- La sinistra e i limiti della politica
L’intervento di Sergio Benvenuto sulle cause della crisi della sinistra a livello globale merita un’attenta riflessione e un’interlocuzione impegnata, ma libera da contingenze politiche e lontana dal frastuono dell’attuale dibattito pubblico, che è frammentato, divisivo e apparentemente incapace di costruire nuove prospettive unitarie.
Proprio queste caratteristiche della politica odierna rappresentano a mio parere alcune delle ragioni per le quali la sinistra sembra non riuscire più ad affermarsi nel voto democratico. Ovvero, la tendenza all’individualizzazione e alla segmentazione sociale, la conseguente diffidenza verso l’idea di appartenere a identità collettive, e di seguito ancora il rifiuto della rappresentanza, sono tutte attitudini che rendono difficile se non impossibile aderire a una proposta di sinistra, che storicamente si fonda su una visione del mondo nella quale l’individuo è parte del tutto e la massa delega temporaneamente a un’élite scelta la costruzione di un destino condiviso.
C’è poi un altro aspetto della politica attuale, sempre attinente a un’analisi di tipo antropologico, che rafforza questa tendenza; esso riguarda lo statuto della politica stessa, che non soltanto ha perduto il primato rispetto ad altre sfere del mondo (l’economia e la scienza, o meglio la tecnologia, come già ebbe a dire Max Weber[1] un secolo fa), ma è diventata subalterna ad altre dimensioni organizzate della società. Il consenso ad un gruppo politico sembra derivare non tanto dalle sue proposte politiche e programmatiche, ma piuttosto dalla sua abilità a catturare l’appoggio di altre agenzie di consenso; pensiamo per esempio allo sport, alle associazioni di categoria o di volontariato, ad aggregazioni di tipo locale o nazionale, che diventano collettori di voti in difesa dei propri interessi. Infatti, una società frammentata diventa sempre di più corporativa, e riuscirà a conquistare l’appoggio del maggior numero di gruppi organizzati quel partito o movimento politico in grado di sommare tutti questi interessi, senza generare troppe contraddizioni. Così, i valori per i quali più ci si mobilita non saranno quelli di una società migliore, ma quelli che più rappresentano questi interessi.
Se guardiamo il problema sotto l’aspetto del mutamento antropologico che si è compiuto nelle nostre società post-industriali, potremmo essere indotti alla rassegnazione e abbandonarci alla nostalgia verso un’età dell’oro che in realtà non è mai esistita. Ma questo significherebbe fare un cattivo servizio alla storia della sinistra, che nasce proprio nel cuore di un altro grande momento di trasformazione, quello della modernità, con le battaglie per l’emancipazione e la liberazione delle classi lavoratrici. Perché non dovrebbe essere possibile ridelineare un progetto di sinistra ora, in una fase storica nella quale si stanno affermando nuove forme di dominio e di esclusione sociale?
- La sinistra e l’abbaglio della crescita
Il lavoro è immenso e ha bisogno di una grande sforzo di analisi, di studio e di elaborazione: proprio quello che la sinistra non-radicale (uso l’espressione di Benvenuto) non ha fatto negli ultimi anni. L’ultimo tentativo di definire la sinistra del Nuovo Millennio è stato quello di Tony Blair, con la Terza Via che si avvaleva delle riflessioni teoriche di Anthony Giddens[2] (from welfare to workfare), ma che non ha tenuto il passo della globalizzazione economica e finanziaria, assai più veloce del passo della politica.
Forse qui c’è un primo punto di dissenso rispetto all’analisi di Benvenuto. Nella prima parte della sua disamina, egli critica chi contesta alla sinistra non-radicale la decisione di aver sposato di fatto le ricette neo-liberali e di aver favorito così la crescita delle diseguaglianze. Benvenuto ritiene tale accusa una “ingenua semplificazione” e assolve – su questo punto – la sinistra perché secondo lui l’aumento esponenziale delle diseguaglianze economiche e sociali non deriverebbero dalle politiche neo-liberiste, ma piuttosto dalla grande crescita economica dei decenni post Guerra fredda; e per questo, tali diseguaglianze non sarebbero di per sé un male se derivano da uno sviluppo che ha migliorato la condizione di tutti, seppur a livelli diversi.
Ora, in generale, ho qualche dubbio sul fatto che si possa sostenere che la vita sia migliorata a tutti: lo smentisce il flusso sempre crescente di migranti che si spostano da sud a nord nel mondo in larga parte per cause economiche, e sempre di più a causa del cambiamento climatico, ma lo smentisce anche l’aumento della povertà assoluta nei paesi cosiddetti avanzati. Ma ancora di più del fenomeno dell’exit socio-economico, non si può non rilevare come le politiche che hanno accompagnato i decenni della globalizzazione, e che sono state intraprese per lo più nell’epoca nella quale i progressisti governavano in tutto l’Occidente, hanno aumentato la precarietà e hanno isolato le persone le une dalle altre (la solitudine del cittadino globale, l’ha definita Zygmunt Bauman[3]), rendendole più libere solo formalmente ma più impotenti rispetto alla realizzabilità dei loro desideri.
E’ un fatto che la sinistra non-radicale, in tutto il mondo, abbia promosso la globalizzazione, affidando la regolazione economica al mercato, nella fiducia che la crescita avrebbe significato progresso materiale e spirituale per tutti; è un fatto che questo non è accaduto in forme sistematiche e permanenti e che le crisi cicliche e strutturali dei mercati hanno accentuato le divaricazioni sociali. Più che un problema di disuguaglianza, è emerso un problema di giustizia globale; non un fattore, quindi, che può essere valutato in termini assoluti o relativi, come fa Benvenuto in relazione al concetto di eguaglianza/diseguaglianza, bensì un fattore che si misura in rapporto ai diritti universali sanciti dalle Nazioni Unite.
- Il vero riformismo
Fu proprio l’ansia di giustizia a muovere le giovani generazioni verso i Forum sociali del cambio di millennio. Quell’esperienza – raccontata strumentalmente soltanto sotto l’aspetto dell’ordine pubblico e della repressione dei gruppi più violenti – non fu compresa dalla sinistra non-radicale, e fu schiacciata invece – erroneamente – sulla sinistra radicale, che se ne impossessò simbolicamente. Continuo a pensare ancora oggi, a distanza di oltre vent’anni, che quel passaggio abbia segnato una rottura forse irreparabile tra una sinistra non-radicale (ma potremmo dire pragmatica, realista e di governo) e una sinistra che non rinuncia ad un orizzonte utopico per cambiare la realtà. Lo slogan dei movimenti “un altro mondo è possibile” è diventato l’etichetta per le anime belle che rinunciano al governo delle cose declamando principi astratti irrealizzabili, mentre il termine “riformismo”, che inizia ad essere usato in questa accezione più o meno in quel periodo, è diventato ciò che indica la pratica di governo che tiene conto dei dati di realtà.
Ha ragione Benvenuto quando dice che “riformismo” è diventato una scatola vuota, un logo che si autoattribuiscono sia destra che sinistra per indicare la capacità di governare, senza specificare come. In questo senso, il termine non può quindi costituire un tratto caratterizzante per la sinistra, ma piuttosto appare come il modus – neutro contenutisticamente – del politico che fa, la forma del fare purché sia.
Io contesto questa accezione che, neutralizzando ogni aspetto sostantivo, di fatto finisce per appiattire la politica al presente, alla mera gestione dell’esistente, alla sfida autoreferenziale verso i vincoli della politica stessa, siano essi burocratici, giuridici o amministrativi. Per riacquisire senso, in particolare per la sinistra, il termine riformismo dovrebbe essere recuperato al suo significato originario, quello che opponeva riformismo a massimalismo, riforme a rivoluzione, cioè l’adozione di un cammino progressivo e non violento, democratico, del cambiamento della società. L’idea della trasformazione della realtà, e non della sua accettazione, è dunque il cuore del riformismo storico.
Ma trasformazione verso dove?
- Il nodo del capitalismo, oggi
Diciamo la verità. Parlando di accettazione o gestione versus cambiamento della realtà, di governo pragmatico opposto a pratica radicale e di realismo politico piuttosto che di cambiamento sociale, si oscura il nodo vero della questione, tanto scabroso da aver difficoltà anche a nominarlo: qual è la posizione della sinistra verso il modello capitalistico della società? Lo considera l’unico mondo possibile e immagina di limitarsi a temperare i suoi effetti negativi, introducendo meccanismi di redistribuzione della ricchezza e riduzione delle diseguaglianze?
Questo è stato il senso del compromesso socialdemocratico che tra Otto e Novecento ha dato vita ai diversi sistemi di welfare state. L’economia capitalistica su base essenzialmente nazionale veniva a patti con lo Stato: da una parte venivano tutelati l’ordine pubblico e la proprietà privata e promosso il libero sviluppo del mercato, dall’altra parte attraverso il sistema fiscale parte della ricchezza prodotta era destinata a fornire servizi e a garantire il consumo interno.
Oppure la sinistra ritiene il capitalismo un modello strutturalmente ingiusto, adesso difficilmente calmierabile anche con lo stato sociale, e per questo da superare con alternative possibili?
A questa opzione aderisce gran parte del pensiero ecologista che vede nel capitalismo il responsabile principale della distruzione delle risorse del pianeta. In tal senso la transizione verde può assumere una specifica connotazione di sinistra, a differenza di quanto sostiene Benvenuto quando scrive che tutti sono ormai diventati ambientalisti (il che può essere vero in parte, vista la collocazione di molti partiti Verdi in Europa o le scelte compiute anche da alcuni governi di destra a livello locale e nazionale; ma non lo è più se colleghiamo l’opzione ecologista alla domanda sul capitalismo).
Per proseguire il confronto su questo nodo, è però indispensabile che non si collochino le domande sopra formulate nella forma dicotomica tra sinistra radicale – sinistra non-radicale, ma si assuma il dilemma come oggetto di un’analisi critica della realtà.
Non mancano certo le riflessioni teoriche a cui attingere. La più recente di queste è quella proposta da Nancy Fraser in Capitalismo cannibale[4]. La sua tesi è che il capitalismo non sia soltanto un sistema di organizzazione dell’economia, ma un modello di vita che ha via via colonizzato tutte le dimensioni della società, impossessandosi anche della sfera privata, riducendo tutto a merce ed esautorando i fondamenti stessi della democrazia. Da un altro punto di vista, Byung-Chul Han parla del capitalismo contemporaneo come di un iperliberismo che ha innestato la dialettica servo-padrone dentro lo stesso individuo; questi ha sì acquisito la massima libertà possibile, ma al prezzo di esser diventato imprenditore di se stesso, di richiedersi sempre maggiore efficienza e maggiori livelli di prestazione, e quindi di autosfruttarsi[5].
So che sono analisi estreme, ma invitano a confrontarsi su una serie di contraddizioni che oggi il capitalismo sta generando e che le vecchie opzioni politiche non sono più in grado di risolvere: contraddizioni che sono economiche nella volatilità dei mercati, sociali con la creazione di veri e propri “scarti umani”[6], ambientali tra la bulimia della produzione e la finitezza delle risorse[7], politiche dovute alla privatizzazione degli spazi pubblici[8], di genere perché resta irrisolto il nodo dell’accumulazione nascosta prodotta dal lavoro di cura[9].
Queste contraddizioni non si riescono ad affrontare con le sole ricette del welfare state. Lo abbiamo visto con la pandemia, che ha rivelato i tanti fattori di crisi del capitalismo incapace di corrispondere ai grandi dilemmi etici e politici legati al conflitto tra salute e lavoro, tra produzione e cura, tra ambiente e sviluppo, tra politica ed economia. Un tentativo di affrontare questi problemi da un punto di vista di sinistra riformista è stato avanzato da Laura Pennacchi, già sottosegretaria all’Economia del Governo Prodi, che rilancia l’idea di “democrazia economica” oltre il mercato, riscoprendo forme di produzione e riproduzione economiche e sociali legate al mutualismo e al cooperativismo, rinate proprio durante la pandemia [10].
Sulla necessità di porre limiti a un mercato onnipervasivo e cannibale, la questione da riesaminare è quella del rapporto pubblico-privato. Se il primo modello welfaristico aveva rappresentato anche il più alto equilibrio possibile tra libertà d’impresa e servizio pubblico (universale), il neoliberismo ha scardinato il rapporto a favore del privato sui presupposti, in larga misura ideologici, della maggiore efficienza, del risparmio e della trasparenza: come se il pubblico fosse strutturalmente sinonimo di inefficienza, spreco e corruzione. Questo attacco al pubblico è stato di fatto accettato anche dalla sinistra non-radicale, anche perché cominciavano a mancare le risorse pubbliche per garantire qualità e quantità dei servizi. E così il mercato è diventato il parametro anche di tutti i servizi pubblici locali, fino adesso ad aggredire persino la sanità e l’istruzione (diritti universali sanciti costituzionalmente). Ma la situazione è quella del gatto che si morde la coda; le risorse pubbliche si riducono perché le crisi economiche prodotte dal sistema capitalistico sono state scaricate tutte sugli Stati. Per salvare l’economia, le banche, i mercati, si impiegano le risorse altrimenti destinate alla sanità, alla scuola, all’assistenza, alle opere pubbliche ecc. D’altra parte, se lo Stato non interviene, chiudono le imprese, si perdono posti di lavoro, risparmi ecc. Così si riparte, fino alla prossima crisi. Ma le risorse pubbliche si riducono sempre di più … se appunto la politica non riesce a trovare nuovi strumenti di negoziazione con il sistema economico, capaci anche di trasformarlo in forme anch’esse più efficienti. Perché anche il privato non è più di per sé efficiente.
Da questo punto di vista, una riforma da prendere in considerazione da parte della sinistra dovrebbe essere quella di portare a compimento il progetto di revisione del Codice civile, proposto da Stefano Rodotà con l’introduzione della categoria di bene comune, accanto a pubblico e privato[11]. I beni comuni sono quelli che sono sottratti ad ogni forma di proprietà, sia essa pubblica e privata; sono dunque indisponibili alle decisioni di maggioranze diverse o capitali azionari, perché sono essenziali al benessere dell’intera collettività. L’acqua, i fiumi, i ghiacciai, le foreste, i beni artistici: ciò che non può essere valutato in termini monetari, e non può essere merce di scambio. Introdurre questa categoria costituisce un limite invalicabile al mercato, ma chiama alla responsabilità tutte le cittadine e tutti i cittadini nel sentirsi chiamati alla cura e alla loro gestione condivisa: una strada da percorrere proprio in vista di una transizione ecologica, che per esempio intenda investire nel modello delle “comunità energetiche”, ovvero in una gestione democratica e dal basso delle risorse necessarie alla vita di ciascuno/a, che sia l’acqua, ciò che produce energia, il suolo.
- Il nodo del welfare state
Relativamente al grande tema centrale del rapporto tra politica ed economia, Una teoria della giustizia di John Rawls[12], che Benvenuto cita come riferimento avanzato per una sinistra non-radicale, aveva l’ambizione, ormai più di cinquant’anni fa, di fissare le basi di legittimazione del welfare state in un momento in cui il liberismo già stava provando a metterlo in discussione. La teoria di Rawls rappresenta il pensiero del welfare delle opportunità, in alternativa al welfaredelle garanzie diventato insostenibile con le crisi degli anni Settanta: ovvero l’idea che si debba lavorare sull’eguaglianza delle condizioni di accesso, e non sull’eguaglianza dei risultati. La sinistra non-radicale italiana sposò questa tesi quando arrivò al governo del Paese con l’Ulivo, motivandola per due obiettivi: la prima era la riforma delle pensioni, finalizzata a riorientare le risorse dalle vecchie alle giovani generazioni (Meno ai padri, più ai figli di Nicola Rossi[13] era il testo di riferimento); la seconda era un ridisegno del welfare a favore delle donne con la conciliazione vita-lavoro. Il welfare delle opportunità sembrava essere la strada migliore per includere nel patto sociale due componenti fino ad allora marginali, i giovani e le donne.
A distanza di qualche decennio possiamo ora affermare che aver tolto ai maschi anziani non ha più di tanto rafforzato la posizione né degli uni né delle altre, essendo ancora oggi l’Italia il paese con più alta disoccupazione giovanile e femminile. Serve dunque anche un esame critico del welfare delle opportunità, non necessariamente per rinnegarlo – anche perché tornare indietro non sarebbe né sostenibile né progressista – ma per capire cosa non abbia funzionato.
In un paese in cui il merito (di cui tanto si parla, ma nella più triviale accezione neoliberista della selezione naturale dei “migliori”) è misurato non dai talenti ma grazie ad altre circostanze fortuite, le differenze territoriali tra nord e sud sono rimaste invariate e il mercato del lavoro discrimina ancora per genere, le opportunità non sono mai pari e anzi hanno semmai riprodotto una nuova segmentazione di classe; c’è meno mobilità sociale oggi di cinquant’anni fa, e questo è determinato anche dal fatto che la stessa soglia di accessibilità al welfare si è notevolmente elevata. Si pensi alla sanità e all’istruzione, o alle protezioni nel mercato del lavoro. Bauman ha parlato di un sistema che ha creato paradossalmente un welfare dei ricchi[14], un’assistenza minima per i più poveri, e una fascia nel mezzo (l’ex ceto medio) a rischio di precipitare nella povertà se uno della famiglia si ammala, o perde il lavoro, o perde la casa.
Il bisogno di inclusione riguarda quindi anche questo livello intermedio, che è abbastanza ampio ed è esposto alla “lotteria naturale”, sempre per usare un lessico rawlsiano. Gli ottanta euro di Renzi andavano in questa direzione, ma la modalità era discutibile. Pensare che il benessere si possa solo monetizzare è molto riduttivo, perché se è vero che serve aumentare la capacità di consumo, è altrettanto vero che se non si riesce ad accedere ai servizi di base viene meno il senso di comunità.
Infine, la teoria di Rawls ha un limite strutturale: è fondata sulla razionalità, assume che tutte e tutti, astraendosi dai propri interessi particolari, non possano che condividere le stesse leggi fondamentali della società. Non è così. Tutte le scienze comportamentali hanno dimostrato che gli esseri umani compiono ben poche scelte razionali (mai poi quali sarebbero?) e sono guidati da un bagaglio di valori ereditati, dall’ambiente nel quale vivono e dai desideri del tutto soggettivi nei quali puntano per essere felici.
A questo proposito, l’analisi di Benvenuto sui criteri di valore oggi rilevanti è perfetta: non c’è soltanto lo status socio-economico, il livello reddituale e la capacità di spesa a orientare le scelte, ma anche e sempre di più l’esercizio di una qualche forma di potere, il prestigio e la fama, la visibilità pubblica, l’amore. A tutto questo la teoria rawlsiana non può dare risposte. C’è bisogno di una costellazione di valori che tenga conto anche della dimensione simbolica che costruisce e alimenta i percorsi di formazione delle identità, compresi gli orientamenti politici.
- Orientamenti simbolici e politici
Da quando ha rinunciato ad ogni orizzonte utopico, la sinistra non-radicale ha dismesso ogni investimento su questo fronte affidandosi alla sola razionalità. La razionalità disconosce le emozioni, non produce appartenenza, riduce le persone a in-dividui, tutti uguali nella loro struttura formale e diversissimi per identità. Ma sono proprio le identità che contano.
Secondo Benvenuto, l’ingresso di questi nuovi valori avrebbe spiazzato la sinistra e fornito alla destra maggiore capacità di attrarre consensi, soprattutto dalla fascia di quelli che lui definisce molto acutamente left behind, coloro che sono lasciati indietro, rovesciando il paradigma secondo il quale dovrebbe essere la sinistra a rappresentare gli ultimi.
Io penso che l’analisi del voto dovrebbe essere più approfondita, compiuta sul lungo periodo e soprattutto senza dimenticare l’astensionismo dilagante. Infatti, secondo le analisi del voto politico 2022 dell’Istituto Cattaneo, il centrodestra non sarebbe cresciuto di voti in termini assoluti, mentre al suo interno c’è stato un vero e proprio travaso verso Fratelli d’Italia sia dalla Lega che da Forza Italia. Lavoratori e ceti bassi che hanno scelto Meloni avevano già in precedenza votato a destra; Berlusconi aveva già drenato una grossa fetta di voto popolare nel 1994, mentre la Lega era nata come “costola della sinistra” tra i ceti medi del nord. Invece, da anni il primo partito è quello del non-voto, giunto il 25 settembre 2022 al 36,2%; per non parlare delle elezioni regionali e comunali, dove ormai ha la maggioranza assoluta. E’ molto verosimile non soltanto che tanta parte dell’astensionismo sia costituita da ex elettori di sinistra, ma anche che essa sia costituita in maniera consistente proprio da quei left behind, che si sentono esclusi. La sinistra dovrebbe interrogarsi dunque non soltanto su quella popolazione che vota a destra, ma soprattutto su quella che non vota più: sempre che lo voglia fare, perché, come ho sostenuto in un articolo dedicato a questo tema, la sensazione è che la politica tutta non sia interessata e anzi tema il risveglio di queste “cellule dormienti” della democrazia[15].
- Il problema dell’uguaglianza e il posto della libertà
In un contesto di differenze individuali che appaiono irriducibili, il punto decisivo sta nel saper innescare processi di identificazione. Prima la sinistra era maestra nel farlo, adesso la destra pare più brava. Ma se prima a sinistra l’identificazione avveniva dentro un progetto in cui tutti facevano la propria parte grazie a pratiche di costruzione solidale di società, a destra l’identificazione sta nel rapporto tra il singolo individuo e il leader politico che più gli assomiglia, più nel male che nel bene.
In quel progetto della sinistra sicuramente l’eguaglianza era il cardine. Ancora nel 1994, il liberaldemocratico Norberto Bobbio affermava che l’eguaglianza è il valore peculiare della sinistra[16]: che sia eguaglianza di diritti, di stato, di opportunità, relativa o assoluta, questo sarebbe ciò che distingue la sinistra dalla destra.
Ma anche il valore dell’eguaglianza (come il riformismo) è diventato troppo vago, generico, vuoto, se non si aggettiva di qualcosa. Tra l’eguaglianza formale e quella sostanziale sta oggi un abisso, tanto che difficilmente possono essere ricondotte entrambe alla stessa sinistra: troppo debole l’eguaglianza formale davanti alla legge, a cui pensava Bobbio, e troppo forte l’eguaglianza sostanziale perseguita dal socialismo reale. Il liberalsocialismo, troppo presto abbandonato con la fine di «Giustizia e libertà», non ha avuto il tempo di proporre e soprattutto sperimentare nuove formule capaci di contemperare le diverse forme di eguaglianza e di trovare la sintesi più felice del rapporto tra eguaglianza e libertà[17].
Certo, ci sono i principi costituzionali che continuano a funzionare come bussola di riferimento, ma questi dovrebbero essere base comune di tutti e non solo di una parte politica. E’ la funzione della Corte Costituzionale ad essere il baluardo di quei principi e a fissare il limite alle parti politiche, come spesso è accaduto, mentre diffido delle proposte di patriottismo costituzionale come progetto politico e dissento dai tentativi di appropriazione politica della difesa della Costituzione, che ritengo essere stati invece gli apripista per tutte le operazioni di smantellamento della Costituzione stessa.
Dunque, non basta l’eguaglianza. In realtà non è mai bastata. La sinistra moderna nasce su un altro presupposto, che è quello della liberazione da ogni forma di servitù e di oppressione.
Allora ritorno su un punto solo accennato all’inizio. Non sarebbe il caso di andare a vedere gli attuali rapporti di dominio che creano ingiustizie e sottomissioni, e pensare a nuove battaglie di liberazione? Di genere, di razza, di specie, e anche di classe?
Rovesciando così la prospettiva, viene meno quella distinzione ontologica che erroneamente si fa tra diritti civili e diritti sociali, come se perseguire gli uni determinasse l’abbandono degli altri.
Qui sta il limite strutturale del programma di una sinistra liberal che, secondo la corretta analisi di Benvenuto, ha occupato i posti di potere della società, ma non può parlare alle fasce sociali più deboli e si preoccupa di allargare i diritti alle nuove identità (LGBTQ+, migranti). Questa sinistra è destinata a perdere sempre democraticamente le elezioni e a gestire il potere in altri luoghi: economici, culturali, mediatici. Il che può essere un risultato soddisfacente per le élite della sinistra, ma non certamente per quella parte di società che vorrebbe essere rappresentata.
Ma è sbagliato il presupposto. Insisto. Se la sinistra continua a pensare che questo è il migliore dei mondi possibili e che un altro mondo non esiste, non può che essere questo l’esito. Se invece comincia a sollevare i nodi strutturali, le contraddizioni che il modello capitalistico oggi produce, le nuove forme di oppressione di chi sta sopra su chi sta sotto, si vedrà che tra l’emarginazione delle comunità LGBTQ+, le disparità di genere, il razzismo, l’ingiustizia e le povertà ci sono connessioni profonde.
Provocatoriamente, dico che il valore della sinistra deve tornare ad essere – come in realtà alle sue origini – quello della libertà, che la destra postfascista oggi in grande avanzata aborre massimamente perché per lei più pericolosa. Non è un caso che i primi provvedimenti del governo Meloni siano tutti atti liberticidi. Alla sinistra sta brandire la bandiera della libertà dei corpi, dell’amore, della libertà da ogni sfruttamento sessuale, lavorativo, etnico: un progetto di liberazione capace di parlare a tutti e a tutte gli esclusi dai diritti, da una vita dignitosa, dalla felicità. Su questo un grande contributo viene dal pensiero femminista postcoloniale e intersezionale, dalla sua attenzione verso la costruzione di nuove soggettività fondate non sull’individuo sovrano e autodeterminato[18], ma sulla relazione e la cura. E qui lasciatemi solo accennare all’assurdo dibattito a cui abbiamo assistito sulla novità della prima donna premier in Italia, legato ad un’idea di femminismo ridotto alla presa del potere maschile. Questo femminismo anch’esso neoliberista, tutto volto all’esaltazione delle donne che ce l’hanno fatta a raggiungere i posti di potere costruiti dagli uomini e che magari, proprio per questo, pretendono di essere chiamate con i nomi e gli aggettivi maschili, non contiene alcuna idea di liberazione né cambiamento. E’ un “femminismo” di destra, che niente ha a che fare con il potenziale emancipativo e trasformativo del femminismo di ultima ondata, attento a chi resta indietro e subisce umiliazioni, non a chi arriva primo.
- Teoria e pratica
Quello fatto fin qui può sembrare un ragionamento tutto teorico e astratto, e lo è certamente. D’altra parte una delle premesse è che bisogna tornare a pensare e a studiare.
La sinistra italiana non lo fa da decenni. Il congresso della svolta da PCI a PDS tentò di emanciparsi dal marxismo ibridando teoria critica e liberaldemocrazia. Ma la costituzione del Partito Democratico, che avrebbe dovuto operare la sintesi tra le famiglie politiche progressiste della storia italiana, avvenne con modalità che furono di sostanziale rottura con il passato senza costruire basi nuove di riferimento, teorizzando anzi il partito d’opinione, programmatico, non identitario. Il risultato è stato quello di trasferire al proprio interno la competizione tra élite politiche diverse attraverso il meccanismo delle primarie, privandosi a priori degli strumenti della discussione e della sintesi; all’interno del PD, il gruppo che vince governa fino al congresso successivo, e quasi sempre ogni volta le maggioranze cambiano impedendo la costruzione di progetti di lungo termine.
La prima riforma da fare dovrebbe essere quella del partito.
Per il resto, la scelta di una piattaforma di valori condivisi dovrebbe essere la base sulla quale elaborare anche le proposte concrete.
Il catalogo della sinistra non-radicale sintetizzato da Benvenuto (fedeltà atlantica, globalizzazione, europeismo, diritti civili, immigrazione, regolazione pubblica del mercato e laicità piena) è stato determinato non da un confronto capillare tra militanti ed elettori, ma dalle inclinazioni di quello o quell’altro leader eletto da primarie. Alcuni di questi punti sono maturati tagliando di netto con le culture politiche di origine, e anche questo ha contribuito ad allontanare molti elettori. Tratto qui solo velocemente il primo punto sulla collocazione internazionale, che mi sta molto a cuore, ed è un tema per me identitario. Non è tanto la partecipazione al Patto Atlantico, assunta anche dal PCI come posizione irreversibile, ma il ruolo da giocare dentro la NATO, se appunto di supina fedeltà agli Stati Uniti o di attiva e autonoma politica estera in grado di interloquire verso l’est e verso il sud del mondo. Questo punto è emerso con forza davanti alla crisi ucraina. Doverosa la condanna della Russia in ossequio al principio di indipendenza e autodeterminazione dei popoli; legittimo anche il sostegno militare alla resistenza ucraina; ma lontana dalla tradizione della sinistra italiana ed europea è stata la rinuncia a qualsiasi iniziativa politica che favorisse la strada diplomatica, e inaccettabile è stato l’attacco al pacifismo. Si è persa qui un’altra connotazione della sinistra, che è quella dell’internazionalismo: la sinistra italiana è sempre stata molto attiva nel costruire relazioni in Europa e nel mondo capaci anche di orientare le grandi potenze, e non si capisce come mai Letta prima e Schlein poi non abbiano cercato intese con Macron, Scholz e altri partiti socialisti europei per rafforzare i tentativi di dialogo tra le parti[19].
[1] M. Weber, Considerazioni intermedie, Armando Editore, Roma 2000.
[2] A. Giddens, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, Il Saggiatore, Milano 1999.
[3] Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 1999.
[4] N. Fraser, Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, Roma-Bari 2022.
[5] Byung-Chul Han, La società della stanchezza, nottetempo, Milano 2012; Idem, Perché oggi non è possibile una rivoluzione, nottetempo, Milano 2022.
[6] Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005.
[7] Sta qui tutto il dibattito attorno all’Antropocene, cioè alla svolta geologica in realtà impressa a partire dalla rivoluzione industriale. Tra i tanti contributi, J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, ombre corte, Verona 2017; Idem, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, ombre corte, Verona 2023
[8] C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2001; Idem, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, Roma-Bari 2014.
[9] Su questo punto il femminismo americano ha prodotto studi importanti, ad esempio Silvia Federici in Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020.
[10] L. Pennacchi, Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo, Castelvecchi, Roma 2021.
[11] U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, Bologna 2007.
[12] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.
[13] N. Rossi, Meno ai padri e più ai figli. Stato sociale e modernizzazione dell’Italia, Il Mulino, Bologna 1997.
[14] Z.Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2011.
[15] D. Belliti, Astensionismo, ma è un problema per la politica?, SoloRiformisti, 18 febbraio 2023.
[16] N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 1994.
[17] Alle riflessioni di Carlo Rosselli (Socialismo liberale e altri scritti, Einaudi, Torino 1973) si potrebbe associare anche il pensiero di J. Dewey, Liberalismo e azione sociale, Edizioni Società Aperta, Sesto San Giovanni (MI) 2023: si tratta di una via non ancora esplorata politicamente.
[18] Oltre a Nancy Fraser, già citata, bisogna ricordare almeno Judith Butler, e testi come L’alleanza dei corpi (nottetempo, Milano 2017), Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza (Postmedia, Milano 2013), La forza della non-violenza. Un vincolo etico-politico, nottetempo, Milano 2020).
[19] Rimando a questo proposito alla raccolta di saggi e articoli di Enrico Berlinguer, La pace al primo posto. Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984), a cura di A. Höbel, Donzelli, Roma 2023.
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