19 luglio 1992.
Una data scolpita in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica. Il magistrato aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò i suoi cari per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Alle 17,16 il primo lancio dell’agenzia ANSA. Solo dopo le 18 arriverà la conferma della morte di Borsellino.
Il quale, peraltro, aveva sollecitato la questura da oltre venti giorni affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. Ma la sua richiesta non fu presa in considerazione.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
A noi pare impossibile, ma anche prima delle stragi del novantadue i magistrati Falcone e Borsellino erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati si fece pesante. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
Ormai tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso: i palermitani ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina. Un’operazione solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Oggi molto è cambiato nel volto delle mafie e dei metodi dalle stesse utilizzati.
Secondo l’art. 416bis del Codice penale, la mafia si configura innanzitutto come una forma di criminalità organizzata, segreta, composta di persone, dotata di armi, di eserciti privati e di capitali. Ma le mafie sono anche imprese che possono gestire appalti, servizi e forniture. Sono inoltre delle banche: in un momento in cui a molti i soldi mancano, i mafiosi li hanno e li danno a chi ne ha bisogno e non li trova nel circuito economico legale; si fanno soci di imprenditori che diventano così complici e conniventi con le organizzazioni mafiose. Infine, le mafie possono influenzare il voto, in maniera diretta o indiretta, per ottenere benefici ai loro traffici.
E’ vero che oggi le mafie hanno ridotto la violenza, anche perché ciò che è successo in Sicilia negli anni Novanta – con lo scontro frontale fra Cosa Nostra gestita dai Corleonesi di Riina e lo Stato – ha portato alla sconfitta di quel pezzo di Cosa Nostra: sono stati tutti arrestati, sono morti in carcere, gli hanno portato via buona parte dei loro beni. Oggi la mafia si presenta soprattutto col volto dell’impresa e agisce nei mercati.
In Italia le operazioni finanziarie sospette, di cui periodicamente ci informa la Banca d’Italia, sono in sensibile aumento. Questo indicatore ci dice che la mafia va dove si possono fare affari, dove il denaro circola. Quando i mafiosi arrivano in un mercato, e quindi in un territorio, il loro obiettivo è di monopolizzarlo, di farla da padroni e non di mettersi in un’ottica concorrenziale.
Si rileva inoltre che oggi la mafia dominante non è più Cosa Nostra, bensì la ‘ndrangheta.
Quest’ultima risulta oggi l’associazione mafiosa italiana più pericolosa, caratterizzata da un profondo radicamento, potenza finanziaria e capacità di essere anti-Stato senza sfidarlo apertamente, ma infiltrandosi nei suoi gangli vitali” grazie ad un “rapporto con gli uomini delle istituzioni decisamente meno conflittuale rispetto alla mafia. La forza della ‘ndrangheta risiede soprattutto nella sua struttura familiare, nei legami di sangue che assicurano la continuità delle cosche e l’assenza fino a tempi recenti di casi significativi di collaboratori di giustizia, nonché nel forte consenso nei territori di origine, dove è fortemente radicata.
Va anche notato che Cosa nostra non rappresenta l’unica matrice criminale di tipo mafioso operante nella Sicilia. La DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ha recentemente osservato in uno studio che se nel versante occidentale Cosa Nostra conserva un’immutata egemonia, benché si registri la presenza molto attiva di gruppi criminali di etnia nigeriana operanti soprattutto nel capoluogo, nell’area orientale sono invece tuttora attive compagini storicamente radicate, quali la ”stidda’,’ e altre numerose organizzazioni mafiose non inquadrabili nella struttura di Cosa Nostra. Anche in questo quadrante, inoltre, la mafia nigeriana è ben radicata e particolarmente attiva in diversi settori criminali.
Meno morti non significa minor pericolo, anzi!
Le stragi e gli omicidi accendono i riflettori, suscitano sdegno, invocano indagini e punizioni. Operare nei mercati, esercitare corruzione (attività tipicamente italica anche al di fuori del contesto mafioso), condizionare l’impresa è muoversi sottotraccia, in modo sfuggente, suscitando un minor allarme sociale. E’ attività che sconfina nell’indifferenza dei più.
Le mafie rappresentano una grande holding finanziaria, in grado di operare, seppur in misura differente, sull’intero territorio nazionale e nella quasi totalità dei settori economici e finanziari del Sistema Paese, con un giro d’affari complessivo stimato dall’Eurispes in circa 220 miliardi di euro l’anno. La stessa cifra del tanto richiamato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell’Italia.
Ma non dobbiamo arrenderci.
Non dobbiamo dimenticare che la mafia è anche un modo di pensare e di comportarsi che si fonda sul privilegio e sul favore piuttosto che sul diritto, sull’omertà piuttosto che sulla trasparenza, sull’avere piuttosto che sull’essere. Una delle forze storiche delle mafie è il consenso sociale, un’altra è l’indifferenza. È importante vedere le mafie non solo nell’ambito delle leggi del Codice penale o civile. Le mafie sono una grande questione culturale, politica, economica. Non possiamo delegare questa battaglia solo alle forze di polizia e alla magistratura, agli organi di controllo. Loro devono fare la loro parte, e la fanno anche bene. Dobbiamo però considerare un principio base: la mafia è una forma di criminalità organizzata. Se vogliamo prevenirla, oltre che contrastarla e sconfiggerla, dobbiamo essere organizzati anche noi.
Inoltre non si deve pensare che la mafia sia un affare italiano. Abbiamo avuto arresti e stragi mafiose in Germania, Olanda, Spagna, Francia, repubbliche dell’Est; sono chiari segni che la mafia è già in Europa, oltre che in altre nazioni del mondo. È una realtà da non sottovalutare.
Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma i principi e la responsabilità le persone devono sentirli dentro di sé. Tutto ciò si coltiva con l’educazione e la formazione, che scacciano l’indifferenza.
Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai perse.
Per questo, ancora oggi, Paolo Borsellino è vivo tra noi.
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