“Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”.
In questa celebre frase di Giacomo Leopardi, tratta dal “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” nelle “Operette morali”, si sostanzia l’aspettativa che avvolgeva il nuovo anno. La speranza di una svolta, di un miglioramento. Di un’alba portatrice di inevitabile felicità.
Oggi, tuttavia, questo auspicio si è affievolito.
Ce lo confermano gli studiosi del celebre Collins English Dictionary, che lavorano ogni anno alla compilazione dell’elenco delle parole che riflettono il nostro linguaggio e le preoccupazioni di coloro che lo usano.
Secondo i linguisti del Collins la parola che ha contraddistinto il 2022 è “Permacrisis”, ossia crisi permanente, vocabolo che descrive la sensazione di vivere un periodo di problematiche senza tregua.
Non si tratta di un vero e proprio neologismo, in quanto la parola è stata notata per la prima volta, in contesti accademici, negli anni ’70.
Tuttavia, nel corso del 2022, questo vocabolo ha assunto una rilevanza generale e diffusa in tutta la popolazione, a indicare una fase estesa di instabilità e insicurezza in un mondo sul quale sembra costantemente pendere una spada di Damocle.
Di motivi ce ne sono molti.
Una lunga pandemia, la più terribile dal 1919.
Guerre ovunque. Quella in Ucraina, al centro dell’attenzione per la sua localizzazione in Europa (molti scordano la guerra balcanica tra il 1990 e il 1999) ma, soprattutto, per una narrazione piuttosto “a senso unico”. Così come i conflitti che investono ampie aree del globo, altrettanto sanguinosi e non meno preoccupanti.
La crescente oppressione dell’universo femminile, come in Iran – dove le donne vengono uccise per un velo non indossato – oppure in Afghanistan, da dove le truppe occidentali sono scappate con ignominia lasciando la popolazione, disperata, a tentare di fuggire aggrappata ai carrelli degli aeroplani. “Finora i Talebani hanno mantenuto quanto promesso”, disse senza vergogna al momento della fuga Joe Biden. Chissà cosa direbbe oggi, quando le donne in quel paese sono meno importanti degli yak da soma.
Altra fonte di preoccupazione sono le crescenti difficoltà economiche, la recessione, l’aumento del costo della vita. In questi giorni natalizi in molti si sono messi in coda per entrare alle mense dei poveri, per ritirare un pacco di cibo per Natale o un gioco da mettere sotto l’albero per i bimbi in questi giorni di feste “magre”, con le famiglie che faticano ad arrivare a fine mese per l’inflazione che fa aumentare il costo della spesa e la crisi energetica con il “caro bollette”. Il venti per cento in più rispetto allo scorso anno.
E’ comprensibile che tutti questi fattori, ed altri ancora sui quali non mi dilungo, abbiano insinuato in molti quella indistinta sensazione che il mondo sia in profonda e irreversibile crisi, con un futuro che – lungi dall’essere latore di vita felice – pare essere avvolto da nubi ancor più fosche.
Eppure…
Ebbene sì, c’è un “eppure”, perché la percezione di vivere nella fase più sfortunata della storia è piuttosto sopravvalutata.
È vero che abbiamo attraversato una terribile pandemia, ma abbiamo anche potuto contare su un vaccino preparato in tempo record e in misure di prevenzione e informazione che cent’anni fa, ai tempi dell’influenza spagnola, non erano nemmeno pensabili.
È vero che la guerra in Ucraina e gli altri conflitti nel mondo mettono a repentaglio il tepore delle nostre case, ma ottant’anni fa i nostri ventenni dovevano lasciarle, le case, alla volta delle lande russe, e Dio sa quanti non hanno fatto più ritorno.
E’ vero che le donne vengono umiliate e perseguitate, ma è altrettanto vero che assistiamo a segnali di reazione. In Iran, dove le proteste stanno facendo scricchiolare un sistema di potere che pareva inscalfibile. Speriamo presto in Afghanistan, dove già si colgono segnali di reazione.
E’ anche vero quanto abbiamo detto sulla situazione economica, ma è altrettanto certo che esistono le risorse, le tecnologie e le conoscenze per una ripresa generale. Purché la stessa sappia coniugare l’efficienza produttiva e la conseguente crescita con una più diffusa distribuzione di ricchezza e con l’eliminazione delle più odiose diseguaglianze.
Rimbocchiamoci le maniche, quindi, certi che il futuro sarà anche quello che sapremo costruire.
Ritrovando in noi stessi valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.
Costruendo una nuova educazione, etica e civica, che sappia vincere la volgarità e un ormai tracotante egocentrismo.
Abbracciando la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino, ma tuttavia l’unico strumento per procedere in mezzo alle tenebre.
Abbiate quindi un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’indole umana, capace dell’egoismo più atroce.
Ma nella capacità del genere umano di migliorare se stesso e le sue condizioni di vita.
Con un percorso non lineare, con ricadute odiose e tribali rigurgiti.
Ma con uno sguardo che comunque sa cogliere nel futuro gli scenari del fattibile.
Impegniamoci in questo cammino, nel faticoso disegno tracciato per ciascuno di noi, che sapremo cogliere nel silenzio, assecondandone il respiro.
Come diceva Clive Staples Lewis non si è mai troppo vecchi per proporsi un buon obiettivo o per avere un nuovo sogno.
E allora ci scopriremo a sorridere. Perché la fine, a volte, sa farsi ottimo inizio.
Buon anno.
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