Dopo la “flat” tax con tre aliquote, e la “flat” tax per le partite Iva sotto i 65 mila euro, la “flat” tax all’italiana potrebbe assumere una nuova incarnazione: quella di un’imposta al 15 per cento sui redditi da lavoro dipendente fino a 55.000 euro. Al momento si tratta solo di una proposta, ma vista la fonte (Matteo Salvini) e il contesto in cui essa è stata avanzata (l’incontro al Viminale con le parti sociali) merita di essere presa sul serio.
Qualunque taglio delle tasse è positivo per un Paese ad elevata pressione fiscale che per giunta l’ha vista tornare a crescere nell’ultimo anno, ma il modo in cui lo si attua ha conseguenze. In principio, l’idea di Salvini sembra essere quella di operare una riduzione sostanziale delle imposte per le famiglie coi redditi medio-bassi, da perseguire attraverso l’accorpamento di tutte le deduzioni e detrazioni esistenti. Secondo il leader della Lega, la manovra porterà un beneficio complessivo di circa 12-13 miliardi a 40 milioni di contribuenti. Assumendo che si tratti di risorse aggiuntive rispetto alle attuali deduzioni e detrazioni, in media farebbero 325 euro pro capite.
Ci sono tre problemi. Il primo è legato al disegno della riforma. Se l’aliquota del 15 per cento fosse calata sic et simpliciter nell’attuale sistema fiscale, sulla scorta di quanto fatto per le partite Iva, i contribuenti avrebbero un enorme incentivo a mantenersi al di sotto della soglia dei 55 mila euro, perché – superandola – il carico fiscale si moltiplicherebbe di colpo, col passaggio repentino a un’aliquota marginale del 41 per cento. Pertanto, si finirebbe proprio per disincentivare quell’impegno maggiore, quel lavoro in più, su cui riposano le speranze di maggior crescita per le quali si prova a ridurre le imposte.
La seconda questione riguarda una ulteriore perdita di razionalità del nostro sistema tributario, ormai privo di qualsiasi forma di equità orizzontale e verticale: persone con pari reddito possono essere assoggettate ad aliquote totalmente diverse, e persone con redditi più alti possono pagare aliquote più basse di altre con redditi inferiori. Altro che polemiche sulla “progressività”: l’unica cosa che rimane progressiva del fisco italiano è la sua sclerotizzazione.
Infine – e più importante – c’è il finanziamento della manovra: una riduzione di tasse non deve solo sembrare una riduzione delle tasse. Deve anche esserlo. Fermi restando i vincoli di finanza pubblica, questo implica un taglio della spesa di cui, al momento, non abbiamo né indizi né segnali. Se l’operazione ha pura natura redistributiva, allora rischia di produrre tanto rumore per niente: qualcuno pagherà un po’ di meno, altri un po’ di più, ma nel complesso il paese continuerà ad affondare sotto il peso dello Stato.
Nelle prossime settimane vedremo se questa proposta maturerà oppure sarà l’ennesimo ballon d’essai. Nell’attesa, per noi particolarmente frustrante, che anche qualcun altro si alzi e dica che, se non è flat, non è flat tax.
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