E’ stata dura, ma dopo una lunga riunione del governo assistito dalle più vivaci menti dei Cinquestelle pare guidate da Carlo Sibilia, l’uomo delle scie chimiche, e da Barbara Lezzi, studiosa dell’effetto dei condizionatori sul PIL, è stato definito un metodo, scientifico e quindi assolutamente neutrale, per stabilire se vada o meno reintrodotto lo scudo penale per gli amministratori di ILVA di Taranto.
Sul tavolo del consiglio dei ministri sarà segnato da un lato SI e dall’altro NO e il premier Conte, l’avvocato del popolo, scandirà, sotto il controllo di un notaio, le sillabe della filastrocca, e dove cadrà il CO’ finale lì sarà la decisione ponderata.
Ma anche se dovesse uscire il SI alla reintroduzione, quando le hai rotte, le uova sono impossibili da aggiustare: l’abolizione dello scudo penale ha fatto riaprire la vicenda ILVA, dimenticando che l’ averla ceduta – in un contesto favorevole di mercato – era stato un miracolo e l’unica cosa che avrebbe dovuto fare Giuseppe Conte era andare in pellegrinaggio con l’intero governo a S. Giovanni Rotondo a rendere grazie a San Padre Pio, del quale è notoriamente un devoto.
Doveva vigilare – quello che mai era stato fatto nei quarant’anni precedenti – sull’attuazione del Piano di risanamento ambientale dovuto ai cittadini di Taranto per il quale erano stati previsti investimenti per 1,1 miliardi, oltre ad investimenti produttivi per 1,2 miliardi e al prezzo della cessione fissato in 1,8 miliardi di euro (detratti i canoni di affitto versati): il piano di risanamento aziendale che senza un soggetto responsabile resterà lì inattuato, con le bonifiche che non si fanno, come testimonia Bagnoli.
Gli scenari di mercato dall’assegnazione sono radicalmente mutati: i risultati trimestrali del gruppo hanno evidenziato un aumento della perdita a 539 milioni di euro – 2 milioni di euro al giorno – per condizioni di mercato difficili nel terzo trimestre, con prezzi dell’acciaio in ribasso e costi elevati della materia prima grezza, così che diventa indispensabile secondo l’azienda ridurre i costi e contenere la produzione.
La soluzione – uscire da ILVA – è stata servita su un piatto d’argento con la rimozione dello scudo, preteso dai commissari straordinari, viste le iniziative “creative” della magistratura che in più faranno chiudere l’Altoforno 2: tanto più che uscire da ILVA è condizione per l’assegnazione del rating ha dichiarato Moody’s, e la mancanza di rating rende più costoso se non impossibile il finanziamento del gruppo.
E se anche non dovesse uscire le condizioni per proseguire sono tre: primo, il ripristino dello scudo legale; secondo l’autorizzazione a ridurre di circa 5 mila unità i dipendenti di ILVA e la produzione-obiettivo da sei a quattro milioni di tonnellate; terzo l’approvazione di una legge che permetta di tenere aperti gli altoforni sotto esame della magistratura per ancora 14-16 mesi.
Il premier-avvocato del popolo ha già detto che farà causa e porterà in tribunale l’azienda, mentre il ministro degli esteri Luigi di Maio in visita presso l’amico Ping (che esporta acciaio in dumping ambientale) ha dichiarato che Arcelor – Mittal va obbligata a restare, forse allertando i carabinieri.
Ma tutti sono lì a gridare che il piano industriale deve essere realizzato ed è affermazione giusta ma parziale perché il piano, elaborato formulando serie previsioni di medio-lungo periodo, deve adeguarsi ai cambiamenti negli scenari di mercato: forse i nostri esperti grillini hanno studiato le esperienze di economia pianificata dei paesi dell’Est , i cui risultati possono essere riassunti nel crollo del muro di Berlino e nella fine dell’URSS.
E se i privati non ci stanno, bene si nazionalizza l’acciaio, che peraltro non era stato privatizzato per una ossessione neoliberista (povero Calenda, in suo autodafé in materia è stato penoso) ma per i disastrosi risultati delle imprese pubbliche.
In proposito è di estremo interesse un documentato studio di R&S redatto venti anni fa che ha calcolato che l’IRI complessivamente all’epoca aveva generato debito pubblico per 72.000 miliardi di vecchie lire (40 miliardi di euro) e che l’acciaio – dedotti gli incassi dalla privatizzazioni – aveva concorso per circa 14 miliardi di euro.
Nazionalizzare ILVA vuol dire mettere in conto 1 miliardo di euro annui di perdita: son soldi che verranno a mancare per i giovani, per le pensioni minime, per servizi essenziali. Ma si dice occorre trovare un partner privato (che accetta di rimetterci soldi) e poi Cassa Depositi e prestiti che ovviamente non guadagnerà dall’investimento, mettendo a rischio i rendimenti del risparmio che gli italiani affidano alle Poste
Colpisce la natura associativa del delitto di rimozione dello scudo che ha portato a questi esiti: l’altalenante posizione della Lega che oggi si erge a paladina di Taranto e del suo acciaio, lo smarrimento del PD che tra pulsioni ambientaliste e cedimenti al populismo non è più paladino del lavoro, del lavoro che cambia, del lavoro che assicura dignità all’uomo, e si condanna all’irrilevanza politica, il machiavellismo intorcinato di Renzi che vota la fiducia al decreto che toglie lo scudo ma grida che non se ne può fare a meno.
Sarà possibile portare di nuovo Arcelor – Mittal a trattare? La strada per salvare il lavoro a Taranto ed assieme assicurare il risanamento ambientale e stretta e tutta in salita.
Ma a Taranto ed in Puglia stanno tranquilli: il rais della Regione ha già pronta l’alternativa, tutti a Grottaglie a lavorare alla stazione spaziale per i voli suborbitali.
E noi siamo ancora ancora qui a parlar d’acciaio…
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