Come la corrente di un fiume carsico si è ricominciato a parlare di cancellazione, ristrutturazione, ripudio ecc. del debito. La novità di ora è che si fa riferimento al debito Covid, cioè quel di più rispetto al già ragguardevole livello di 135% del PIL raggiunto nel 2019, cioè prima della pandemia. Una volta debellato questo incubo, con vaccini risolutivi o altro miracolo, ci troveremo con un debito del 160% del PIL. Quindi, si parla di far finta non ci sia una massa di titoli per circa il 25% del PIL. Non è poco. Cominciamo a fare chiarezza con la terminologia.
C’è “insolvenza” sovrana quando uno stato non riesce ad onorare in tutto o in parte gli impegni finanziari previsti dal contratto che lo lega ai suoi creditori. L’insolvenza può riguardare sia il capitale che gli interessi. In caso di insolvenza, i titoli del debito non sono più accettati come collaterali dalle banche centrali per le operazione di finanziamento. Uno stato può impegnarsi in una “rinegoziazione” del debito con i suoi creditori, per modificarne le scadenze, l’ammontare o il tasso di interesse. Si tratta, come è stato detto (Monacelli, La voce. Info, 16.11.2020), di un “default controllato”. Si ha “riprogrammazione” quando la modificazione delle scadenze non altera il valore attuale dei pagamenti futuri, si ha “ristrutturazione” quando questo valore si riduce, quindi un “default parziale”. Quando questo valore va a zero si ha il “ripudio” del debito, o “default totale”. Infine, con il termine “consolidamento” del debito ci si riferisce ad un processo programmato nel tempo di riduzione del rapporto debito su PIL.
Il termine “cancellazione” non esiste nel vocabolario del debito, è una parola vuota, a meno che non si intenda che la BCE, dopo che, in questi ultimi due anni, si è ingurgitata un bel po’ di titoli pubblici italiani, si impegni a sottoscrivere tutto il debito di nuova emissione e tenga questi titoli (solo italiani?) fino alla scadenza senza rivenderli sul mercato. Ciò comporta due inconvenienti: in primo luogo, la BCE subisce una perdita di bilancio che poi ricade sui mancati utili che la Banca d’Italia non versa più al Tesoro; in secondo luogo, la BCE perde la sua indipendenza perché non ha più la piena discrezionalità del classico strumento di vendita/acquisto dei titoli sovrani per controllare la quantità di moneta nel mercato. La qual cosa sarebbe veramente perniciosa se l’inflazione riprendesse a salire con le economie in UE in crescita post-Covid.
Dunque, la cancellazione del debito e gli altri complicati adattamenti non sarebbero necessari, se l’inflazione non riprendesse ad accendersi. Ma le aspettative non possono restare a lungo su questa tendenza al ribasso. Come sostiene Cottarelli (La Repubblica,17.11.2020), occorre mettere in funzione un controllo automatico della liquidità in eccesso che però non si caratterizzi come vendita dei titoli pubblici da parte della BCE. Cottarelli si riferisce alla riserva obbligatoria per le banche di credito ordinario, ma possono essere escogitati altri strumenti. Se questi funzionassero (e ci sono diverse riserve in merito) e la liquidità accumulata con l’acquisto dei titoli da parte della BCE venisse congelata, cioè non si diffondesse nell’economia reale in presenza di aspettative inflazionistiche, il debito Covid rimarrebbe come una pura posta contabile e potrebbe essere escluso dalle definizioni rilevanti per il rispetto dei vincoli europei che nel 2021 verranno reintrodotti.
Tra i nuovi vincoli si parla molto della nuova regola proposta dall’European Fiscal Board che si basa su una regola della spesa con inserito all’interno un obbiettivo di riduzione del debito. La spesa pubblica benchmark è al netto degli interessi sul debito pubblico e delle spese per la disoccupazione (un primo elemento anticiclico della regola), e esclude gli effetti di misure strutturali sulla spesa pubblica (riforme pensionistiche e della pubblica amministrazione). E’ anche al netto degli effetti attesi di variazioni discrezionali sulle entrate, come le riforme delle basi imponibili e delle aliquote, per evitare manovre manipolative delle regole fiscali, come tagli pre-elettorali non compensate da riduzioni di spese. Infine, la regola della spesa dell’EFB ammette la deduzione di una quota di investimenti pubblici concessa in virtù di un accordo con la Commissione Europea secondo un piano triennale. L’impegno a ridurre dal benchmark di spesa gli investimenti pubblici dovrebbe avere un carattere più sistematico dei semplici margini di flessibilità, di volta in volta concessi agli stati come premio di buona condotta, in sostanza come un’estensione del Recovery and Resilience Facility del NexgenEU.
In un lavoro in corso di pubblicazione in una rivista internazionale, ho svolto un esercizio di simulazione secondo cui adottando la nuova regola EFB, ammettendo un tasso di crescita annuo della spesa preso a benchmark dell’1% e un insieme di investimenti pubblici ammessi tali da garantire una crescita potenziale del 3%, il rapporto debito su PIL, al netto del 25% del debito Covid, raggiungerebbe un accettabile livello del 90% in venti anni. Ma per raggiungere una crescita potenziale duratura come quella prefigurata non bastano gli investimenti pubblici, occorrono le riforme strutturali.
In un recente contributo del Servizio Studi della Banca d’Italia è stato stimato l’effetto sulla Produttività totale dei fattori in 7 anni di tre riforme strutturali: la liberalizzazione dei servizi (+ 4,31%), l’innovazione determinata da industria 4.0 (+1,37%), la riforma della giustizia civile (+0,49%). Aggiornando e replicando le tre riforme nei prossimi anni arriverebbe un grande sostegno agli effetti degli investimenti pubblici.
In conclusione, pur ammettendo di poter congelare in qualche modo il debito Covid, ma senza fantasiose cancellazioni, un ragionevole processo di consolidamento, con le nuove regole europee, potrebbe essere realizzato, attuando (non semplicemente programmando) un’adeguata massa di investimenti pubblici e sviluppando le riforme strutturali, anche a costo zero per la finanza pubblica, da sempre evocate.
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