Ignazio La Russa si è di nuovo reso ridicolo sulle storie del tasso di conversione tra l’euro e dell’aumento generalizzato dei prezzi che sarebbe stato provocato dall’introduzione, delle banconote e delle monete in euro. All’aria che tira, su La7, ha sostenuto che l’aumento generalizzato dei prezzi del 2002 (che NON c’è stato) sarebbe stato dovuto al tasso di conversione tra lira ed euro che era stato scelto. La confusione non può essere più grande. E nel nostro paese ci sono delle bufale che non si riesce a smontare.
Nessuno ha mai scelto i tassi di conversione. Nel trattato di Maastricht (firmato nel febbraio 1992, praticamente sette anni prima dell’inizio dell’unione monetaria) era stato stabilito che per entrare nell’euro un paese avrebbe dovuto partecipare senza tensioni al Sistema monetario europeo per almeno due anni. Era quindi chiaro che i paesi sarebbero entrati nell’unione monetaria con il tasso di cambio di mercato. Per la precisione, i tassi di conversione utilizzati (il 1936.27 lire per un euro) erano i tassi rilevati sul mercato alle ore 12.00 del 31 dicembre 1998.
Per la Germania il tasso di mercato di fine 1998 era praticamente lo stesso di quello uscito dall’ultimo riallineamento nel settembre del 1992. Per l’Italia, che era uscita dalla banda di fluttuazione ristretta del Sistema monetario europeo, fu necessario fissare un nuovo tasso centrale. Questo fu negoziato da Ciampi nell’ottobre del 1996 e il risultato fu più o meno il valore di mercato di quel momento.
In questa discussione, l’Italia avrebbe voluto consolidare le svalutazioni del 1995 per ovvi motivi di competitività mentre gli altri paesi avrebbero preferito un tasso più basso. L’Italia chiedeva una parità centrale di 1000 lire per un marco e gli altri paesi chiedevano una parità di 950 lire per un marco. Il risultato del negoziato fu 990 lire per un marco, un risultato molto vicino all’obiettivo del governo italiano.
Quindi chi parla di tassi di conversione sbagliati o vantaggiosi/svantaggiosi o scelti da qualcuno dice un’assurdità monumentale. I tassi di conversione scelti – i tassi del mercato – non potevano cambiare la competitività dei paesi, né avere una qualsiasi influenza sui prezzi interni.
La discussione del 1996 verteva comunque su di un cinque per cento di differenza. È avvenuta nel 1996. Già a quei tempi il valore deciso era molto vicino al valore di mercato (circa l’un per cento) e l’introduzione delle banconote e monete in euro è avvenuta il primo gennaio 2002, oltre cinque anni dopo. NON ESISTE quindi nessuna relazione tra tasso di conversione della lira nei confronti dell’euro e aumento dei prezzi nel 2002.
L’unico effetto sui prezzi che il passaggio dall’espressione dei prezzi in lire a quella in euro e all’uso delle nuove banconote avrebbe potuto provocare era dovuto agli eventuali arrotondamenti. Ma la stragrande maggioranza dei prezzi è stata convertita senza arrotondamenti. Il tasso di inflazione del 2002 è stato del 2.4 per cento.
Eppure moltissimi italiani sono convinti che gli arrotondamenti dovuti al passaggio da prezzi in lire a prezzi in euro e, più in generale, il passaggio stesso da una moneta all’altra abbiano provocato un forte aumento dei prezzi. Il passaggio da prezzi in lire a prezzi in euro ha certo prodotto degli aumenti dei prezzi, ma l’impatto degli arrotondamenti o variazioni di prezzi è stato molto modesto. Il passaggio dalla lira all’euro non ha provocato aumenti del tasso di inflazione italiano. Il tasso di inflazione negli anni con l’euro è stato più basso di quello degli anni con la lira.
Il tasso di inflazione del 2002, anno in cui si è cominciato ad utilizzare l’euro nelle transazioni quotidiane, è stato del 2.43 per cento [i]. I tanti studi specialistici che sono stati condotti indicano che gli arrotondamenti avrebbero contribuito al tasso di inflazione di quell’anno per circa mezzo punto. Una cifra leggermente superiore ai due o tre decimi di punto registrati in altri paesi che sono passati all’euro.
Il tasso di inflazione medio dei cinque anni prima dell’introduzione delle monete e delle banconote in euro (1997-2001) è stato del 2.07 per cento[ii]. Quello dei cinque anni seguenti (2003-2007) è stato dell’1.97 per cento. Il tasso di inflazione dei dieci anni precedenti (1992-2001) è stato del 3.30 per cento. Quello dei dieci anni seguenti (2003-2012) è stato del 2.11 per cento.
Gli effetti sui prezzi dell’introduzione dell’euro sono stati esaminati in molti studi condotti dagli uffici statistici, dalle banche centrali e da analisti indipendenti. Alcuni di questi studi sono stati pubblicati dalla casa editrice Il Mulino: L’euro e l’inflazione, a cura di Paolo del Giovane, Francesco Lippi e Roberto Sabbatini (2005, pagine 190, 13.00 euro). Gli autori motivano la decisione di pubblicare gli studi con il fatto che “Il divario tra l’inflazione percepita e quella misurata ha raggiunto un’ampiezza mai osservata nel passato. Questo fenomeno, comune ai vari paesi dell’area, è stato particolarmente persistente ed intenso in Italia. Nell’opinione pubblica del nostro paese si è addirittura affermata la convinzione che per alcuni beni o servizi, la conversione dei prezzi nella nuova moneta sia avvenuta al cambio di 1000 lire per euro, cosa che avrebbe implicato un rincaro di questi prodotti di quasi il 100 per cento. Gli organi di informazione hanno dato conto di queste preoccupazioni con assiduità.” (pagina 8).
Il meccanismo principale che spiega questa percezione erronea è il fatto che gli arrotondamenti si sono verificati per prodotti di uso frequente, ma di importo modesto. Il caso tipico è quello del caffè e del cornetto mattutini al bar. La natura umana porta poi a notare i casi imprevisti e spiacevoli e ad attribuire loro una frequenza e un’importanza esagerate. I prodotti per i quali ci sono stati arrotondamenti rappresentano una piccola parte della spesa mensile di una persona o di una famiglia. Il grosso della loro spesa (affitti, luce, gas, telefono, ecc.) non ha subito nessun arrotondamento. Anche per i prodotti industriali gli arrotondamenti sono stati praticamente inesistenti.
Il libro citato contiene molte affermazioni interessanti. “Nel commercio gli arrotondamenti più elevati hanno interessato prevalentemente gli esercizi tradizionali rispetto alla grande distribuzione (cap. 2); i prezzi dei ristoranti nell’anno del changeover sono cresciuti maggiormente nelle provincie caratterizzate da un minor numero di locali rispetto al bacino di utenza (cap. 3). Peraltro, a questi aumenti se ne affiancano altri in parte imputabili a fattori indipendenti dall’introduzione della moneta unica. Ad esempio, le quotazioni di alcuni prodotti ortofrutticoli, che nel 2002 hanno registrato aumenti dell’ordine del 30 per cento, hanno risentito anche dell’eccezionale rigore invernale e della siccità nei mesi estivi (capitoli 1 e 2). Inoltre nel periodo del changeover e in quello immediatamente successivo si riscontra un netto aumento della percentuale di prodotti che subiscono variazioni, anche modeste, dei prezzi. Una parte di queste trova origine nel costo di revisione dei listini, che ha spinto operatori a concentrare le modifiche, normalmente diluite nel tempo, in corrispondenza del changeover, quando era divenuto comunque necessario esprimere i prezzi nella nuova unità monetaria.” (pagina 12).
Col passare del tempo la percezione di aumenti dei prezzi si è poi accresciuta con l’abitudine di raffrontare i prezzi in euro che si hanno sotto gli occhi con i prezzi in lire di un periodo sempre più lontano nel tempo. La convinzione di un aumento dei prezzi forte è stata anche rafforzata dalla campagna elettorale del 2006 nel corso della quale i due principali contendenti, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, si dati reciprocamente la colpa dell’aumento dei prezzi. Si sono accusati reciprocamente di omicidio senza verificare se fosse mai stato ucciso qualcuno.
Un problema specifico è rappresentato dall’aumento dei prezzi degli immobili. I prezzi di case e appartamenti non sono ripresi nell’indice dei prezzi al consumo perché il loro acquisto è considerato un investimento. Tra il 2000 ed il 2008 c’è stato un forte aumento dei prezzi degli immobili, ma questo è stato un fenomeno che ha toccato tutti i paesi industrializzati, indipendentemente dalla moneta utilizzata. C’è stata una quasi contemporaneità con il passaggio all’euro, ma questa è stata casuale.
Dopo lo scoppio della bolla delle borse azionarie del marzo 2000 e ancora di più dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, le banche centrali di tutti i paesi industrializzati hanno adottato politiche monetarie molto espansive per sostenere le economie. Questo ha provocato una riduzione dei tassi di interesse, facilitato la concessione di mutui e permesso la nascita di una bolla immobiliare. Conosciamo tutti le dimensioni di questa bolla negli Stati Uniti (il suo scoppio è stato all’origine della crisi del 2008/2009), ma bolle immobiliari simili si sono verificate anche nel Regno Unito, in Svezia e in Australia, paesi che non utilizzano l’euro.
Nello stesso periodo ci sono state bolle immobiliari anche in alcuni paesi dell’eurozona (per esempio Spagna, Irlanda e, in minor misura, Grecia, Portogallo e Italia). In alcuni di questi paesi la riduzione dei tassi di interesse è stata anche dovuta all’allinearsi delle condizioni monetarie su quelle medie dell’eurozona. Questo era un obiettivo della creazione dell’unione monetaria stessa e ha permesso forti vantaggi per le imprese e forti risparmi nel servizio del debito pubblico di molti paesi (nel caso dell’Italia dall’equivalente di 115.6 miliardi di euro nel 1996 a 66.7 miliardi nel 2004, su di un debito pubblico passato da 1180 a 1420 miliardi).
[i] Indice ISTAT Famiglie di operai e impiegati senza tabacchi (FOInt)
[ii] Media del periodo e non media aritmetica dei valori annui
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