Le posizioni sull’Europa di PCI e PSI, nel secondo dopoguerra caratterizzato politicamente a sinistra fino al 1956 dal frontismo, furono di contrarietà e opposizione. Quando il ministro degli esteri francese Robert Schuman nel maggio del 1950 propone di creare un mercato comune del carbone e dell’acciaio, sotto controllo di un’Alta Autorità, le sinistre italiane vi vedono, in piena coerenza con le valutazioni dell’Unione Sovietica, solo il predominio del capitalismo monopolistico, il prevalere della divisione dell’Europa e la subalternità agli Stati Uniti. Sfuggono le ragioni che avevano mosso quella proposta, ispirata dalla lezione di Jean Monnet, non fondate esclusivamente su motivazioni di ordine economico, bensì sull’obiettivo, attraverso la condivisione di quelle risorse, tante volte all’origine di guerre, di costruire l’unità politica europea. Certo l’Europa a cui si guarda è ancorata all’Occidente, ad un’alleanza con gli Stati Uniti, ma ha al tempo stesso l’ambizione di giocare con autonomia un ruolo di distensione, di equilibrio e pacificazione nel mondo della guerra fredda. Non a caso nell’ottobre di quello stesso anno il primo ministro francese René Pleven avanzerà la proposta di dare vita a forze armate comuni, la CED, affidate alla responsabilità di istituzioni europee. Non se ne farà poi di niente e quella sconfitta brucia ancora e non poco sul presente dell’Unione Europea. In ogni caso PCI e PSI sono contrari a entrambe le proposte. Con il XX congresso del PCUS e l’invasione sovietica dell’Ungheria la situazione cambia. Il PSI compie la scelta dell’inseparabilità di democrazia e socialismo, si avvicina ai partiti socialdemocratici europei, in Italia prende avvio il percorso della realizzazione di governi di centro sinistra attraverso l’intesa tra PSI, DC, socialdemocratici e repubblicani. Il frontismo è archiviato. Già nel 1953 la direzione del PSI aveva compiuto una svolta rilevante, di fatto accettando la NATO purchè l’alleanza si caratterizzasse come rigorosamente difensiva e geograficamente delimitata. Il 1956 resta come un tornante decisivo nella sinistra italiana: viene definitivamente perduta la concreta possibilità di una riunificazione di tutte le forze di ispirazione socialista anche in prospettiva futura. Quando attorno alla metà degli anni sessanta Giorgio Amendola riproporrà l’idea di un partito unico del mondo del lavoro, socialista e democratico, non se ne farà di niente. Del resto sullo stesso riformismo amendoliano, che seppe anticipare l’apertura di tante porte, contribuendo anche a dischiudere quella dell’Europa, pesava come un macigno la contraddizione del filosovietismo sulle scelte fondamentali della politica estera, fino all’ultimo sostegno, quello all’intervento dell’URSS in Afghanistan. Se nel PCI anziché risultare isolata, fosse prevalsa l’impostazione del segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio, la vicenda delle sinistre italiane di ispirazione socialista avrebbe probabilmente avuto un differente esito ma, come è noto, la storia non si costruisce con i “se e con i ma”. Nella ratifica parlamentare dei Trattati di Roma la divisione tra PSI e PCI risultò lampante: i socialisti votarono a favore dell’Euratom e si astennero sul Mercato Comune Europeo, il PCI fu contrario all’uno e all’altro. Un cambiamento nel PCI sul tema dell’Europa cominciò a manifestarsi all’inizio degli anni sessanta con il convegno dell’istituto Gramsci sulle “Tendenze del capitalismo italiano”, di cui Amendola fu uno dei decisivi organizzatori e dei principali relatori. Naturalmente le svolte non nascono improvvise. Vi era stato negli anni un contributo di analisi in settori della CGIL, soprattutto da parte di uomini come Vittorio Foa e Bruno Trentin. Lo stesso Togliatti- da sottolineare a questo proposito che quando, come spesso accade da noi, la politica occupa gli spazi propri della ricerca storica, singole personalità passano dai trionfi agiografici alla cancellazione acritica, sostitutiva di un esame approfondito di luci e ombre, di apporti positivi e del lascito di eredità negativamente pesanti- in un discorso alla Camera nel 1952 aveva avanzato una sua visione per così dire europeista, per evitare la chiusura del PCI nella sola dimensione nazionale. Quella del leader comunista era l’idea dell’Europa dalla Gran Bretagna agli Urali, una impostazione di pan europeismo lontana a mio giudizio dai concreti processi di costruzione di un’unione politica. Piuttosto mostrava la capacità di intuire l’emergere di segni nuovi nelle relazioni internazionali, il timido venire avanti della distensione. Il convegno sulle “Tendenze del capitalismo italiano” ci mostra come anche per il PCI l’attenzione all’Europa si facesse strada partendo dal confronto sull’economia, dai suoi andamenti e dalle finalità che ci si ponevano, così come in fondo quelle stesse esigenze avevano sollecitato le scelte europeiste dei governi e delle forze moderato-conservatrici e socialdemocratiche anni prima. Il confronto sul capitalismo italiano mostrò anche l’esistenza di impostazioni assai diverse tra chi, come Trentin, poneva più l’accento sulla modernizzazione, sullo sviluppo di un neo-capitalismo sostenuto dalle politiche dei governi DC e chi, come Amendola, tornava a insistere sulle persistenti arretratezze del modello italiano, sull’irrisolto divario storico tra nord e sud e sui compiti del movimento operaio di fronte alle debolezze della borghesia. Per tutti però diventava inevitabile ampliare lo sguardo all’Europa e al mondo, ai legami tra le grandi imprese, alle logiche dell’economia moderna, agli strumenti di una programmazione in un’economia di mercato. Non è un caso che alcuni anni dopo, nel 1965, si terrà un altro convegno sulle “Tendenze del capitalismo europeo”. Come venne notato anche da osservatori esterni per la prima volta, discutendo del capitalismo italiano, fecero apparizione parole estranee ai dogmi del marxismo-leninismo, come società di massa, consumismo, società opulente, venne data un’interpretazione aggiornata dell’alienazione, fece pubblicamente e ufficialmente comparsa Keynes. Sta di fatto che da quel momento inizia un progressivo e graduale riallineamento del PCI all’Europa e Amendola si dimostra il dirigente più sensibile a quelle problematiche: dal rifiuto dell’integrazione si passa alle proposte di modifica dei Trattati, agli obiettivi di riforma, alla battaglia condotta insieme ai socialisti e vinta nel 1969 (mentre solo nel 1976 sarà superato l’ostracismo ad una presenza nell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e nell’Unione Europea Occidentale) per fare parte della rappresentanza italiana nel parlamento di Strasburgo. Sei furono i deputati del Partito Socialista Unitario e sette quelli del PCI: Amendola, che ne fu il responsabile, Nilde Iotti, Mauro Scoccimarro, Silvio Leonardi, Francesco D’Angelosante, Giovanni Bertoli e Agide Samaritani, poi sostituito da Nicola Cipolla. In una intervista a l’Unità Amendola definì storico il traguardo raggiunto, dette ai deputati europei del PCI il compito di impadronirsi della conoscenza del funzionamento delle istituzioni comunitarie, l’impegno a rendere più estesi ruolo e competenze del parlamento, l’obiettivo di ricercare un dialogo e una collaborazione con tutte le forze democratiche e socialiste. Negli anni settanta, come presidente del Centro studi di politica economica, pubblica un bollettino che diviene occasione di informazione costante e di confronto sui temi europei; nel 1971 dà alle stampe il libro “I comunisti italiani e l’Europa”, nel quale espone le linee strategiche nei confronti della Comunità europea, informa sul funzionamento del parlamento e delle altre istituzioni, indica le competenze e le iniziative comunitarie nei diversi campi. Anche a sfogliarlo di nuovo oggi appare con chiarezza l’intento di formazione dei quadri dirigenti e dei militanti che lo aveva ispirato. Era così che allora si intendeva l’impegno politico: non solo studio e approfondimento personale per i dirigenti ma anche preoccupazione e cura per la crescita più estesa possibile di conoscenze e consapevolezza nell’insieme del partito. La dimensione europea diventava parte della strategia complessiva del PCI, anzi il tratto più marcato del suo riformismo e recava con sé la consuetudine al dialogo con le forze socialdemocratiche e progressiste. Al tempo stesso continuò l’iniziativa per conquistare l’elezione diretta del parlamento europeo, traguardo raggiunto nel 1979. Il gruppo comunista e apparentati risultò il quarto come componenti: presidente fu Giorgio Amendola, vicepresidente Altiero Spinelli. Questi due nomi rendono anche simbolicamente evidente l’approdo europeista cui alla fine era giunto il PCI. Possiamo chiederci a conclusione che cosa rese Amendola, più di altri nel partito, sensibile alle problematiche europee e protagonista dell’incontro tra PCI ed Europa. Probabilmente, come ha sottolineato Giorgio Napolitano, il suo rapporto con il liberalismo democratico del padre, vittima della violenza fascista, e con le concezioni di cultura politica di Piero Gobetti. Aveva anche frequentato intellettuali come Benedetto Croce e Giustino Fortunato. Del resto lo stesso Gramsci aveva fatto i conti con l’idealismo di Giovanni Gentile e con Benedetto Croce e per tutta una fase il gruppo dirigente del PCI si era formato con lo storicismo, che aveva quantomeno impedito di interpretare il marxismo come una metafisica materialista. Tema questo fondamentale per capire il PCI e la sua peculiarità ma non certo argomento di questo schematico percorso con il quale ho cercato di richiamare le tappe principali dell’incontro tra comunisti italiani ed Europa e il contributo da protagonista svolto da Amendola. Un contributo che resta patrimonio vivo per le moderne forze politiche progressiste e di sinistra, quale che ne sia il loro nome. Nel XXI secolo non è più possibile il riformismo in un paese solo e questo confinarsi storico delle socialdemocrazie negli Stati nazionali mi appare come una delle ragioni- e non l’ultima- della loro crisi oggi in Europa. Non è realizzabile una riforma del capitalismo e la costruzione di nuove relazioni internazionali fondate su cooperazione e pace se l’Unione Europea non diventa una vera democrazia federale. La sinistra dovrebbe farne la sua priorità. E’ in gioco non solo il suo futuro ma insieme quello del nostro continente.
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