud e Isole, dove poco meno della metà dell’acqua immessa nell’acquedotto viene dispersa . Inoltre, scorrendo le tabelle ARERA, ci sono zone, regionali o sub-regionali, nel Nord-Ovest e in Campania, Calabria e Sicilia, che non inviano dati all’Autorità , per un totale del 17% dei dati complessivi. (Cfr. https://www.arera.it/it/dati/QTSII.htm)
Nell’evidenziare che nel PNRR ci sono 3,5 miliardi per il settore idrico, UTILITALIA, la Federazione Utilitis, rimarca che “gli italiani sono tra i meno virtuosi in Europa, con un consumo pro capite di acqua potabile che nelle città è di 236 litri, contro la media di 125 nell’ Ue. Colpa degli sprechi umani sì, ma soprattutto di una rete idrica inadeguata che avrebbe bisogno di interventi consistenti”. (Comunicato del 19/04/2022).
Ferruccio de Bortoli, nel suo articolo sul provvedimento governativo “Il valore dell’acqua: pericolose (e costose) trappole” (Il Corriere 18/04/2023) parla di “compito titanico”. “Il Servizio idrico integrato su cui esercita la propria sorveglianza l’autorità di settore riguarda solo il 20 per cento del totale dei prelievi”. “La perdita dei nostri acquedotti, seppur lievemente migliorata, è del 42 per cento, mentre il dissesto idrogeologico…peggiora. Gli invasi sono pochissimi, la loro realizzazione non piace alle comunità”. E “Nel dibattito pubblico c’è un colpevole fatalismo, che rasenta l’irresponsabilità collettiva”. . A proposito degli investimenti, De Bortoli scrive: “ là dove la gestione è in economia, cioè affidata ai Comuni, l’investimento medio nel 2021 è stato di 8 euro ad abitante. Dove operano gruppi industriali, a capitale pubblico o privato, è risultato, invece, di 56 euro ad abitante. La media europea è di 82 euro”.
Nell’articolo “Transizione incivile: i record dell’acqua sprecata” nel Corriere della Sera del 28.11.2021, De Bortoli scrive che la legge Galli del 1994, che ridisegnava il governo dell’acqua, “è ancora in parte inapplicata, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno”.
Ma perché siamo arrivati a tanto? Eppure, l’impegno dei nostri legislatori sul problema acqua è iniziato tanti anni fa, ed è stato notevole. Vediamo in sintesi la successione dei provvedimenti più rilevanti.
La legge n.36 del 5 gennaio 1994, la legge Galli, sanciva il carattere pubblico di tutte le acque superficiali e sotterranee e prescriveva che “Qualsiasi uso delle acque e’ effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale”. E prevedeva la riorganizzazione dei servizi idrici sulla base di ambiti territoriali ottimali , gli ATO.
Il D.L. 22 novembre 2001, all’art. 1 stabiliva le modalità di affidamento in concessione a terzi della gestione del servizio idrico integrato, a norma della legge Galli.
La legge finanziaria n. 448 del 2002, (una prima riforma dei servizi pubblici locali) all’art.35 introduceva il principio generale secondo il quale l’erogazione dei servizi di “rilevanza industriale” – poi cambiata in “rilevanza economica” – doveva avvenire in regime di concorrenza e attraverso l’affidamento del servizio.
Il D.L. 269/2003, il cosiddetto “decreto per la competitività” (la seconda riforma dei servizi pubblici locali), sostituiva la nozione di servizi di rilevanza industriale con quella di servizi di rilevanza economica, e stabiliva la possibilità di affidare l’erogazione dei servizi di rilevanza economica non esclusivamente a società scelte mediante gara, ma anche a società a capitale misto pubblico-privato, oppure a società interamente pubbliche, mediante procedura in house. Si trattava di affidamento diretto del servizio da parte dell’ente locale ad una persona giuridica distinta, nei confronti della quale però l’ente locale esercitasse un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; e a condizione che questo soggetto realizzasse la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali controllori.
Infine la legge n. 133 dell’agosto 2008, per la quale, all’art. 23-bis, la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica doveva essere conferita ad aziende mediante “procedure competitive ad evidenza pubblica”.In particolare, al comma 5, “Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati”.
E si arrivò al referendum del 2011, in seguito al quale il suddetto articolo 23-bis. “Servizi pubblici locali di rilevanza economica” fu abrogato dal d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113; fu sostituito dall’art.4 del decreto-legge n. 138 del 2011 “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” (convertito nell’art. 4 della legge n. 148 del 2011). Successivamente, l’intero art. 4 del decreto legge n. 138/2011 fu dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 20 luglio 2012, bocciando quindi, su istanza di cinque regioni , l’allora vigente normativa sui servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Tralasciamo di addentrarci ulteriormente negli sviluppi legislativi e nelle argomentazioni giuridiche. Ne emerge un iter legislativo accidentato, non scevro di incertezze.
Focalizziamo l’attenzione sul referendum del giugno 2011: il quesito proponeva l’abrogazione parziale della norma che stabiliva la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, nella parte in cui prevedeva che tale importo includesse anche la remunerazione del capitale investito dal gestore.
L’affluenza alle urne fu del 57%, ed il Sì all’abrogazione conseguì una vittoria schiacciante.
E’ fondata l’opinione che si giocò sull’equivoco, in quanto il referendum doveva essere a favore o contro la remunerazione del capitale privato, ma da più parti si dette ad intendere che anche l’acqua sarebbe diventata un bene privato. E non fu appropriatamente valutato dai cittadini il fatto che, senza la manutenzione delle reti, il capitale privato sarebbe stato massicciamente alimentato con l’acquisto dell’acqua minerale.
Inoltre, non fu ben valutata da tanti cittadini la scarsa probabilità che le amministrazioni pubbliche si prodigassero contro la dispersione idrica, stante la difficoltà di reperire risorse e considerato che fino allora non si erano attivate. Il referendum era abrogativo, non forniva la garanzia che sarebbero stati attivati interventi manutentivi: non aveva valenza proattiva.
Il referendum, scrive Antonio Massarutto nel suo articolo “Ritorno al passato in nome dell’acqua pubblica” ( La Voce del 19/03/2019), abolì l’ “adeguata remunerazione del capitale”, ma non “il principio secondo cui devono essere le tariffe a coprire i costi del servizio, compresi quelli ambientali…..e compresi i costi di capitale, che va inteso nel significato micro-economico di costo-opportunità, come chiarito dal Consiglio di Stato”. Ed ancora “…In tutto il mondo, dove i servizi idrici funzionano, sono i cittadini a pagarli (anche se li gestisce il pubblico). E dovunque nel mondo, l’erogazione attraverso la finanza pubblica genera clientelismo, servizi scadenti, reti sgangherate, investimenti inadeguati”.
Nell’articolo Acqua, bene comunitario, ( La Voce del 28.10.2021) Donato Berardi, Antonio Massarutto e Samir Traini scrivono che allo stato attuale “L’ordinamento europeo prevede che l’affidamento in-house sia pienamente legittimo, al pari delle sue altre forme. Via l’obbligo (o presunto tale) di privatizzare, via le norme che relegavano la gestione pubblica in una sorta di serie B; ma non per questo vale l’obbligo, opposto, di “ripubblicizzare” tutte le gestioni, e meno che mai quello di ri-trasformare le gestioni pubbliche societarizzate – le società in-house, appunto – in enti di diritto pubblico. Sia la gestione in-house sia il ricorso a forme di collaborazione con il privato (nella forma della concessione o della public-private partnership) – sono ugualmente legittime: la scelta è unicamente politica”. E quanto alla “remunerazione del capitale”, affermano i tre autori dell’articolo, la norma che fu abrogata era in realtà un inciso, che era stato male interpretato come se intendesse assicurare un profitto garantito. Così non era, ma comunque sia, nella norma sopravvissuta (e nei principi europei) si afferma in modo chiarissimo che la tariffa deve coprire tutti i costi, compreso quello del capitale investito, proprio per evitare, o ridurre al minimo, il ricorso alla fiscalità generale… Che il concetto di “costo” includa anche i costi finanziari è, a sua volta, pacifico, non potendosi aspettare che l’acqua sia finanziata solo da enti filantropici”.
In un altro articolo, “Acqua, il bicchiere è più pieno che vuoto” ( in La Voce del 20.10.21), Berardi, Massarutto e Traini delineano un quadro ottimista riguardo agli investimenti, scrivendo che “gli investimenti di oggi sono il doppio o il triplo di quelli di dieci o venti anni fa”, e tuttavia “..il principale responsabile delle perdite e dei disagi è proprio il ritardo nell’adozione di un modello di gestione industriale, da cui consegue la mancata realizzazione delle reti fognarie e dei depuratori, l’assenza di manutenzione e il degrado di quelle esistenti….. Perché quei territori dove competenze e attenzione sono mancate sono anche quelli dove persistono le gestioni dirette degli enti locali, o quelle dove la transizione, pur avvenuta sulla carta, risulta frenata da una gestione politica e demagogica della tariffa, con sindaci che hanno perfino inneggiato al mancato pagamento delle bollette, salvo dare “al privato” la colpa dei disservizi”.
Come evidenziato negli articoli citati, dovrebbe essere un punto assodato che il bene acqua, l’”oro blu”, non è offerto gratis: si finanzia con l’addebito al contribuente (attraverso le tariffe pagate al gestore e le tasse pagate al Comune), e/o attraverso lo Stato, con la fiscalità o attraverso il Pnrr da restituire; oppure attraverso l’esposizione bancaria; o attraverso il capitale privato (che si aspetta un ritorno); oppure addebitando gli oneri alle generazioni future. (Si rimanda al libro-inchiesta di Antonio Massarutto, UniUd, L’Acqua, Il Mulino.)
In conclusione, degli investimenti non si può fare a meno. Gli investimenti favoriscono il cittadino come destinatario presente e futuro, assicurandogli con l’eliminazione delle perdite l’usufrutto del bene acqua il più possibile potenziato e diffuso, un ritorno in termini materiali.
A causa dell’impegno finanziario gli investimenti hanno, almeno nell’immediato, un probabile ritorno negativo per i partiti, in termini elettorali. Ma senza investimenti non si procede; solo gli slogan sono gratis.
Lascia un commento