Ormai privo di aspirazioni ad incarichi di partito e istituzionali, e pertanto indotto ad accentuare al massimo la propria proverbiale predisposizione a dire pane al pane e vino al vino, nell’ultimo decennio della sua vita Giorgio Amendola partecipa al dibattito pubblico con veemente schiettezza, dedicandosi appieno ad assolvere inflessibilmente la funzione di coscienza critica del suo partito e della sinistra italiana.
Sono gli anni dell’Amendola battitore libero, un dirigente che dall’alto di una militanza lunga e prestigiosa enuncia, spesso con largo anticipo su tutti gli altri, e senza circonlocuzioni e diplomatismi, analisi in controtendenza, scomode e illuminanti, che in più di un caso producono l’effetto di vere e proprie frustate.
Stanno in questo solco i suoi giudizi sui profili meno convincenti del movimento studentesco, sulle scosse rivendicative dell’autunno caldo, sulla necessità per i comunisti italiani di accreditarsi come forza di responsabilità nazionale e fattore coerente di correzione delle storture recenti e antiche della vita sociale ed economica del Paese, anche a costo di parteggiare per un programma austero di rinunce e di sacrifici che ai ceti popolari non era allora facile né far comprendere né far accettare.
Amendola sviluppa in questa fase un senso acutissimo e precoce dei pericoli che da opposte sponde minacciano alle fondamenta la democrazia italiana, e dispiega a trecentosessanta gradi la sua vocazione a combattere in prima linea, e sovente in solitudine, contro gli inganni insiti nel demagogismo, nelle ricette politiche pasticciate e confuse, nelle indicazioni velleitarie di scorciatoie tanto consolatorie quanto sterili, irrimediabilmente affette, ai suoi occhi, dal culto dell’indisciplina e da una grave mancanza di serietà e di studio, qualità negative che fanno a pugni con l’etica dei doveri individuali e collettivi che per lui rappresentava un elemento imprescindibile.
Sempre più di frequente, entrano nel mirino delle sue invettive, insieme a tutti i compagni e gli avversari politici inclini alla faciloneria e alla superficialità, quegli intellettuali da lui accusati di genuflessione opportunistica o miope alle sgangherate mode del tempo, a parole d’ordine e mistiche pseudorivoluzionarie che gli appaiono per lo più regressive e corruttrici.
Sono prese di posizione che sotto diversi punti di vista costituiscono il logico sviluppo del suo giudizio a caldo sugli aspetti deteriori del Sessantotto («Credo che non serva a nulla dare nella nostra stampa un quadro acritico del movimento studentesco. È necessario richiamare e valorizzare, davanti a un rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche, il patrimonio che abbiamo accumulato in decenni di dure esperienze»).
Amendola, quindicenne al momento della Marcia fascista su Roma e alle soglie dei vent’anni durante l’Aventino e il definitivo insediamento della dittatura alla fine del 1926, porta tragicamente impresse sulla propria pelle le lezioni della storia italiana. Memore di cosa può accadere a un regime democratico quando uomini di cultura e politici delle più disparate tendenze indulgono alla retorica del dileggio incosciente delle libertà «borghesi» e del parlamento, e di quanti danni può provocare un massimalismo di sinistra che in nome della costruzione di un sistema altro si fa spettatore indifferente e quasi lieto di un processo di disfacimento e di marcescenza delle istituzioni liberali, Amendola non si stanca di ripetere che solo salvando la democrazia parlamentare, per quanti limiti essa possa avere, dai suoi nemici e dai suoi irresponsabili denigratori, si può sperare di procedere verso una maggiore eguaglianza e una più larga giustizia sociale.
Amendola nutriva una illimitata repulsione verso ogni suggestione peggioristica, settaria, sovversivistica o insurrezionalista. Certo non gli sfuggiva che lo Stato democratico italiano era segnato da una serie di gravi iniquità. Che era uno Stato tutt’altro che perfetto e ben funzionante, distante anni luce dallo Stato socialista vagheggiato dal Pci. Ma non per questo si mostrava disposto a dimenticare che era pur sempre lo Stato sorto dalla Costituzione antifascista del 1948. Lo Stato che dalla fine degli anni Sessanta si trovava insediato da perniciose trame autoritarie di estrema destra. Da ciò ricava la ferma persuasione che il più grande partito della sinistra avrebbe commesso un peccato mortale avallando direttamente o indirettamente atteggiamenti di neutralità dottrinaria e pratica tra quello Stato e chi a mano armata lo voleva distruggere. Da ciò scaturiva il ben noto “senso dello Stato” di Amendola.
Amendola fu il primo dirigente di vertice del Pci a mettere intransigentemente in guardia contro la nefasta tendenza della sinistra extraparlamentare a legittimare condotte intolleranti e una “violenza verbale” che inevitabilmente avrebbe aperto la strada alla “violenza materiale” (in due interventi, del 4 maggio 1976 sul Corriere della Sera e dell’11 maggio 1976 sull’Unità, per questa compiacenza nei confronti dell’estremismo egli attacca frontalmente Il Manifesto, Lotta Continua e il Pdup, e chiede al Pci stesso di combattere questo andazzo con maggiore fermezza, esortando il proprio partito e il sindacato a svolgere un franco “esame critico ed autocritico”, a superare “carenze, cedimenti, incertezze” nei confronti della malapianta della violenza politica, ricordando che essa, rossa o nera che sia, crea “una atmosfera di confusione e di paura”, e perciò fa sempre il gioco della destra e della reazione, e sottolineando altresì che è dovere della classe operaia agire da “presidio delle istituzioni repubblicane”, le quali, per quanto ancora dirette da gruppi conservatori, sono pur sempre le istituzioni nate da una Costituzione democratica che il Pci ha approvato, e per rendere possibile la quale ha combattuto la Resistenza e sopportato sacrifici enormi).
Amendola fu allo stesso tempo anche il primo a lanciare con eccezionale ruvidità ammonimenti perentori circa i pericoli determinati da lotte sindacali troppo corporativistiche ed estreme per essere compatibili con il mantenimento di livelli sostenibili di inflazione, di efficienza, di debito pubblico, di coesione sociale, di sviluppo e di produttività industriale.
Nella visione di Amendola, i lavoratori italiani e il partito che ne organizzava la maggior parte dovevano essere la trincea più avanzata nella difesa della Repubblica da ogni forma di violenza eversiva.
Salvare l’ordine sociale e politico democratico era la cosa più importante da fare in Italia se si volevano evitare svolte reazionarie (il compromesso storico lo appoggiò su queste basi). In tali circostanze migliorare il funzionamento delle istituzioni esistenti con un’«opera di risanamento e di trasformazione» era a suo giudizio la più rivoluzionaria delle azioni praticabili (Rinascita, 7 dicembre 1979).
La matrice di questo filone tipico del pensiero amendoliano è già rintracciabile nella sua spesso richiamata relazione al convegno dell’Istituto Gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano (23-25 marzo 1962), laddove per rimediare alle distorsioni dello sviluppo economico nazionale egli raccomanda l’adozione di una “programmazione democratica” avente come obiettivo fondamentale «la ricerca di alcune soluzioni, che non saranno né comuniste, né socialiste, né socialdemocratiche, né radicali, né democratiche cristiane ma dovranno corrispondere ad esigenze obiettive del paese e rappresentare un momento sia pur limitato del suo sviluppo democratico».
Questo complesso di radicate convinzioni e di consolidate condotte costituisce il retroterra della polemica che nel 1977 contrappose Amendola a Leonardo Sciascia.
Lo scontro divampò quando Sciascia, in un articolo sul Corriere della Sera del 12 maggio, si mostrò comprensivo verso i sedici cittadini torinesi che, presi dalla paura dopo essere stati estratti a sorte come giudici popolari nel processo contro le Br di Curcio, si erano rifiutati di prendervi parte presentando certificati medici che li attestavano afflitti da sindrome depressiva (quasi un centinaio saranno gli uomini e le donne che con identiche motivazioni si sottrassero al sorteggio, e solo la fierezza di pochi non renitenti, tra questi il segretario del Partito Radicale Adelaide Aglietta, minacciata di morte, permise infine la formazione della giuria e la regolare prosecuzione del procedimento penale a carico dei capi storici delle Brigate Rosse. Il 9 marzo 1978 nell’aula presso l’ex caserma Lamarmora di Torino il portavoce dei brigatisti alla sbarra Maurizio Ferrari lesse un truce comunicato nel quale si affermava: «Quel manipolo di linciatori di Stato chiamata giuria non è che la feccia … L’accettazione della Aglietta è un infortunio patetico… Le mimose non ingannano più»).
L’intervento di Sciascia, che tre mesi prima, all’inizio di febbraio, essenzialmente per la sua netta contrarietà alla linea della solidarietà nazionale, si era dimesso dalla carica di consigliere comunale di Palermo alla quale era stato eletto nel 1975 come indipendente nelle liste del Pci, si poneva in sostanziale consonanza con quello del senatore a vita e Premio Nobel Eugenio Montale (3 maggio, intervista con Giulio Nascimbeni, sempre sul Corriere della Sera) che già era stato criticato da Italo Calvino (Corriere della Sera dell’11 maggio; ad avviso di Calvino era estremamente pericoloso il fatto che «…il nostro massimo poeta… ci esorti a fare nostra la morale di Don Abbondio»; per Calvino bisognava avere «paura della paura» e «ridare coraggio anche a chi l’ha perduto»).
Sciascia scrisse: «non vorrei entrare in una giuria – e specialmente in una giuria chiamata a giudicare quelli che si usano dire delitti contro le istituzioni, contro lo Stato. Così come non capisco che cosa polizia e magistratura difendano – e l’ho già scritto altrove – ancor meno capirei che io, proprio io, fossi chiamato a fare da cariatide a questo crollo o disfacimento di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi – e così via, coi titoli che vediamo ad ogni avvenimento tragico accendersi sui giornali – sono soltanto parole. C’è una classe di potere che non muta e che non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito o contribuire a riconfermarla: che sarebbe come scegliere per sempre, per me, quella che i medici hanno diagnosticato ai giurati di Torino come “sindrome depressiva” (…)».
Sul tema, pur senza riferirsi direttamente all’episodio in questione, disse la sua anche Norberto Bobbio (La Stampa, 15 maggio) La reazione di Amendola, comparsa sull’Espresso del 5 giugno 1977, fu drastica, “tanto pesante da poter essere considerata una botta”, affermò Sciascia (La Stampa, 9 giugno). Intervistato da Gianni Corbi, Amendola si espresse in questi termini: «Le dichiarazioni di Sciascia e Montale mi hanno addolorato, ma per nulla sorpreso. Il coraggio civico non è mai stata una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana. Non dimentichiamoci che durante il fascismo era diffusa tra molti intellettuali (che pure non erano fascisti e nutrivano anzi sentimenti democratici) la pratica del “nikodemismo”: la quale consisteva nel rendere sempre il dovuto omaggio a Cesare – cioè al regime – riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà. Speravamo che dopo la Resistenza e le dure lotte di questi anni quel vecchio comodo costume fosse scomparso per sempre. M’illudevo. E infatti vedo riaffiorare l’antico vizio in forme naturalmente diverse. Le dichiarazioni di Sciascia e Montale sono profondamente diseducative poiché vengono pronunciate proprio nel momento in cui tutti gli italiani sono chiamati a dar prova di coraggio civile, ognuno nel posto che occupa. (…) Preannunciare una sconfitta sicura quando la battaglia è ancora in corso significa, a mio parere, non essere pessimisti, ma semplicemente disfattisti».
L’ultima parte del ragionamento di Amendola era riservata a Bobbio, che nel sopracitato articolo, intitolato Il dovere di essere pessimisti, aveva detto: «mi pare impossibile che la fine della prima repubblica italiana possa essere evitata (…) Potremo continuare ad avere uno Stato senza avere la democrazia. Potremo avere insieme la fine della repubblica e la continuazione dello Stato (…) l’uomo di ragione nella drammatica situazione in cui versa il nostro Paese ha il dovere di essere pessimista. Il pessimismo oggi (…) è un dovere civile».
Sciascia controbatte le critiche di Amendola in un affilato articolo sulla Stampa del 9 giugno, accusando il dirigente comunista di essere animato da uno spirito liberticida e inquisitorio che lo induce a definire coraggioso chi la pensa come lui e vile chi la pensa diversamente: «Chi dentro un partito comunista ha attraversato senza scendere da cavallo lo stalinismo e l’antistalinismo, una giustificazione del suo restare a cavallo deve pur darsela e dare».
La controreplica di Amendola arriva per mezzo di un lungo intervento sull’Unità di domenica 12 giugno 1977 dal titolo programmatico: Difendere la Repubblica. «(…) Quando si tratta di esaminare la situazione non conviene essere né pessimisti né ottimisti, ma realisti, vedere le cose come stanno e non come si vorrebbe che fossero, lottare per trasformarle, ma considerare sempre con lucidità i rapporti di forza e prevedere, perciò, con la maggiore approssimazione possibile, i tempi ed i mezzi del mutamento. (…) Disfattista non è soltanto colui che spera il peggio. Non ho mai pensato che Bobbio volesse il peggio. Ma anche colui che nel cuore di una battaglia non si limita ad indicare gli ostacoli da superare, ma alimenta la sfiducia nelle possibilità della vittoria, anche se non lo vuole, contribuisce a diffondere scoramento ed anche, tra i più vili che non mancano mai, il panico. (…) chi come Sciascia considera che la battaglia che noi conduciamo si riduce “a stare dietro la porta – la porta della democrazia cristiana”, e crede, non riconoscendosi in questo Stato, che bisogna non trasformare o edificare, o “murare” come si dice, ma “rifare dalle fondamenta” usando “materiali più adatti”, si pone obiettivi diversi e contrastanti con quelli posti dall’intero movimento operaio italiano (e non solo dal PCI). Egli non cerca di impedire la fine della Repubblica. Egli dichiara, anzi, di non voler levare un dito in sua difesa, perché ne augura la distruzione. Non è il solo. E non deve offendersi se viene considerato un disfattista della causa repubblicana. Disfattista non è un’ingiuria. Siamo stati tutti disfattisti contro il regime fascista ed abbiamo lottato per la sua distruzione e per la disfatta dell’imperialismo fascista. Avevano perciò ragione i fascisti a chiamarci disfattisti. Oggi intendiamo, invece, difendere lo Stato repubblicano, anche se ne vediamo esattamente le piaghe create dalla mancata piena attuazione della Costituzione e dal trentennale predominio della DC. Contro questo Stato è in corso un’offensiva disgregatrice, che si svolge a diversi livelli, con l’uso del terrore, con la violenza armata (attentati, sequestri, scontri a fuoco, devastazioni, autoappropriazioni), con l’opera di denigrazione e di calunnia (…) noi lottiamo per la difesa e la trasformazione dello Stato repubblicano e pensiamo che vi sono in Italia le forze necessarie per vincere questa battaglia. Sciascia invece vuole la distruzione di questo Stato e dà il suo contributo all’opera in corso per la sua demolizione. È un suo diritto, ma se ne assuma tutte le responsabilità politiche».
Infine a Sciascia risponderà anche Edoardo Sanguineti (l’Unità, 26 giugno), che nel momento in cui scrive è consigliere comunale di Genova, eletto nel 1975 come indipendente nelle liste del Pci (al pari di Sciascia): «tu esorti non soltanto gli “uomini di lettere”, non soltanto gli “intellettuali”, ma tutti i cittadini di questa Repubblica, non dico a non rischiare la pelle per questa Repubblica medesima, ma a non alzare un dito, in suo favore. Li esorti a dimettersi da cittadini. Perché la Repubblica è fradicia. E insinui l’idea che la classe operaia, che i lavoratori, che i partiti politici che li rappresentano, abbiano oggi l’intenzione di difenderla così com’è».
Tocca così l’acme una contesa destinata a far epoca, anche grazie alla decisione di Domenico Porzio e di Mondadori di raccoglierne i testi in un volume dal titolo Coraggio e viltà degli intellettuali.
Ad alimentarla era stata una radicale disparità di vedute in relazione a quanto potessero dare di positivo e a quanto meritassero di essere difese le istituzioni democratiche italiane del tempo. Su questo punto il divario tra Sciascia e Amendola, dirigente di un partito in quel momento impegnato in una difficile azione di sostegno al governo Andreotti III nell’ambito della solidarietà nazionale, era incolmabile, ben più grande di quello, già rilevante, manifestatosi in un contraddittorio tra i due pubblicato cinque anni prima da Mario Pendinelli sul Mondo.
Come Amendola, e non solo su questa questione, la pensava invece Luciano Lama, il quale, intervistato da Mario Pirani in pieno sequestro Moro (la Repubblica, 7 aprile 1978), si espresse in questi termini: «Il dissenso nelle nostre file è più che legittimo e così la critica al governo e al malgoverno. Ma non è questo il punto: lo Stato rappresenta valori costituzionali essenziali e in primo luogo le libertà democratiche e sindacali che ci siamo conquistati. Per questo pensiamo che coloro i quali abbracciano lo slogan “né con lo Stato né con le Br” non possano far parte della federazione unitaria: o se ne vanno o debbono essere messi fuori».
Il riferimento di Lama è a un fatto di stretta attualità: una decina di giorni prima, il 27 marzo, sei portuali del collettivo del porto di Genova erano stati espulsi dalla Cgil per aver distribuito un volantino con la dicitura Né con lo Stato, né con le Br.
Ma, qui giunti, si dovrebbe parlare del dibattito che nel mondo politico e intellettuale ebbe luogo dopo la strage di via Fani. Tema cruciale, che però esula dai confini di questa ricostruzione.
Lascia un commento