Di fronte al processo, urgente e al tempo stesso travagliato, della costruzione di una unità politica reale dell’Europa, in parole chiare di una democrazia federale che si ispiri a grandi linee a quella degli Stati Uniti d’America, ci si imbatte, non solo dal punto di vista teorico ma nell’azione concreta, con gli ostacoli rappresentati dalle identità nazionali. In questa espressione si confondono due termini da tenere invece distinti: identità culturali, storiche, di tradizioni risalenti alla pluralità dei popoli europei ed esistenza di Stati nazionali gelosi delle loro prerogative, di poteri vecchi, messi in mora non dall’avanzare della costruzione di una democrazia federale ma dai tempi che viviamo, da una globalizzazione che unifica finanza, economia, commerci, comunicazione e presenta sfide inedite nella ricerca e utilizzazione delle innovazioni tecnologiche come nella ridefinizione degli equilibri mondiali. Succede spesso ai popoli del vecchio continente di riscoprire nelle crisi il valore di un sentimento europeo che li accomuna: è successo così al sorgere dell’idea stessa d’Europa quando la Grecia si oppose ai persiani, rivendicando il suo patrimonio di libertà e democrazia contro il dispotismo asiatico. Così è stato in tempi recenti, quando quella che oggi è l’Unione Europea mosse i primi passi, dopo la Seconda guerra mondiale, ponendo a suoi fondamenti la pace, la cooperazione tra i suoi popoli, l’opposizione ai totalitarismi. Le crisi fanno emergere i tratti positivi di una storia che ha conosciuto non solo luci ma ombre pesanti: i conflitti sanguinosi combattuti gli uni contro gli altri, che oggi ci appaiono guerre civili, l’intolleranza che ha perseguitato chi aveva fedi religiose e culture di minoranza o idee diverse nella scienza come nella politica. In Europa si è sviluppato l’antisemitismo, si è consumata l’ineguagliabile tragedia della shoah, hanno preso avvio, nel secolo appena alle nostre spalle, due conflitti mondiali. Ma sempre qui, nel nostro continente, si sono affermate e diffuse poi nel mondo le idee di libertà, uguaglianza, solidarietà della Rivoluzione francese, la concezione di valori umani fondamentali, da assicurare ovunque, la critica ai colonialismi, l’opposizione ai totalitarismi, la necessità di arricchire gli ordinamenti liberaldemocratici con contenuti inseparabili di giustizia sociale ed uguaglianza, quantomeno nelle opportunità di vita. Nei mesi immediatamente alle nostre spalle la risposta dell’Unione all’epidemia di covid e ancor più l’aggressione della Russia di Putin all’Ucraina, le idee geopolitiche di Trump, sciaguratamente possibile futuro presidente degli USA, hanno contribuito a diffondere un sentire europeista che nei popoli si era assai indebolito.
L’Europa, tuttavia, non può affidare il suo futuro al solo sentimento di comunanza solidale che si ravviva nel timore di aggressioni, nell’insicurezza di scoprirsi isolata, nelle sfide che incombono. Deve avere consapevolezza dei problemi da affrontare, coesione nei valori che la caratterizzano, chiarezza nel suo progetto di futuro e sul suo ruolo nel mondo. In questo quadro la pluralità dei popoli non ostacola il cammino dell’unità politica, mentre lo ritarda e complica la pretesa degli Stati nazionali di esercitare una sovranità in ambiti non più alla loro portata: politica estera e di difesa, presenza nel consiglio di sicurezza dell’ONU, macroeconomia. I paesi europei conoscono una fase di gelo demografico, hanno ancora uno sviluppo economico, pur diseguale tra nazione e nazione, nel suo insieme significativo nel mondo, una spesa militare consistente nella sua globalità ma insignificante utilizzata com’è nelle logiche ristrette dei singoli confini statualnazionali, un peso diplomatico irrilevante, fatto di concorrenze reciproche e di sogni tramontati. In Africa è presente soprattutto la Cina, in alcune nazioni ci sono mercenari e interessi russi, in altre un ritorno, ma certamente non di primo piano, degli Stati Uniti: bisogna avere consapevolezza che un ruolo diretto dell’Unione Europea non è delegabile ad altri né sostituibile con politiche di presenza di singoli Stati. Incombe davanti a noi la spietata, ma non infondata, definizione data da Henry Kissinger: l’Europa è un gigante economico, un nano politico, un verme militare!
L’esito da costruire non si propone certo la scomparsa degli Stati nazionali: si tratta piuttosto di ridefinirne le funzioni, così da evitare il declino dell’Europa, la sua eclissi tra i protagonisti del XXI secolo e la riduzione della sua democrazia a involucro formale. La resistenza degli Stati nazionali a cedere sovranità in materie non più governabili in quella dimensione è fatta propria dalla destra europea e trova un suo baluardo principalmente ad est, nei paesi usciti dalla sovranità limitata imposta a suo tempo dall’Unione Sovietica, ma anche in nazioni come la Francia o i Paesi Bassi. Del resto, lo stesso federalismo americano non ha cancellato l’esistenza degli Stati che lo costituiscono né loro competenze significative in campi quali la sanità, la giustizia, l’assistenza sociale, le politiche industriali. La democrazia federale non abolisce gli Stati che la formano né annulla la loro sovranità ma la delimita ai settori che non esigono un governo e funzioni sovraordinati. Né gli Stati Uniti sono formati da una sola etnia, cultura, fede religiosa o nel presente da una sola lingua: accanto all’inglese veleggia ormai lo spagnolo. È una concezione delle destre reazionarie quella di Stati formati da una sola etnia, cultura, religione. Ciò che unifica in un popolo il pluralismo etnico, culturale e religioso negli USA sono la Costituzione, il sogno americano di un’elevazione sociale possibile a tutti, la visione del ruolo da svolgere nel mondo.
Le nazioni europee sono vissute a lungo all’interno di questo orizzonte protettivo garantito dagli Stati Uniti: ora non è più possibile. L’egemonia statunitense è messa in discussione e il mondo, nella rideterminazione in corso dei suoi equilibri, non sarà a trazione unipolare. L’Europa è parte dell’Occidente ma ha una sua specificità culturale, storica, politica e suoi interessi da fare valere, senza illudersi di poterli delegare. Il suo percorso di costruzione di una democrazia federale sovranazionale può ispirarsi ma non ricalcare quello statunitense. La prospettiva di un’Unione è nata dopo i disastri delle guerre fratricide e si è sviluppata attraverso vie pacifiche di condivisione. Ha progressivamente coinvolto, con una libera adesione, una pluralità di popoli, da secoli radicati in territori, la cui ricchezza di culture e tradizioni non è annullabile od omologabile, ma necessita di trovare una sintesi attorno a valori resi comuni. La Costituzione ne sarebbe una base imprescindibile ma quella elaborata sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing e Giuliano Amato fu affossata dai referendum in Francia e Olanda e, pur non andando rimossa dall’agenda politica, non è nell’immediato all’ordine del giorno. I valori comuni da cementare riguardano la libertà, la democrazia e lo stato di diritto, una politica estera e di sicurezza fondata non sull’aggressione ma sulle capacità autonome di difesa. Una politica estera e forze armate europee sono nell’urgenza del presente realizzabili attraverso la cooperazione rafforzata tra governi, così come è stato per la moneta unica, affidandone direttamente la responsabilità alla Commissione e persuadendo la Francia, unico paese tra i 27 membri dotato di armi nucleari, a rendere il suo rappresentante nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU espressione delle posizioni dell’Unione. È nella prospettiva di una riforma delle Nazioni Unite l’unica via per non mettere in discussione un domani la stessa presenza francese nel Consiglio di Sicurezza e al tempo stesso consente di compiere oggi i passi necessari caratterizzandoli di una gradualità concreta, quella indispensabile a dare le gambe ai grandi disegni politici. Altrettanto indispensabile è una riforma del governo europeo che superi il blocco decisionale imposto da votazioni unanimi e la costruzione di un bilancio dotato anche di risorse proprie, lungo la linea delle proposte avanzate di recente da Mario Draghi. Senza esclusioni pregiudiziali, si tratta di procedere per realizzare una difesa e una politica estera europee tra quegli Stati disposti a trasferire in queste materie sovranità all’Unione: ovviamente sono indispensabili Germania, Francia, Italia e Spagna. Chi oggi non è disposto a compiere questo passo resterà nel quadro di un’Unione con le regole, le competenze e i poteri oggi esistenti, mentre potrà anche nascere quel terzo cerchio, proposto dal presidente Macron, di una Confederazione delle nazioni in via di adesione, dai Balcani, all’Albania all’Ucraina, con vincoli di solidarietà e doveri di difesa.
I popoli, tuttavia, si uniscono attorno a valori e politiche coerenti non a regole e procedure. L’Unione ha bisogno di realizzare basi fiscali comuni, bandendo i paradisi che ancora vi si nascondono, e di attuare le priorità indicate: transizione ecologica, innovazione digitale, welfare. Non sono sufficienti le locomotive economiche se tra le nazioni federate persistono disuguaglianze abissali nello sviluppo, nel reddito, nel costo del lavoro. La democrazia vive di coesione sociale, responsabilità individuale e collettiva, diritti comuni. Se all’interno dell’Unione esistono trattamenti salariali diversi per lavoratori, tecnici e impiegati di una stessa impresa multinazionale, nei suoi centri di produzione collocati in varie nazioni, o possono liberamente verificarsi delocalizzazioni produttive mosse da intenti finanziari speculativi, allora non le identità culturali dei suoi popoli ma un liberismo incontrollato mina le basi dell’Unione, così come le rende più fragili non estendere a tutti i giovani studenti l’Erasmus, a causa dei costi che pesano sulle famiglie, o non varare. dopo la formazione, un Erasmus di prima occupazione.
Un’ultima considerazione riguarda il rapporto tra democrazia e religioni in Europa. Permane da noi, per il nostro passato, dalle guerre di religione al potere temporale della Chiesa, una concezione della laicità datata nel XIX secolo, espressione allora del progressismo liberale. Si fonda su due pilastri: la reciproca autonomia tra Stato e confessioni religiose e la non cittadinanza di queste ultime nella sfera pubblica. La fede è convinzione privata, da serbare nel segreto dei cuori. La Francia, con le sue leggi, anche recenti, di divieto alle persone di mostrare simboli di appartenenza religiosa, è per così dire l’emblema di questa interpretazione della secolarizzazione e della laicità. In questo senso l’Europa occidentale è un caso a sé rispetto non solo al resto dei continenti, ma alle stesse democrazie come gli Stati Uniti. Una concezione della secolarizzazione e della laicità datata e segnata da positivismo, marxismo dogmatico e liberismo, non regge più: il pilastro della non ingerenza reciproca tra Stato e religioni resta fondamentale, ma la pretesa di relegare nel privato le fedi religiose è spazzata via dal corso della storia. Basta guardare il mondo intorno a noi, senza occhi velati da pregiudizio. Non affrontare e risolvere in termini nuovi il rapporto tra democrazia e religioni rende fragili gli ordinamenti liberaldemocratici esistenti e ancor più i fondamenti su cui edificare in Europa un nuovo assetto federale. Non solo i singoli credenti, ma le confessioni di fede in quanto tali hanno il diritto-dovere di far sentire la loro voce nella sfera pubblica. Certo devono accettare le sue regole, diverse da quelle proprie delle comunità religiose. Lo Stato democratico si riferisce ai cittadini non privilegiando le fedi o le culture che professano né il loro mutare nel corso della vita. Lo spazio pubblico non si regge sulla fedeltà a dogmi, ma sul principio di maggioranza, determinato dalla libera espressione del voto. Le Costituzioni segnano non solo l’uguaglianza di diritti e doveri della cittadinanza, ma le norme rispetto a cui convinzioni religiose o atee sono accettabili nell’esperienza di vita. Un esempio per tutti: comunque motivate, sono inammissibili le mutilazioni genitali femminili praticate ancora in una trentina di paesi al mondo. È compito della democrazia europea organizzare gli spazi di una presenza pubblica anche delle religioni, garantendo il pluralismo delle fedi, il diritto alla pratica dei culti, favorendo opportunità di dialogo tra religioni e culture umanistiche, vigilando sugli orientamenti di vita trasmessi. Sono l’accoglienza e le regole democratiche quelle da privilegiare, non il rifiuto ideologico, anche nei confronti delle nuove comunità di religione islamica: bisogna assicurare la formazione europea degli imam e che il sermone che orienta la vita dei credenti il venerdì sia pronunciato nella lingua del paese in cui si vive. La nascita di un islam europeo, plasmato nel quadro del pluralismo di fedi, culture e della democrazia, può suscitare effetti trainanti sull’islam arabo, con cui l’Europa è chiamata a costruire relazioni. I diritti umani fondamentali non si devono dimenticare e ovunque bisogna pretendere che siano rispettati, ma questo risultato è affidato anche alla coerenza di quanto da noi si realizza e dal rigore con cui non si amputano in una sorta di politiche di rivalsa. La sinistra ha nello scenario europeo l’opportunità di risorgere a protagonista delle riforme economiche, di uno sviluppo guidato da innovazioni tecnologiche e sostenibilità ecologica, della giustizia sociale, libertà, pluralismo e della realizzazione di una democrazia federale. Gli Stati Uniti d’Europa devono diventare un valore guida come furono il Risorgimento nell’Ottocento e la Resistenza contro fascismo, nazismo e ogni totalitarismo nel Novecento, un valore da rivestire di passi concreti, graduali ma da compiersi subito, per portarli a compimento.
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