Ha fatto bene Visco a parlare di produttività. In un mercato aperto se tu vuoi competere, e non ce la fai, hai due possibilità. E una via di uscita. La prima possibilità è la svalutazione della moneta. La comunità paga, in maniera abbastanza distribuita fra i cittadini, la minore capacità di creare valore con prezzi più bassi di vendita e prezzi più alti di acquisto per i beni e servizi scambiati con il resto del mondo. C’è un impoverimento reale del paese ma l’economia tiene. La seconda possibilità è l’abbassamento dei costi dei fattori produttivi, fra cui il lavoro è il principale elemento di manovra. Ma ci possono essere anche altri elementi su cui agire come il costo dello stato, con minori tasse, o il costo del denaro attraverso una politica di bassi tassi di interesse. La via di uscita è invece l’incremento della produttività. Produrre cioè più valore a parità di risorse impiegate.
Fuori da questa tastiera c’è poco da battere. E, allora, è su questi temi che occorre discutere per il rilancio del paese. Perché, passata la sbornia dei soldi distribuiti a destra e manca attraverso “ricchi premi e cotillon”, ci sarà poi da parlare e più che altro da attuare il rilancio del paese. Pena, il lento ma inesorabile, declino che di felice avrà molto poco.
Andiamo per esclusione. La svalutazione della moneta non è più nelle nostre corde. Era semplice e apparentemente indolore. Ed in fondo anche abbastanza democratica, nel senso che colpiva più o meno tutti. Anche se con effetti differenziati in caso di successiva crescita dell’inflazione interna. Ma non c’è più, inutile indugiare.
Ci sarebbe la decrescita delle tasse ma, per essere incisiva sui rendimenti d’impresa, dovrebbe essere significativa. Ma con un debito oltre il 130% del Pil e in crescita dopo il Covid 19 non c’è neppure da parlarne. Come appare difficile ridurre in maniera forte il costo della macchina statale. Si tratta di due cose, il taglio delle tasse e la riduzione delle inefficienze dello Stato, che possono essere fatte come segnale al paese, ma non possono essere al momento elementi che aumentano la competitività del paese.
E allora restano soltanto, cosa che è stata fatta in questi anni, la riduzione del costo del lavoro, anche con l’immissione nel sistema produttivo di larghe fasce precarie o sottopagate, e la tenuta a basso livello del costo del denaro. Ma tutto ciò non è stato sufficiente a spingere in alto competitività e la crescita economica. E allora rimane oggi, come opzione strategica, solo l’aumento della produttività dei settori sottoposti alla competizione internazionale ma anche dei settori a contorno, sia pubblici che privati, che altrimenti gravano sul sistema con la loro inefficienza.
E qui il tema si fa complesso e controverso. Se usiamo la formula per cui la Produttività è funzione del Kapitale e del Lavoro, a capitale dato, non resta che “sfruttare” di più il lavoro. È questo lo schema che hanno in mente certi sindacalisti quando gli parli di aumentare la produttività. Il “pluslavoro” è duro a morire.
In effetti, senza sfogliare tutte le possibili formule sulla Produttività aggregata di un sistema produttivo, è possibile sostenere che ci sono tre elementi su cui agire senza intaccare la suscettibilità dei sindacalisti.
Il primo è il passaggio da quantità prodotta a qualità intrinseca e percepita dal mercato. Gli spazi, anche nei mercati tradizionali e maturi, sono immensi. Bisogna, da parte delle imprese, capire che in mercati maturi e ricchi si vendono sempre di più “messaggi” e sempre meno” beni fisici”. E allora occorre lavorare al rafforzamento delle imprese in quei campi in cui, per esempio in regioni come la Toscana, non c’è una tradizionale attenzione. E quindi non c’è una forza capace di valorizzare i prodotti. Il marketing non può essere la costruzione del sito web con la foto sorridente dell’imprenditore che abbraccia i propri dipendenti. Ma c’è un mondo là fuori che attende prodotti personalizzati. E chi arriva a farli vince.
Il secondo è l’assorbimento da parte dei sistemi di produzione, quindi strumenti e organizzazione, dei materiali, dei beni e dei canali di vendita di quantità crescenti di scienza, ricerca e tecnologia. Non basta più pensare a macchine che doppiano o triplicano la quantità di prodotti per unità di personale. È un modo nuovo di pensare alla produzione nel nuovo mondo digitale, dell’intelligenza artificiale, dei nuovi materiali, della stampa a 3d e di altre innovazioni emergenti.
Il terzo è legato alla dimensione aziendale che non è più la fabbrica, il capannone con dentro uomini e mezzi, ma è il sistema relazione che l’impresa è in grado di co-governare attraverso una rete di relazioni che vanno dalla dipendenza, alla co-progettazione, alla collaborazione fino alla fornitura. Non si esce dal problema dimensione. Il grosso del valore aggiunto non si raggiunge più con la produzione fisica ma con il “controllo” dei sistemi che producono valore. E per controllare i sistemi ci vogliono imprese evolute in grado di poter disporre delle figure professionali più avanzate, dei sistemi tecnologici più innovativi e delle relazioni di potere più pervasive.
Qualità, Scienza e Dimensione sono tre importati driver per la crescita della produttività di un sistema produttivo. E coinvolgono, in primo luogo, il luogo centrale, nevralgico, di una economia avanzata e cioè l’impresa. Non si tratta di vedere l’impresa come un soggetto benefattore da premiare per il ruolo svolto. Ma di vedere come e chi può svolgere oggi tale ruolo nevralgico. Certo non la piccola impresa isolata. Che è una componente importante, specialmente nella sua capacità di dare movimento in entrata e flessibilità al sistema, ma da cui è difficile aspettarsi particolari incrementi di produttività.
Certo non la grande impresa isolata. Che ha sicuramente un effetto benefico ma che non fertilizza l’area economica in cui è inserita se non attraverso un’azione sulla fornitura e subfornitura allorquando non si tratta di prodotti ad alta standardizzazione.
E allora occorre puntare, come si cercava di dire in precedenza, sull’impresa di media dimensione interna ma di grande relazionalità esterna. Sia essa un’impresa di produzione, di distribuzione o addirittura di servizio. Cioè di una impresa che per l’alto livello di interscambio, in parte significativa rivolto all’interno dell’area in cui opera, svolge una funzione di diffusione della conoscenza, di innalzamento degli standard di qualità produttiva e di innovazione tecnica e tecnologica. È a questo “parco di campioni” che una politica nazionale e regionale deve guardare con attenzione. Quindi non un sostegno generico all’impresa ma piuttosto alle reti di scambio, di collaborazione e di intensificazione dei contatti anche fuori dal mondo strettamente produttivo (si pensi alla ricerca, ai servizi, alla pubblica amministrazione, alla formazione etc) per rendere il territorio regionale più fertile e più capace di innovazione diffusa.
Insomma l’incremento della produttività non è nel nostro sistema economico il risultato di una applicazione produttiva dentro la fabbrica. Ma è il risultato di un’azione collettiva, di avanzamento di tutti gli attori territoriali, ma con la guida di soggetti capaci e innovativi in grado catalizzare gli sforzi di una comunità. Altro che “estrazione di pluslavoro”.
riccardo catola
Perfetto Mauro, però chi è che fin qui ha fabbricato statistiche in cui si decantava la superiore produttività del lavoratore italico?
Livio
Concordo su tutto. Da qui bisogna però partire per proporre strumenti che incentivano ad andare nella direzione di aggregare aziende, fare investimenti in tecnologie di processo ecc. La leva del vantaggio fiscale e della riduzione del carico fiscale che grava sul costo del lavoro può essere davvero efficace