Si era già approfondito nella scorsa puntata di come il BelPaese viva spericolatamente e da anni con un altissimo debito pubblico, seppur, allo stesso tempo, sia particolarmente virtuoso in termini di debito privato, occupando l’ambitissima ultima posizione nei Paesi dell’eurozona. Quando si parla di debito, è infatti bene distinguere tra debito pubblico e debito privato, il primo è riferito allo Stato, il secondo a famiglie e imprese: dalla somma di questi due settori, rileviamo il vero indebitamento totale dell’economia di un Paese e il reale senso di preoccupazione che ne dovrebbe derivare.
La fotografia che emerge dall’ultimo rapporto dell’ IIF (Institute of International Finance) sul debito globale al primo trimestre 2023 è piuttosto preoccupante e vanifica i progressi annunciati pochi mesi fa nel rapporto di fine anno.
La fredda cronaca: l’ammontare complessivo del debito contratto nel mondo da Stati, imprese, banche e famiglie ha superato i 300.000 miliardi di $ (il record di sempre è a 304.900 miliardi di $), in crescita di 8.300 miliardi nel solo primo trimestre 2023. A soffiare sul fuoco del debito complessivo ci sarebbero prevalentemente i Paesi emergenti per la prima volta nella storia sopra i 100mila miliardi.
Quanto dobbiamo preoccuparci? I fronti di rischio ci sono e sono molteplici. Una buona parte di questo indebitamento è piuttosto recente: nel 2020 e nel 2021 per affrontare l’emergenza pandemica i Paesi hanno fatto ampio ricorso alle politiche fiscali. Ma anche le restrittive politiche monetarie delle Banche centrali stanno complicando lo scenario. L’accesso al credito si fa sempre più difficile, ma le famiglie consumatrici, soprattutto quelle americane ed europee, non intendono cambiare il loro tenore di vita, (almeno così sembrerebbe per ora), scatenando di fatto un corto circuito pericolosissimo: si indebitano di più, non calano i consumi, l’inflazione rimane alta e le banche centrali sono costrette a “rincorrere” la situazione, con continui rialzi dei tassi. E le prime avvisaglie di tensione si sono già parzialmente verificate con la crisi delle banche regionali americane.
Ci sono però anche altri rischi che aumentano il livello di guardia: l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei costi sanitari e le notevoli lacune nei finanziamenti per il climate changecontinuano a mettere sotto pressione i bilanci pubblici di tutte le principali economie mature.
In più, per non farci mancare nulla, il fragilissimo contesto geopolitico ha costretto i maggiori Paesi occidentali ad uno stanziamento extra in termini di spese per la difesa, che ovviamente gravano sul debito pubblico.
Anche la stabilizzazione del rapporto debito globale su Pil mondiale (ad oggi attorno al 335%) non induce all’ottimismo: l’esplosione dell’inflazione ha di fatto gonfiato il valore nominale del PIL e quindi ridotto automaticamente il rapporto. Senza questo livello di inflazione così alta, per dirla in parole povere, sarebbe molto più in accelerazione. (Per carità, il rapporto a marzo 2021 era anche arrivato al 361%, ma depurato, appunto dell’effetto inflazione).
È dunque un epilogo mesto ad attenderci? Dipende. Rispetto alla grande crisi del 2008, il rafforzamento del sistema creditizio è decisamente evidente e più rassicurante. Concentrandosi solo sugli USA ad esempio (da dove poi tutto partì…), le istituzioni finanziarie americane rappresentano un debito pari al 78% del Pil, molto inferiore al livello del 110% della crisi del 2007-2008. E questo, come detto, è un ottimo punto di partenza. Ma temo che ancora una volta la risposta dovrà arrivare proprio e ancora dagli USA, dove la recente apertura dell’amministrazione democratica per trovare soluzioni condivise con l’opposizione sul tetto al debito pubblico, fa pensare che, parafrasando Flaiano, la situazione è davvero grave, ma anche seria (semicit.)
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