Conte ha presentato il Piano Nazionale contro il disseto idrogeologico per l’Italia: “Abbiamo lanciato il piano ‘proteggi Italia’ è il più grande piano contro il dissesto del territorio mai fatto: i suoi pilastri sono emergenza, prevenzione, rafforzamento della governance”. “L’Italia è un Paese fragile, serve una terapia del territorio per proteggerlo e metterlo in sicurezza”.
Detto così non c’è niente su cui dissentire. Bravo potremmo dirgli. E attendere che le azioni previste nel Piano si realizzino. Ma per chi, come noi, ha fatto in precedenza l’esperienza di #italiasicura, per l’appunto la task force dedicata dal Governo Renzi e poi Gentiloni alla prevenzione del dissesto idrogeologico, ci sono alcune cose da puntualizzare.
La prima è l’enfasi. Se tu azzeri una struttura come #Italiasicura che aveva messo a punto davvero il più grande piano nazionale contro il dissesto idrogeologico, non puoi far finta di nulla dopo sei mesi e reinventarti, con nome nuovo, quello che già era stato fatto. E’ un problema di serietà. Di continuità istituzionale.
Diamo alcuni, pochi, numeri. Il Piano di #Italiasicura aveva stanziato per i prossimi sette anni circa 6,3 miliardi, poi inglobava le risorse pari a 1,9 miliardi del Ministero dell’agricoltura per la Forestazione e aveva in corso un prestito con la BEI di 1,2 miliardi. Inoltre disponeva di 2,3 miliardi della vecchia programmazione. Soldi non spesi che dovevano essere avviati a cantiere. E alla data di chiusura di #Italiasicura 1,4 miliardi erano già stati avviati. C’era quindi un Piano che disponeva di risorse per 10,5 miliardi a cui potevano aggiungersi quelle del prestito con la BEI per un totale di 11,7 miliardi.
Inoltre c’erano, presso il Ministero dell’Ambiente, risorse programmabili per circa 600 milioni per anno, molte delle quali contrattate da #Italiasicura con il Ministero dell’Economia e Finanze, che o rappresentavano il fondo base per il prestito o avrebbero potuto essere spese a maturazione per ogni annualità.
Quindi c’era, all’atto della chiusura di #Italiasicura, un grande Piano.
In cosa si differenzia su grandi numeri il “nuovo piano” di Conte? Nell’aggiunta di 2,6 miliardi per il ripristino dei luoghi martoriati dal vento e dall’acqua principalmente nel Nord Italia per gli eventi dell’inverno 2018 destinati alla Protezione Civile che non vanno sotto il titolo della Prevenzione ma più che altro in quella Ripristino in seguito ad una emergenza. Ed infatti bel 760 milioni vanno ad una sola regione come il Veneto. Poi ci sono altre spese previste in tema di manutenzione del territorio o di altre voci di intervento nel campo agricolo e irriguo che o sono di impegno finanziario limitato o riguardano in effetti altre voci tematiche.
Si può quindi dire che in termini finanziari il “grande piano” c’era già. C’è stata una significativa aggiunta di risorse per rispondere ad una emergenza (cosa tipica del sistema italiano che, in media ha dovuto affrontare negli ultimi 20 anni, ben 3 miliardi di danni da rischio idrogeologico ogni anno) e poi la maturazione di risorse che stavano già nei Bilanci pluriennali.
Il grande piano di Conte è quindi, salvo poche differenze, il Piano di Renzi e Gentiloni. Nulla di male. La continuità istituzionale è un bene per il paese. Basta dirlo e non arrampicarsi sugli specchi della Propaganda fine a sé stessa.
Ma il Piano di #Italiasicura non era solo finanziario. Era anche di Governance, di Linee guida per la progettazione e di “metodologia oggettiva” (tecnica) per la selezione dei progetti e il relativo finanziamento.
Anche qui molto dell’impianto precedente è stato accolto e riproposto, con alcune giuste correzioni che facevano già parte del patrimonio di proposte correttive maturate nel corso degli anni durante l’esperienza operativa. Il presidente di Regione come Commissario di Governo, Il Fondo di Progettazione, l’avvio delle gare su dotazioni di competenza e non di cassa, la Piattaforma Rendis per la raccolta dei fabbisogni, un unico Monitoraggio presso la Banca dati del Ministero dell’Economia, un indicatore per “pesare” le singole regioni e così via. L’unico accenno importante di correzione sembra quello relativo a lasciare un po’ di maggiore libertà alla politica rispetto agli indicatori tecnici nel decidere la priorità degli interventi. Come dire “non si può far decidere tutto ad una serie di indicatori”. Questa potrebbe sembrare ai non esperti una posizione di buon senso. E in piccola parte potrebbe essere. Ma non vorremmo che dietro una cosa di buon senso si nascondesse la voglia di ritorno al passato dove non era la rischiosità di un luogo a far decidere la priorità ma piuttosto la vicinanza politica all’assessore, al sottosegretario o al ministro di turno. Questa sarebbe davvero una ferita imperdonabile.
In sintesi si può ben dire che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. E il rimpallo di ruoli fra Ministero dell’Ambiente e Presidenza del Consiglio non promette nulla di buono in quella che sarà poi la gestione operativa del Piano. Speriamo soltanto che, al di là delle parole altisonanti sulla novità, si continui invece con la serietà e l’impegno profusi nei precedenti governi mettendo da parte, almeno per una volta, l’ansia di apparire sempre e comunque i migliori.
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