Danilo Breschi intervista il prof. Vittorio Emanuele Parsi (1961), professore ordinario di Relazioni internazionali nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica di Milano, saggista, editorialista del Foglio e conosciuto commentatore in molte trasmissioni televisive e radiofoniche. È direttore di ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali), socio della SISP (Società Italiana di Scienza Politica) e membro dell’Advisory Board di LSE ideas (Center for Diplomacy and Strategy at the London School of Economics).
- Com’è noto a tutti, per motivi di salute, diciamo così, Lei ha dovuto assentarsi per qualche tempo dall’osservazione e analisi quotidiana degli eventi politici nazionali e internazionali. Dopo questa pausa forzata, che impressione ha avuto? Qualcosa è cambiato all’esterno, oppure è il suo approccio allo studio ad essere mutato?
La drammaticità dell’esperienza attraversata è anche la sua estensione temporale. Sono stato per 42 giorni in ospedale senza di fatto aver le forze per accedere alle fonti e sapere cosa succedeva attorno a me. Sono stato 9 giorni in coma, una quindicina in terapia intensiva, per cui il tempo di sospensione è stato lungo. Questo cosa ha generato, per quanto mi riguarda? Per molti aspetti il rafforzamento della consapevolezza che i cimiteri sono pieni di persone che si ritenevano insostituibili, come diceva Charles de Gaulle (parafrasando Georges Clemenceau), per cui io potevo essere tranquillamente, o sono stato molto vicino ad essere una di queste persone con sopra una lapide. Sui temi che commento di più, ho visto che alla fine il dibattito italiano fa una fatica enorme a schiodarsi dalle posizioni pregiudiziali. Nei fatti, non è un vero dibattito. Questo lo pensavo prima, a maggior ragione lo penso adesso. Ciò significa che, al massimo, ed è in tal senso che ho sempre cercato di orientare la mia attività pubblica, quel che si può aspirare a fare è utilizzare le occasioni di dibattito pubblico per cercare di fornire un’interpretazione a chi ascolta. Dunque non prendere queste occasioni come un momento di sfida, una tenzone con l’interlocutore, secondo una brutta prassi ormai imperante nel nostro Paese, ma fare del dialogo ciò che consente di argomentare una posizione a beneficio dei terzi. Si è pertanto rafforzato quel che è stato sempre il mio modo di ragionare, che risale a decine di anni fa ormai.
In più, quando arrivi ad un passo dalla morte, o anche due o tre, e poi ti riacciuffano, sperimenti la gravità delle cose e la pesi. Cosa intendo? Non che l’oggetto su cui rifletti non sia grave – io spesso mi ritrovo, purtroppo, a parlare di guerra, fenomeno grave e devastante quant’altro mai –, ma il fatto che chiunque sia il tuo interlocutore è sempre bene soppesare le parole, fare attenzione al loro uso, non parlare al solo scopo di prevalere. È importante, fondamentale, il dibattito, ma non è appunto questione di vita e di morte e occorre dare ad ogni cosa il suo giusto peso.
Infine, in ospedale, nelle mie condizioni di persona che non era in grado di fare nulla, affidato alla benevolenza di medici, infermieri, operatori socio-sanitari, addetti alla pulizia, ho sperimentato il fatto che c’è una naturale empatia tra gli esseri umani. E questo è un formidabile motivo di speranza. Siamo davvero animali sociali che ci autodefiniamo in rapporto con gli altri. Si è rafforzata così la mia idea che la democrazia, con tutte le sue imperfezioni, è il regime politico che più valorizza questo elemento, l’empatia, rispetto a tutti gli altri sistemi fin qui inventanti. Di conseguenza è per me diventato ancora più importante, quasi urgente, condurre una lotta intellettuale a favore di questa democrazia così spesso sottovalutata e maltrattata.
- Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, parlando a un ristretto gruppo di giornalisti, ha lanciato un appello ai 27 Paesi dell’Unione Europea: «Credo sia estremamente importante – ha detto – ribadire il nostro pieno sostegno all’Ucraina», aggiungendo che «gli ucraini hanno bisogno di più munizioni, di più armi, di più supporto militare» e che per la nazione ucraina «esiste solo un piano A ed è la vittoria». Insomma, secondo Michel è necessaria una difesa comune europea, tanto da dirsi favorevole alla creazione di un fondo da 100 miliardi. Lei cosa pensa al riguardo?
La difesa europea è una cosa seria e importantissima, a condizione che non sia utilizzata, come spesso avviene nel dibattito politico italiano, al fine di scivolare su ben altro. È anzitutto necessario un coordinamento politico animato da unità di intenti, che può anche essere espresso a livello intergovernativo, anche se evidentemente la possibilità di spostarsi sul livello comunitario significherebbe istituzionalizzare quanto fino ad oggi è stato una faticosa prassi. La difesa della sovranità nazionale degli Stati membri passa attraverso una maggiore capacità dell’Unione europea di fornire un contributo in tal senso. La sovranità europea aggiunge sovranità a quella degli Stati membri, non la sottrae. L’aggiunge nel senso che, ogni volta che riusciamo ad essere coordinati, come singolo Stato membro guadagniamo un bonus di sovranità che altrimenti, da soli, non avremmo. Tutti insieme possiamo invece disporne.
Il tema della difesa comune europea comporta anche un discorso culturale: la consapevolezza che il mondo è cambiato. Quel mondo che, non a caso, ha favorito il grande salto politico dell’Unione europea, da Maastricht agli allargamenti, corrispondeva ad un’epoca post-Guerra Fredda. Un mondo comunque inserito all’interno di una struttura unipolare del sistema internazionale e di una leadership americana che non aveva sostanzialmente alternative. Dentro un siffatto contesto è cresciuta la costruzione politica europea. Ora tutto questo non c’è più. Ammesso e non concesso che ci sia ancora un sistema unipolare, è estremamente fiacco, per cui siamo sicuramente in una fase di transizione. Forse siamo ancora attaccati ad un po’ di unipolarismo, ma non è più quello degli anni Novanta e dei primi Duemila. La leadership americana non è più incontestata. Ci sono sfidanti che sono autocrazie, minacciose nei fatti. La guerra in Ucraina dura da due anni. Il Medio Oriente è in fiamme. Taiwan è una questione aperta. Pertanto l’Europa ha bisogno di fare che cosa? Di essere in grado di esercitare deterrenza nei confronti di un vicino che non è minaccioso in teoria. La Russia ha attuato da due anni a questa parte politiche drammaticamente minacciose, perché palesemente belliche, che in realtà risalgono a molti anni prima.
Di fronte a tutto ciò, se l’Europa non è in grado da sé di contenere e respingere questa minaccia, risulta estremamente fragile. Il fallimento dell’Europa sfocerebbe in un duplice esito: da un lato, un potenziale servaggio nei confronti della Russia, che ha sempre di più caratteristiche simili a quelle dell’Unione Sovietica, non in termini di ideologia comunista, ovviamente, ma di inferno orwelliano; dall’altro, il ritorno della conflittualità tra gli Stati, che è esito purtroppo compatibile con il primo, se non consequenziale. È per queste due ragioni che il tema della difesa comune europea è primario. Bisogna vincere il tabù culturale secondo cui il perseguire la pace non esclude il prepararsi all’opzione peggiore, ma proprio per poterla scongiurare. Armarsi non significa andare in guerra, ma evitare di essere trascinati in una guerra, com’è accaduto per l’Ucraina.
- Passiamo ad Occidente, all’estremo Occidente: gli Stati Uniti d’America. Con i suoi 81 anni Biden sarà il candidato più anziano nella storia americana e Trump, con i suoi 77, gli è soltanto secondo. Tuttavia, la percezione del popolo americano pare diversa. Ad apparire anziano e confuso è solo il primo, che certo di gaffes ne ha inanellate a raffica, anche ultimamente, nominando ex leader europei defunti, descrivendoli come colleghi contemporanei e ha scambiato l’Egitto con il Messico, ma non dimentichiamo che anche Donald Trump non è da meno. Ad ottobre ha elogiato il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, per la sua leadership in Turchia. Più di recente ha confuso Nikki Haley e Nancy Pelosi. Ebbene, cosa dobbiamo aspettarci dalle prossime elezioni presidenziali americane? Ancora prima dell’esito, a preoccupare è la mancanza di ricambio di classe dirigente in quella che è ancora la prima superpotenza mondiale. Mancanza reale, o solo apparente? Nel senso: negli USA contano di più le cariche elettive, oppure altre figure non elette e meno esposte mediaticamente, come i vertici del Pentagono o lo staff del Dipartimento di Stato, per fare qualche esempio?
Se comparato con altri, il sistema politico americano è quello in cui le cariche elettive contano maggiormente. L’esempio classico è la capacità del presidente eletto, cioè in carica, di modificare pesantemente la struttura della Corte suprema. Lo abbiamo visto con Trump, che ha avuto la possibilità di orientare la Corte in senso ultraconservatore. Si è infatti registrato un arretramento in materia di diritti civili, in particolare delle donne e, in prospettiva, delle persone Lgbtq+. Se pensiamo agli altri sistemi democratici occidentali, in genere è minore la capacità dell’esecutivo di cambiare così pesantemente l’orientamento politico dell’equivalente della Corte suprema, com’è ad esempio la nostra Corte costituzionale. Paradossalmente, quello americano resta il sistema in cui l’elezione conta di più. Si eleggono i giudici federali, distrettuali, i pubblici ministeri, gli sceriffi di contea e i vari capi della polizia locale.
È proprio perché costruito su basi di democrazia attiva, partecipata, che oggi il sistema politico americano appare così in difficoltà. C’è un problema di strumento della democrazia. È vero che, dal mio punto di vista, la democrazia resta il modo più gentile che sia mai stato inventato per gestire il potere nei confronti delle persone. Però presuppone anche una partecipazione attiva, una capacità di discernimento, non tanto di ragionamento ma di distinguere, per esempio, le notizie vere da quelle false. E noi sappiamo che tutto questo è molto in crisi. Sappiamo che il denaro ha capacità di dotarsi dei mezzi per produrre informazione verosimile e non vera. L’età è il fattore che conta meno. Noi europei, italiani in primis, siamo un paese di vecchi, eppure abbiamo bullizzato Biden perché anziano. Vero che tra quattro anni ne avrebbe 85, e certo non sono pochi, ma tu puoi essere una minaccia per la democrazia del tuo paese anche a vent’anni. Ricordo che, a parte Renzi, Mussolini è stato il più giovane presidente del Consiglio in Italia…
Sulla questione della lucidità o meno di Biden, solo una visione naif della politica può pensare che non esistano quelle che Sabino Cassese chiama “le strutture del potere” in un bellissimo libro-intervista con Alessandra Sardoni (Laterza, 2023). Esiste in tutte le democrazie. Non si tratta mai, nemmeno in Usa, di un uomo solo al comando. È più importante la capacità di scegliere collaboratori e la capacità della macchina di non essere dirottabile a piacimento. Dobbiamo immaginare la democrazia come un aeroplano, che ha certamente i piloti, i quali fanno delle manovre, però a volte questi possono sbagliare, ma c’è tutto un sistema di auto-pilotaggio, di inerzia della macchina, che contrasta l’eventuale errore di valutazione del pilota medesimo. Quindi non è il cosiddetto Deep State, che agli italiani piace molto perché tutto quello che sa di complotto attrae. Gli stessi vertici della sicurezza possono essere un contrappeso a tendenze antidemocratiche in Usa. Si pensi a quando Trump, durante la sua presidenza, minacciò di impiegare l’esercito per fermare le proteste contro la morte di George Floyd. Eravamo ai primi di giugno del 2020. L’allora capo del Pentagono, Mark Esper, si disse apertamente contrario all’uso dell’Insurrection Act, a cui Trump aveva minacciato di far ricorso, e disse chiaramente che suo obiettivo era mantenere il Dipartimento della Difesa «al di fuori della politica». Inoltre, sempre Esper chiese al segretario dell’esercito, Ryan McCarthy, di avviare un’indagine sull’uso di un elicottero militare della Guardia Nazionale filmato mentre sorvolava a bassa quota i manifestanti vicino alla Casa Bianca con l’apparente scopo di intimidirli e disperderli. Anche se noi possiamo pensare che tendenzialmente i militari abbiano un atteggiamento più conservatore che progressista, più tradizionalista che innovatore, non va dimenticato che tra le componenti conservatrici e tradizionaliste della cultura politica americana c’è il rispetto della costituzione. Mentre tra gli elementi innovativi introdotti da Trump c’è l’assalto al Campidoglio. Non è che le cose nuove, solo perché nuove, siano sempre e comunque foriere di apertura o consolidamento della democrazia.
La più probabile corsa elettorale per la prossima estate è Biden vs Trump. Potrebbe essere persino un vantaggio per Biden, perché il suo avversario polarizza molto. Importante a quel punto sarà, per i democratici, scegliere un candidato vice-presidente che dia garanzie sull’eventualità di dover subentrare nell’arco del prossimo quadriennio presidenziale ad un Biden, magari in difficoltà per motivi di salute. La figura del vice-presidente è stata rilevante nella storia degli Stati Uniti. Si pensi solo a Lyndon Johnson, che nel 1960 aveva portato a Kennedy i voti del Sud e poi si ritrovò d’improvviso al posto di comando a fine novembre di tre anni dopo, diventando il presidente, rieletto per un secondo mandato, di quella grande stagione di riforme sul piano dei diritti civili e sociali che va sotto il nome di “Great Society”.
- Passiamo ora al capitolo Russia. E qui non possiamo non prendere le mosse dalla morte, molto probabilmente indotta dalle autorità carcerarie, di Aleksej Naval’nyj, l’oppositore numero uno di Putin. Che cosa ci dice sull’attuale situazione politica russa, non solo interna, ma anche con riferimento alla guerra in Ucraina?
Intanto, nonostante quello che si scrive sui giornali, la guerra ha fatto crescere la qualità della democrazia in Ucraina. Potrebbe sembrare strano, ma è così. L’Ucraina ha fatto passi in avanti sul piano democratico, nonostante sia impegnata in una guerra di sopravvivenza, e oggi è più vicina all’Europa. In Russia avviene esattamente l’opposto. La guerra è stata l’occasione per dare un’ulteriore torsione autoritaria all’interno, secondo uno schema classico. Questo ci dice che il ricorso alla violenza nei confronti dell’esterno non è mai qualcosa che si consuma senza conseguenze in termini di impiego della violenza anche all’interno. Questo lo vediamo pure nella drammatica vicenda israelo-palestinese. Al di là del fatto gravissimo del massacro del 7 ottobre e delle intenzioni di Hamas, che da sempre vuole distruggere lo Stato ebraico, la brutalità della reazione degli ultimi mesi, ma, più in generale, la politica di Netanyahu e la conduzione di una guerra di tipo coloniale nei confronti della Palestina hanno avvelenato la democrazia israeliana. Esattamente lo stesso che accadde in Francia negli anni Cinquanta con la guerra in Algeria, per cui si arrivò ad un passo dal vedere la democrazia transalpina cadere rovinosamente. Fu salvata da De Gaulle con un intervento extra ordinem e che dette vita ad un potere costituente. In Israele c’è invece osmosi tra vertici militari e potere politico, aspetto che era invece assente nella Quarta Repubblica francese. Un intervento extra ordinem si può avere solo quando le forze armate sono non osmotiche rispetto al potere politico.
Putin ha dimostrato di avere le idee molto chiare: l’imperialismo, anzitutto. Lo dichiara esplicitamente. Fa affiggere manifesti in cui si proclama che non esistono confini naturali per la Russia, che la Russia è ovunque vi sia un russo. Sono le stesse cose che diceva Hitler. In passato mi sono imbattuto in polemiche per il fatto di aver detto che “Putin è come Hitler”. Non mi riferisco ovviamente alla presenza di un programma di sterminio genocida. Essere come Hitler, nello specifico di questo paragone, significa per me essere qualcuno che mente sistematicamente per poi aggredire e conquistare territori su territori, invadendo. Ci si dimentica che la sera prima dell’invasione dell’Ucraina Putin disse a Macron che non c’era alcuna intenzione russa in tal senso. Il leader russo ha una formazione di non-verità continua. Fa un uso smodato della violenza. È di una freddezza glaciale.
Il 12 agosto del 2000 nel mare di Barents, durante un’esercitazione, il sottomarino nucleare russo K-141 Kursk a causa di un’esplosione interna si arenò sul fondo del mare a 108 metri di profondità. Nel mio libro Titanic ho ricordato di quanto l’atteggiamento di Putin, che era agli inizi della sua presidenza, si mostrò agghiacciante per il rifiuto totale di qualsiasi assistenza al Kursk, tanto che non andò nemmeno alla base navale di San Pietroburgo per non associare la propria immagine ad un fallimento di quel tipo. Putin continuò le sue vacanze in una località balneare a Sochi e autorizzò la Marina russa ad accettare l’assistenza britannica e norvegese solo dopo che erano trascorsi cinque giorni dall’incidente. Due giorni dopo, i subacquei britannici e norvegesi riuscirono ad aprire un portello per il tronco di fuga nel nono compartimento allagato del sottomarino, ma non trovarono sopravvissuti. In seguito la squadra di salvataggio recuperò lo scafo, tranne la prua, compresi i resti di 118 marinai che furono poi sepolti in Russia. Come ricordò Margaret Thatcher, fu incredibile la totale indifferenza, l’assoluta mancanza di empatia manifestata pubblicamente da Putin in quei giorni nei confronti del dramma vissuto dai marinai imprigionati sotto il mare e del dolore provato dalle loro famiglie. Putin è questo. È un uomo addestrato a fare la spia in un sistema totalitario. Non è Bush senior, che è stato per un anno direttore della CIA, in un normale, trasparente cursus honorum di un politico in carriera. Non è Elisabetta Belloni, ambasciatrice, che è diventata nel 2021 direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Con Putin parliamo di uno che è cresciuto e si è formato all’interno del Kgb, che è l’equivalente della Gestapo.
- Facendo riferimento proprio al suo libro Titanic (Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, il Mulino, Bologna 2022), come vede questo 2024 appena iniziato dal punto di vista dello stato di salute delle democrazie occidentali? Date le guerre in corso, dall’Ucraina al Medio Oriente, la sequenza di cruciali appuntamenti elettorali, dal rinnovo del Parlamento europeo alla presidenza americana, parrebbe essere un anno rischioso per la stabilità democratica internazionale. Che ne pensa?
Potrei cavarmela con una battuta e dire che è un anno bisestile. Al di là dell’astrologia, è vero: abbiamo le elezioni negli Stati Uniti che sono cruciali perché determineranno la possibilità o meno di riavere un presidente isolazionista, che sarebbe un anacronismo folle in un sistema che resta finanziariamente, economicamente, tecnologicamente interconnesso, iper-globalizzato. E con attori all’interno del sistema economico-finanziario che sono estremamente problematici da contenere. Si pensi ad uno come Elon Musk, che attacca e stacca i satelliti ai russi, agli ucraini, secondo la propria personale convenienza, che manipola la rete di X, ex Twitter, sospendendo la vedova di Naval’nyj e non tutti quei troll che imperversano e spandono violenza verbale inaudita. Da quando c’è Musk niente è sufficientemente offensivo, tranne la vedova del dissidente russo che accusa Putin di essere un assassino. Questo fatto inquieta.
Secondo me il 2024 sarà un anno cruciale. Come lo fu il 1938. Quell’anno fatidico produsse le condizioni che resero il conflitto mondiale inevitabile. Con questo non sto dicendo che allora ci sarà inevitabilmente una guerra di portata mondiale. Anzi. Intendo affermare che, se saremmo in grado di muoverci con questa consapevolezza storica, se sapremmo svegliarci dall’apatia oggi così diffusa, potremmo evitare il ripetersi di un esito analogo, assolutamente tragico. La responsabilità di queste scelte grava principalmente sulle spalle delle élites politiche e intellettuali. Queste ultime, soprattutto in Italia, sembra siano rimaste legate a prospettive irenistiche che ricordano un po’ gli anni Trenta e un po’ il pacifismo pro Stalin degli anni Cinquanta. È anche vero che spesso i protagonisti del dibattito pubblico italiano sono molto ȃgés e quindi quasi inevitabilmente portati a ragionare secondo certi schemi del passato. Con l’eccezione di Cassese, sempre molto lucido, è molto più difficile avere a che fare con degli intellettuali pubblici anziani che con decisori pubblici anziani. Sempre per quel motivo sopra indicato: il politico anziano può – deve in contesti di pluralismo politico e istituzionale – avvalersi di collaboratori e consulenti più giovani, mentre l’intellettuale no, non c’è nessuno a correggerlo.
Quanto all’Europa, molto dipende dall’esito delle presidenziali americane, al di là delle elezioni del Parlamento di Strasburgo. Si parla molto del disimpegno di Trump nei confronti della Nato. Secondo me, bisogna fare un ragionamento concreto: è estremamente improbabile che Trump possa distruggere l’Alleanza Atlantica, ma è altamente possibile che possa rallentare e attenuare la percezione dell’impegno americano sull’Atlantico. In fondo lo aveva fatto anche Obama, sia pure in forma diversa. Come europei dobbiamo essere in grado di fronteggiare la possibilità di una rielezione di Trump e l’adozione di una politica neoisolazionista, ma dobbiamo anche essere consapevoli che il crescere della rilevanza cinese e dell’alleanza tra Cina e Russia inevitabilmente rende ancora più necessario il Burden sharing, ovvero il rispetto degli impegni assunti in occasione del Summit Nato tra capi di Stato e di governo, svoltosi in Galles nel settembre 2014, poi ribaditi a Varsavia nel 2018 con il cosiddetto Defence Investment Pledge (DIP). Il Burden sharing richiedeva lo sforzo di ciascuna nazione alleata nel tendere, proprio entro quest’anno, il 2024, al raggiungimento delle cosiddette “tre C”, ovvero dei seguenti obiettivi: il 2% delle spese per la difesa rispetto al Pil (“cash”); il 20% della quota del budget della Difesa da destinare agli investimenti (“capabilities”); il contributo a missioni, operazioni ed altre attività consimili (“contributions”). Non è un caso che il Bundestag abbia approvato un legge di bilancio per quest’anno che prevede circa 71,8 miliardi di euro di stanziamenti per la difesa. Con queste risorse la Germania raggiunge per la prima volta l’obiettivo di destinare alle spese militari il 2% del Pil.
Credo sia necessario un cambiamento culturale in materia di politica estera, in Italia come in Europa. Il liberalismo non va inteso come l’opposto del realismo, ma semmai come una dottrina, tanto in politica internazionale che interna, che partendo dalla realtà cerca delle modifiche incrementali. Non si accontenta del reale come dato immanente, auto-propulsivo, non crede nell’eterno ritorno, ma che vi sono cicli dal moto sinusoidale su cui l’uomo, in quanto essere razionale, può intervenire e può farlo sulla base di nobili ideali che ne orientano l’agire. Il realismo odierno è spesso sinonimo di rinuncia, di ricerca del quieto vivere. Realismo come opportunismo. Con la vicenda ucraina il realismo più cinico e l’utopismo più antioccidentale si sono fusi.
Non è forse un caso che uno degli intellettuali pubblici oggi più rilevanti sia l’attore comico Ricky Gervais, britannico, il quale di recente ha sottolineato come la minaccia più grave per la libertà d’espressione provenga dall’estremismo, di destra e di sinistra. Le due ali estreme fanno il giro e s’incontrano. Se sei moderatamente conservatore oppure leggermente di sinistra, vieni preso egualmente di mira perché non estremista. I social amplificano questa deriva culturale. Lo spazio di cambiamento è l’ambito in cui siamo chiamati ad intervenire come esseri umani. I nostri antenati, i primi ominidi, sono scesi dagli alberi alcuni milioni di anni fa perché non erano sufficientemente realisti. I nostri progenitori sono andati a vedere cosa c’è, con prudenza, con attenzione, altrimenti ci saremo estinti alla seconda generazione. Ma è da quel momento che è iniziata la storia umana.
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