Mettere la parola PACE nel logo elettorale, come hanno fatto Giuseppe Conte e Michele Santoro? Magari porterà voti, ma è un inganno. Sollecita demagogicamente una visione superficiale della realtà. Perché la pace non è un valore universale, ma un fenomeno storico, cioè altamente relativo. Può essere giusta o ingiusta, equa o iniqua, concordata o imposta.
Pace, per i milanesi del 1848, avrebbe significato piegarsi alle forche di Radetzky. Per gli europei del 1940, arrendersi all’impero totalitario di Hitler. Per i popoli asiatici e africani del secondo dopoguerra, accettare il dominio coloniale dei bianchi. Pace, per gli ucraini, vorrebbe dire oggi sottomettersi all’invasione dei russi. Per gli israeliani accordarsi con un nemico che li vuole cacciare “dal fiume al mare”. Per i palestinesi accettare quella che da sempre ritengono un’usurpazione della loro terra. Per i curdi vivere sotto il tacco feroce di Erdogan. Per i musulmani dello Xinjiang morire nei campi di rieducazione del Partito Comunista Cinese. Per le donne iraniane subire il controllo sanguinario della polizia religiosa.
Spesso si sente dire, nelle piazze occidentali, che “una pace ingiusta è meglio di una guerra giusta”. Ma bisognerebbe capire cosa ne pensano coloro che soffrono le conseguenze, non di rado terrificanti, della “pace ingiusta”. Perché una cosa è certa: la pace può essere la morte della libertà dei popoli e dei diritti degli individui.
8questo articolo, con il permesso dell’autore, è ripreso da www.nagora.org)
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