Dopo la vittoria del 18 aprile 1948, la Dc navigava in acque tutt’altro che tranquille. Aveva conosciuto una vivace dialettica interna già al congresso di Venezia (giugno 1949), e la richiesta di Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira di aprire un “terzo tempo sociale” non poteva essere troppo a lungo ignorata. Vede così la luce una non trascurabile stagione di riforme, dalla revisione dei patti agrari alla creazione della Cassa per il Mezzogiorno, fino al varo dei piani di edilizia popolare patrocinati da Amintore Fanfani. Il suo avvio, però, incontra vivaci resistenze nella destra liberale e nella linea monetarista di Giuseppe Pella, energicamente osteggiata dalle componenti più progressiste del governo. Alcide De Gasperi, insomma, deve fare i conti con una Dc e con alleati divisi e inquieti, peraltro in una fase in cui le tensioni tra i due blocchi -inasprite dallo spettro del conflitto coreano- si riverberano pesantemente sul nostro paese. Lo stato di allerta diventa altissimo, il timore di una terza guerra mondiale è tangibile, le sue ripercussioni economiche aggravano una situazione già problematica. Solo nel 1956, dopo la rivolta d’Ungheria e la crisi di Suez, si percepirà che l’assetto mondiale nato dal crollo del nazifascismo era più solido di quanto non si potesse pronosticare.
Nel 1960 -dopo il fallimento del governo presieduto da Fernando Tambroni- Moro e Nenni gettano segretamente le basi del centro-sinistra (allora col trattino), e concordano le tappe intermedie della nuova formula poltica: astensione socialista sull’esecutivo delle “convergenze parallele” (luglio 1960-febbraio 1962), varato con il voto favorevole del Psdi, del Pli e del Pri; sostegno esterno al successivo governo Fanfani (febbraio 1962-maggio 1963), a cui si dovrà la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media inferiore e l’introduzione della cedolare secca sui titoli azionari. L’intesa tra il quarantasettenne leader democristiano e l’anziano leader socialista era sorretta da un saldo rapporto di stima e di amicizia. Culturalmente molto distanti tra loro, li accomunava l’ esigenza di una svolta riformista per modernizzare il paese.
Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia era cambiata profondamente. Il boom economico aveva trasformato mestieri e produzioni, stili di vita e modelli di consumo. Si diffonde un certo benessere, cala la disoccupazione, i giovani sono più istruiti. Per altro verso, storiche arretratezze -a partire da quella meridionale- e vecchie ingiustizie distributive diventano più stridenti, e suscitano un vivace dibattito sul modello di sviluppo nazionale. Dagli studi di Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini e Francesco Forte fino “Nota aggiuntiva” del ministro del Bilancio Ugo La Malfa (maggio 1962), tutte le diagnosi convergono sulla necessità di assicurare una crescita più equilibrata, valorizzando il ruolo della mano pubblica senza penalizzare quello del mercato.
Necessità posta con forza da Pasquale Saraceno già al convegno democristiano di San Pellegrino (settembre 1961), che sarà letto come una specie di battesimo ideologico del centro-sinistra. Incoraggiato dalle aperture dottrinarie e sociali dell’enciclica di Giovanni XXIII “Mater et Magistra”, l’economista di Morbegno prova a innovare la tradizione del solidarismo cattolico, ipotizzando un compromesso più avanzato tra “libero arbitrio” dell’operatore privato e “azione provvidenziale” del decisore pubblico. Due mesi dopo (novembre 1961), al teatro Eliseo di Roma sei riviste di area liberaldemocratica, radicale e socialista(Il Mondo, l’Espresso, Mondo Operaio, Critica sociale, Nord e Sud, Il Ponte) chiamano a raccolta politici e intellettuali per confrontarsi sui medesimi temi. Tra i numerosi interventi, il socialista Antonio Giolitti spiega come una sinistra moderna deve saper utilizzare le leve statali per orientare il meccanismo d’accumulazione.
L’enciclica giovannea ispira anche la relazione di Moro al congresso Dc di Napoli (gennaio 1962), che ribadisce il primato della politica e il suo irrinunciabile dovere di correggere anomalie e storture del meccanismo di accumulazione. Lo stesso Nenni aveva osservato l’anno precedente: “Nell’ultima enciclica papale sono comparsi i concetti di piano e di socializzazione in una accezione del termine che non è la nostra, ma che tuttavia apre nuove prospettive al movimento sociale delle masse cattoliche. Politica di piano e funzione economica dello stato moderno, nella tutela preminente dei diritti del lavoro e non di quelli della proprietà, sono stati due temi sui quali […] si sono scontrate la nuova e la vecchia generazione politica cattolica” (v. Annale 2012 della Fondazione Feltrinelli).
Di fronte a questo radicale mutamento di scenario, il gruppo dirigente del Pci si divide. La discussione sul nascente centro-sinistra si avvia ufficialmente nel IX congresso del partito (febbraio 1960), prosegue nella conferenza operaia di Milano (maggio 1961), e culmina nel convegno dell’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del capitalismo italiano” (22-25 marzo 1962). Il dissidio si manifesta in modo clamoroso nelle due principali relazioni introduttive (la terza è tenuta da Antonio Pesenti e Vincenzo Vitello) di Giorgio Amendola (“Lotta di classe e sviluppo economico dopo la Liberazione”) e del segretario della Fiom Bruno Trentin (“Le dottrine neocapitalistiche e l’ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana”). Malgrado il comune riconoscimento del passaggio dell’Italia da paese “agrario-industriale” a paese “industriale-agrario”, è nell’analisi dei caratteri specifici di questa trasformazione che si manifesta un profondo contrasto, destinato ad acutizzarsi dopo la morte di Palmiro Togliatti nel 1964 (con l’XI congresso del 1966 come apice dello scontro). Contrasto che segnerà la vita interna del partito per l’intero decennio, fino alla radiazione del gruppo del “Manifesto”.
Amendola, pur riconoscendo una “espansione” dell’economia italiana, ne sottolinea gli aspetti negativi: in particolare, l’aggravamento del divario tra Nord e Sud come dello sfruttamento e del disagio e dei ceti più umili. Contro questo tipo di sviluppo distorto, perché avvenuto sotto la guida e nell’interesse del grande capitale monopolistico, egli propone la “programmazione democratica”, che doveva avere come obiettivo “la ricerca di alcune soluzioni, che non saranno né comuniste, né socialiste, né socialdemocratiche, né radicali, né democratiche cristiane, ma dovranno corrispondere ad esigenze obiettive del paese e rappresentare un momento sia pur limitato del suo sviluppo democratico”. In questa impostazione vengono così a coincidere finalità socialista e funzione nazionale- quest’ultima intesa come modernizzazione di quel “capitalismo straccione” che la borghesia italiana sarebbe per sua natura incapace di realizzare. Di conseguenza, la politica delle alleanze si configura come unione di tutti gli interessi offesi, sia dentro che fuori la fabbrica, dallo strapotere dei monopoli: uno schieramento di forze popolari, composto dai lavoratori subordinati e dai ceti produttivi, piccola e media impresa incluse, che riedita il blocco storico di gramsciana memoria.
Trentin, invece, contesta la tesi del monopolio come sinonimo di immobilismo e stagnazione. Per lui, al contrario, fin dal 1953 la Dc passa dalla linea “malthusiana” del binomio Einaudi-Pella a una linea produttivistica, di cui era espressione il progetto di riforma fiscale firmato da Ezio Vanoni (1954). Dopo un duro braccio di ferro, nella Dc “l’americanismo” Enrico Mattei aveva avuto la meglio sulla sinistra dossettiana. Prevalgono quindi due spinte: all’ammodernamento degli impianti (grazie anche ai crediti del Piano Marshall) e alla riduzione dei costi, sostenuta dall’industria pubblica (idrocarburi e siderurgia) e da una manodopera a buon mercato proveniente dalle campagne meridionali. Vengono perciò gettate le basi di un “neocapitalismo” tarato sui metodi della produzione di massa. Per altro verso, l’ingresso massiccio di operai comuni e di tecnici nelle fabbriche, l’avvento della meccanizzazione (e del fordismo), la poderosa migrazione interna, fanno emergere una inedita coscienza operaia, che sollecitava più contrattazione e più controllo sugli aspetti oppressivi della condizione di lavoro. Una domanda di potere che rimescolava le carte nelle tradizionali priorità delle rivendicazioni sindacali (in primis, salario e qualifiche).
Nella sua replica, Amendola bollò come avveniristiche le posizioni di Trentin e di quanti -come Antonio Banfi, Lucio Magri e Vittorio Foa- avevano criticato la sua posizione, che assegnava al movimento operaio il compito fondamentale di supplire alla latitanza di una borghesia assenteista nella lotta contro le rendite e l’arretratezza del Mezzogiorno. Ciascuna delle due diagnosi, ovviamente, implicava due diverse strategie. La polemica di Amendola contro il monopolio puntava a una democratizzazione del capitalismo di Stato spalleggiata da ampie mobilitazioni del mondo del lavoro, mentre Trentin (e gli “ingraiani”) attribuiva al conflitto industriale un ruolo centrale nella promozione di forme di democrazia economica alternative al corporativismo di matrice cattolica e alla sua teoria dell’impresa come “comunità di interessi”. Tuttavia, se questo secondo approccio risultava certamente più attento ai cambiamenti strutturali della “composizione demografica”, per dirla con Gramsci, forse tendeva a sovrastimare la capacità unificatrice del neocapitalismo italiano, a partire dalla soluzione della questione meridionale.
Mi sia consentito, in conclusione, un ricordo personale. Il mio primo contatto col Pci risale proprio a quel convegno del 1962 destinato a fare la sua storia. Matricola di filosofia alla Sapienza, vi ero stato invitato di straforo grazie alla benevolenza di uno dei relatori. Ora, pur affascinato dall’oratoria e dalla personalità prorompente di Amendola, provate a immaginare lo stupore di un ragazzo, quale io ero allora, di fronte alla relazione di Trentin, che spaziava da Keynes a Schumpeter, dalla Scuola delle relazioni industriali del Wisconsin ai pianificatori francesi. E provate a immaginare la mia sorpresa di fronte a un lessico poltico in cui campeggiavano termini quali alienazione, consumismo, società opulenta, ancora stranieri nella pubblicistica di partito. Per me, che avevo appena iniziato a masticare l’abc del marxismo-leninismo, fu una specie di scoperta dell’America. Solo più tardi mi fu chiaro che, mentre un nuovo ciclo di lotte sindacali bussava alle porte, la compattezza della vulgata marxista cominciava ad incrinarsi, interrogata da correnti di pensiero che non vi avevano mai avuto cittadinanza (l’esistenzialismo, i francofortesi, la psicoanalisi). E che anche in questo clima culturale era maturata l’esigenza di una rinnovata riflessione sui principi teorici, le strategie politiche, le strutture organizzative e gli stessi referenti sociali su cui il Pci aveva fondato il proprio radicamento nel primo quindicennio repubblicano.
Dopo quasi sessant’anni, si può dire che Amendola aveva ragione quando affermava che, per tagliare le unghie alla Dc, era necessario lavorare alla formazione di un partito unico della classe operaia (il sasso nello stagno lo gettò ufficialmente nel 1964, con un articolo su Rinascita). Ma che lo stesso Trentin aveva ragione quando sosteneva che il boom economico non poteva essere interpretato con le tradizionali categorie dell’extraprofitto parassitario e del supersfruttamento operaio: pilastri di un “capitalismo straccione”, appunto, che ormai non c’era più. In ogni caso, sia le suggestioni di Amendola che quelle di Trentin furono frettolosamente archiviate. La morale, a mio avviso, è che in un partito si può restare in minoranza non solo quando si ha torto, ma anche quando le proprie idee -pur fondatissime- sono troppo avanzate per essere comprese e accolte.
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