Le Regioni all’Assemblea Costituente
All’Assemblea Costituente il dibattito si articolò fondamentalmente tra due posizioni: la prima favorevole alla introduzione delle regioni come enti politici dotati di poteri legislativi, la seconda che, per il timore di mettere a repentaglio l’unità nazionale – optava per regioni concepite come enti di decentramento amministrativo, chiamate cioè ad esercitare solo compiti amministrativi attribuiti e controllati dallo stato.
Tema rilevante anche in quella sede il ruolo delle province, basti pensare che il Testo definitivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione:diceva (Art. 107) “La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni. Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale” salvo concludersi con il testo approvato in via definitiva che recitava “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”
L’VIII disposizione transitoria della Costituzione stabiliva poi i)che «le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali” dovessero essere indette “entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione», ii) che “Leggi della Repubblica” avrebbero regolato «per ogni ramo della pubblica amministrazione il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni». Altre leggi avrebbero, inoltre, disciplinato «il passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato».
la IX disposizione transitoria stabiliva che la Repubblica, «entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione», avrebbe adeguato «le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni».
Il percorso di attuazione
Nonostante diverse proposte di legge cercassero di attuare queste disposizioni, prevalse la scelta di
rinviare la loro entrata in funzione: nel dibattito politico sul percorso regionalista pesava una opinione pubblica indifferente e di una incertezza generale sul tipo di regionalismo da attuare rispetto allo schema aperto della carta costituzionale.
La Democrazia Cristiana, pur restando favorevole alle Regioni, temeva che dopo, il ribaltamento della posizione delle sinistre, ormai dichiaratesi anch’esse favorevoli, si producesse una rottura nel paese con la possibile vittoria avversaria nelle regioni rosse del centro Italia. Di qui la posizione più attendista e la predilezione per una visione più accentratrice. Era la la “politica dei tempi lunghi”, indispensabile per consentire «di approvare prima e meditatamente il complesso delle leggi-quadro in grado di conferire alle regioni quel carattere amministrativo che le avrebbe inserite a pieno titolo nel sistema degli enti locali».
Il disegno di legge presentato dal Governo il 19 dicembre 1948, che divenne nel 1953 nel 1953 la c.d. Legge Scelba, si limitava, principalmente, a fissare le modalità per le riunioni del Consiglio regionale, compresa la prima, per l’elezione del Presidente e della Giunta, per l’adozione e la pubblicazione delle deliberazioni; regolamentava la nomina e l’attività del Commissario di governo e della Commissione di controllo sugli atti amministrativi delle regioni; rinviava, infine, la più puntuale organizzazione agli statuti regionali e regolamenti assembleari.
All’interno della stessa Democrazia Cristiana ci fu opposizione che spingeva per una più precisa regolamentazione legislativa per definire, specialmente, i limiti dell’attività delle Regioni e i “controlli” cui doveva essere sottoposta, con l’aggiunta di un elenco dettagliato delle materie «che avrebbero dovuto essere disciplinate dalla legge nazionale prima di dar vita alle regioni.
Dopo altre modifiche , il testo finale disciplinava principalmente la potestà statutaria, la composizione e il funzionamento degli organi regionali, i controlli sulle Regioni e di queste sugli atti degli enti locali.
Si affermò il “prudente criterio di gradualità” secondo il quale si sarebbe potuto compiere il percorso di nascita delle Regioni.
La Legge Scelba rispondeva sicuramente ad una filosofia ampiamente riduttiva delle funzioni regionali, interpretate nei loro connotati amministrativi. Dati questi limiti, la normativa venne largamente abrogata in coincidenza con l’approvazione degli Statuti delle regioni ordinarie.
Negli anni successivi diverse proposte attuative non arrivano a conclusione che miravano a ridurre spazi per l’autonomia regionale sia sul piano finanziario che su quello delle competenze con il riproporsi dello scontro scontri tra autonomisti e contrari, tra attendisti e chi voleva accelerare il processo.
Il cammino verso l’attuazione del dettato costituzionale riprese con la nascita dei governi di Cento-Sinistra diventando un punto importante del programma del IV Governo Fanfani del febbraio 1962, formato da DC, PRI e PSDI, con l’appoggio esterno del PSI: c’erano tuttavia ancora remore della Democrazia Cristiana per il timore che le alleanze PCI-PSI in molti Comuni potessero essere riproposte nei governo regionali.
Nel I Governo Moro[1] del dicembre 1963 il tema regionale ritornò al centro del programma politico anche in vista di una estensione del metodo della programmazione per superare i divari ancora esistenti nel Paese, in particolare quello tra Nord e Sud.
Il 21 giugno 1967 il Ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, presentò alla Camera un disegno di legge poi approvato come legge elettorale regionale (Legge 17 febbraio 1968 n. 108): aveva termine il lungo dibattito politico tra i sostenitori delle elezioni a suffragio universale e diretto e coloro che sostenevano elezioni indirette di secondo grado affidate ai consiglieri provinciali, con la scelta delle elezioni dirette: a promulgare la legge fu il Presidente della repubblica fu Giuseppe Saragat.
La Legge n. 108 (“Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale”) concluse il suo iter parlamentare con il voto favorevole dei partiti di governo (DC, PSI, PRI e PSDI), oltre che delle opposizioni di sinistra (PCI e PSIUP), e il voto contrario di PLI, MSI e monarchici.
Il 22 maggio 1970 fu pubblicata la Legge 16 maggio 1970 n. 281 (“Provvedimento finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario”), c.d. legge finanziaria per le regioni a statuto ordinario.
La normativa esprimeva una impostazione “restrittiva” dell’autonomia finanziaria regionale in contrasto con il dettato dell’art. 119 della Costituzione, non consentendo alle regioni di istituire tributi propri pur nei limiti dei principi statali: senza successo fu l’opposizione delle sinistre, in particolare del PCI, che presentarono una propria proposta di legge.
Le elezioni regionali
Il 6 e 7 giugno 1970 si tennero le prime elezioni regionali, con una altissima partecipazione 28,6 milioni di votanti ( 92,5%) su 30,9 milioni di elettori.
I risultati ci restituiscono il panorama politico del tempo: DC 37,8; PCI 27,9; PSI 10,4%; PSDI 7,0%, MSI 5,2%; PLI 4,7%; PSIUP 3,2%; PRI 2,9%; PDIUM 0,7%: la DC era primo partito in tutte le regioni a statuto ordinario con l’eccezione di Emilia Romagna, Toscana e Umbria.
Emersero carismatici presidenti regionali, tra essi in particolare si ricordano Piero Bassetti (DC) in Lombardia, Guido Fanti(PCI) in Emilia Romagna e Lelio Lagorio (PSI) in Toscana.
Con l’elezione dei Consigli Regionali del 1970 le Regioni entrarono nelle storia istituzionale italiana, provvedendo subito alla propria fase costituente con l’approvazione degli Statuti.
Gli Statuti vennero promulgati il 22 maggio 1971, ad eccezione di quelli dell’Abruzzo e della Calabria dove i ritardi erano stati provocati dalla scelta del capoluogo di regione, promulgati nel luglio: L’Aquila e Reggio Calabria furono percorse da violenti tumulti.
A completare il quadro normativo per l’avvio del regionalismo italiano intervenne la delega per la definizione delle funzioni, degli uffici e del personale da trasferire ai nuovi Enti, con delega al Governo ad emanare, entro due anni dalla sua entrata in vigore, dei decreti aventi valore di legge ordinaria per regolare il passaggio alle Regioni delle funzioni previste dall’art. 117 della Costituzione oltre che del relativo personale statale, con effetto, per quanto riguardava “il trasferimento delle funzioni amministrative”, dall’1 aprile 1972, data dalla quale sarebbe iniziato l’esercizio da parte delle Regioni delle funzioni trasferite.
Iniziava la lunga storia delle regioni, segnato da un permanente conflitto con l’amministrazione centrale che spesso portava al giudizio della Corte Costituzionale, con successivi ampliamenti di competenze e poteri, in tema di sanità, con la frettolosa riforma costituzionale del titolo V nel 2001 con l’ampliamento dissennato delle competenze concorrenti, del tentativo di riordino nella riforma costituzionale del 2016 bocciata nel referendum, nelle tensioni tra regioni che rivendicano maggiori poteri con il progetto di autonomia rafforzata, fino alla caotica gestione dell’emergenza Coronavirus.
I tempi di un bilancio
Nell’opinione pubblica si è diffuso un giudizio liquidatorio: per tutti si cita un articolo apparso su il Fatto Quotidiano[2]
“Le Regioni sono da chiudere. Da abolire. Da buttare nel cestino dei panni sporchi. Le Regioni sono la causa della nostra condizione economica, sono il luogo dove per ogni euro che si spende cinquanta centesimi se ne vanno in porcherie (o quasi). Le Regioni non hanno dignità istituzionale, e neanche identità. Con la nascita delle Regioni il debito pubblico è salito vertiginosamente. Non una delle materie affidate alle Regioni sono adempiute con efficienza ed efficacia. Il regionalismo è divenuto il luogo di compensazione delle sotto-correnti, di potentati locali più o meno irrispettabili, la casa di ambiziosi e volgari crumiri della politica”
Serve un giudizio franco, libero da pregiudizi, da condanne senza appello come da inutili difese d’ufficio. Per questo Solo Riformisti intende offrirsi come spazio libero per raccogliere valutazioni ed opinioni meditate e nel contempo vuole sollecitare interventi di esponenti politici.
Per il primo intervento si ringrazia il professor Alessandro Petretto, sicuramente un profondo conoscitore del tema.
[1] Aldo Moro nel 1960 aveva presieduto la “Commissione di studi per l’attuazione delle Regioni di diritto comune”, istituita con lo scopo di studiare le modifiche alla normativa del 1953 e di elaborare un progetto sul finanziamento delle Regioni.
[2] Antonello Caporale “Le Regioni sono da chiudere, da buttare nel cestino dei panni sporchi” 27 settembre 2019
Alessandro Fabbri
La mia visione non è verso l’abolizione delle regioni ma verso una Federazione Regionale e contemporaneo cambio del Sistema del Partitismo o partitocratico che dir si voglia in Primarie Istituzionale prendendo buona parte dell’esperienza bisecolare, con le modifiche migliorative intervenute nel tempo, degli USA