I numeri parlano chiaro. Nei 30 anni che vanno dal 1989 al 2019 l’Alitalia solo due volte ha avuto un bilancio in attivo. Negli ultimi 10 anni la perdita complessiva è stata di 10 miliardi. Nel solo 2019, secondo la relazione trasmessa al Parlamento dal commissario Leogrande, il buco, senza considerare tasse e interessi, è stato di 443 milioni.
Dal 2017 ad oggi il Governo ha versato nelle casse della compagnia di bandiera una valanga di milioni sotto forma di prestito-ponte, 600 milioni a maggio del 2017, altri 300 ad ottobre dello stesso anno ed infine 400 a gennaio 2020. Prestito, perché i soldi avrebbero dovuto essere resi, ponte perché dovevano servire a trovare a trovare una soluzione di mercato, vale a dire un compratore che rilevasse l’intera azienda.
Pervicacemente infatti il governo giallorosso, ma onestamente la stessa cosa l’avevano fatta anche tutti gli Esecutivi precedenti, ha tentato di rilanciare Alitalia come compagnia di bandiera tanto da rifiutare un’offerta di Lufthansa che si era detta disponibile all’acquisto previo un taglio di dipendenti, aerei e rotte.
Nel giro di qualche mese però, a fronte di un progressivo aggravarsi della situazione, tutti hanno capito che l’ambizione di tenere unita la compagnia era solo un sogno e che i soldi elargiti nel frattempo non erano né un prestito, tanto che il Governo dopo aver tentato di posticipare più volte la data della restituzione ha addirittura rinunciato ad averli indietro, né che quelle elargizioni erano un ponte verso la vendita perché, come ha dovuto riconoscere lo stesso Presidente del Consiglio Conte, “una soluzione di mercato non esiste”.
Ora un nuovo tentativo di vendita, ed è il quarto nel giro di due anni e mezzo. Entro il 18 marzo dovranno essere presentate le manifestazioni di interesse. Ma perché questa volta le cose dovrebbero andare meglio visto che Alitalia perde qualcosa come due milioni al giorno? Perché per la prima volta il Governo, capita la lezione, ha ammesso la possibilità di vendere la compagnia non tutta insieme ma a pezzi, cosa che fino ad oggi era sempre stata tassativamente esclusa.
A parte che una decisione del genere, e non ci voleva una grande intelligenza, poteva essere presa nel 2017, cosa che avrebbe fatto risparmiare agli italiani il quasi miliardo e mezzo di quelli che avrebbero dovuto essere dei prestiti-ponte, resta il fatto che non ci poteva essere un momento peggiore per tentare di nuovo la vendita.
Causa coronavirus, tutte le compagnie aeree stanno registrando un calo delle prenotazioni che varia dal 50 al 70% e di conseguenza una contrazione del traffico e dei ricavi. Ad Alitalia quei 400 milioni “regalati” a gennaio, e per i quali si attende ancora il giudizio della Commissione europea sul fatto che quei soldi siano o meno un aiuto di Stato (e lo sono), potrebbero addirittura non bastare per arrivare a maggio quando la procedura innescata per la vendita si dovrebbe concludere, sempre ammesso e non concesso che si faccia avanti qualcuno. Così, per non fare fallire la compagnia, cosa che chissà perché è sempre stata vista come una iattura da tutti i governi di qualsiasi colore fossero, si potrebbe assistere all’ennesima decisione, assurda, indecorosa e offensiva per le tasche degli italiani, di gettare altri soldi nel pozzo di San Patrizio della compagnia di bandiera.
Con il solo risultato di procrastinare una fine che è già segnata da anni e che l’insipienza della nostra classe politica, di tutta senza nessuna esclusione, ha cercato di nascondere.
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