«L’altra fu la guerra dei popoli. Questa è la guerra delle personalità. Gli italiani di M [ussolini], i tedeschi di H [itler], gli spagnoli di Franco. Si torna alla concezione epiche. Ricorso vichiano» (TS, p. 8). «Sempre letterato. Piovono tuttora le bombe e tu pensi già a farne un racconto» (Ivi, pp. 9-10). Tra questi due adagi estratti dal cosiddetto Taccuino segreto di Cesare Pavese credo si dispieghi l’intero campo energetico in cui queste tracce di pensiero – perché mi rifiuto di ascrivere il taccuino al novero delle opere – vanno lette, con serietà e diligenza filologica, ma soprattutto con onestà filosofica. Da un lato, questo Pavese rifugiatosi nel Monferrato insieme alla famiglia della sorella, che si disinteressa dei compagni antifascisti del Liceo D’Azeglio per mettersi in salvo, cerca di trovare basamento per quella sua umana troppo umana ritirata in una fantasmagoria tardo-eroica, feticisticamente epica, cui addirittura attribuisce quei tratti vichiani che saranno al centro, qualche anno dopo, del progetto editoriale, culturale e antropologico della Collezioni di studi religiosi, etnologici e psicologici portato avanti con Ernesto De Martino. Va qui ricordato, per inciso, che anche in quel secondo appuntamento, la passione di Pavese per il mito e la lettura vichiana della storia della cultura non mancheranno di suscitare tetragoniche reprimende da parte dell’arsenale culturale comunista. «Pavese non è un buon compagno… Discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore», leggiamo in una nota di diario del febbraio 1950 a proposito della reazione a un suo saggio sul mito comparso sulla rivista «Cultura e realtà». Dall’altro lato, è evidente che Pavese, nelle pagine del Taccuino, indaga impietosamente su se medesimo, inquisisce e censura la propria condizione senza farsi sconti di sorta, mettendo anzi lucidamente a fuoco anche i propri elementi di piccolezza.
Il Pavese che scrive i taccuini è febbrile. La stessa lingua di queste pagine, anzi soprattutto essa, non ricorda nemmeno lontanamente l’eleganza pur sempre impastata d’idioma del suo consueto tenore narrativo (per tacere del suo linguaggio poetico). CP attacca ferocemente gli antifascisti in una nota e colpisce a morte se stesso in quella successiva. Non risolve la sua contraddizione: la incarna e la vive, la getta sulla pagina con una elaborazione non certo assente, ma certo non decisa a risolvere gl’ingressi in una sintesi.
Se si legge il Taccuino senza ingegnerie inverse, non appare in fondo così fuori contesto rispetto all’opera di Pavese. È semmai più rozzo, meno allusivo, meno torinese. Ma tutto quanto lì è scritto sta nella mai risolta tensione pavesiana. Vi si colloca in forma di coppie di opposti eccessi anziché nella nonchalance della soluzione poetica, dell’allusione narrativa, dell’immagine simbolico-allegorica. Allora da dove nasce lo scandalo suscitato dalla pubblicazione, nel 1990, del Taccuino? Semplice: nell’autunno del 1945 Cesare Pavese si iscrive al Partito Comunista Italiano. Ed ecco che come per magia tutto ciò che Pavese è stato e che sarà diviene nell’immaginario instupidito dall’ideologia una serie di variabili dipendenti da quella costante che tutto regola e che tutto giudica (e molto punisce). Anche se chiunque sa benissimo che Pavese non era stato prima, non fu allora e non sarebbe stato nei pochi anni di vita seguenti un comunista, anche se abbondano le testimonianze circa il suo deciso anti-comunismo di principio, anche se erano arcinote, ben prima della pubblicazione del Taccuino, le motivazioni della sua adesione al PCI («io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI», scrive CP a un amico nel novembre del 1945, con una espressione che somiglia molto alla cronaca di un’adesione coatta, non tanto in ragione di una violenza esterna, quanto di una coazione interna, che egli vive però con lo stesso dolore con cui fu costretto a prendere la tessera del PNF negli anni del regime per poter insegnare), insomma, nonostante tutto questo, regge da trent’anni la farsa carnascialesca di questo scandalo, di questo sospetto di contraddizione, che taluni hanno ferocemente eretto a capo d’imputazione (il più feroce fu all’epoca Giancarlo Pajetta, le cui parole assai meschine vanno però lette tenendo conto del fatto che tra i caduti della resistenza piemontese ‘traditi’ dal ritiro di Pevese vi fu suo fratello Gaspare, che era stato allievo e amico di CP) e talaltri hanno provato goffamente a risolvere, intrecciando fantasiosi teoremi apologetici.
Ma è tutto molto più semplice. «Per anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché», leggiamo ne La luna e i falò. Continuamente soffia questo vento nell’opera di Cesare Pavese. Il Taccuino è un acuto, una tramontana indomita, una continua giustapposizione di opposti eccessi, di giustificazioni e mortificazioni, di esaltazioni bifrontesche del nemico e di mortificazioni di sé. È un innalzamento della temperatura linguistica e concettuale, il Taccuino, ma non è incoerente con il percorso di Pavese. Incoerente, spaesante, a metà tra l’espiativo e il conformistico, fu solo un episodio, quello che annaspa queste acque: l’iscrizione al Partito Comunista Italiano.
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