Lo spirito di Kyïv è quello di chi sa di essere sopravvissuto ai mongoli e agli zar, e anche all’Unione Sovietica, quello che sa che resterà anche dopo quest’altra campagna criminale russa.
Christian Rocca
L’Ucraina non è ancora morta, così recita il primo verso di una poesia patriottica risalente agli anni Sessanta dell’Ottocento divenuto, dopo la proclamazione dell’indipendenza, il testo dell’inno nazionale.
Da quando più di mezzo secolo fa, l’etnografo e poeta Pavlo Čubynskyj scrisse queste parole, che due anni dopo il sacerdote greco-cattolico Mychajlo Verbyc’kyj avrebbe messo in musica, il paese dei girasoli ha vissuto l’oppressione zarista; è stata terra contesa tra le vicine potenze imperiali e poi tra le nazioni nate del loro dissolvimento; teatro degli scontri tra le varie componenti della Rivoluzione in un tutti contro tutti tra esercito zarista, bolscevichi, rivoluzionari ucraini, nazionalisti ucraini, anarchici e eserciti improvvisati da vari “signori della guerra” che rapidamente si formavano e altrettanto rapidamente scomparivano; quindi il holodomor e le repressioni staliniane; poi di nuovo e campo di battaglia questa volta dei totalitarismi del Novecento; la repressione e le politiche coloniali sovietiche del dopoguerra; l’incidente nucleare di Čornobyl’ e ora la nuova aggressione russa, immotivata e criminale. Eppure l’Ucraina non è ancora morta.
Già, l’Ucraina non è ancora morta, ma quanti di noi, noi che non abbiamo avuto dubbi sulla scelta di campo, che abbiamo manifestato, firmato appelli a sostegno dell’invio oltre che di aiuti umanitari anche di armi all’aggredito, invocato boicottaggio per l’aggressore e chiesto il deferimento di Putin al tribunale dell’Aia, credevano veramente che l’esercito russo potesse essere fermato? Siamo sinceri: pochissimi e, non ho difficoltà ad ammetterlo, io non ero tra questi.
In quel fine febbraio 2022 in molti pensavamo di essere di fronte all’eroica resistenza di un popolo ma anche che si trattasse di un eroismo senza speranza e destinato a soccombere nel giro di pochi mesi, in altre parole Kyïv 2022 sarebbe stato solo un drammatico remake di Budapest 1956, Praga 1968, Groznyj 2000 e via dicendo…
Invece questa volta è andata diversamente. Dapprima pensavo ad un’autoillisione, ma poi le notizie dal fronte e, soprattutto, la conoscenza di alcuni ucraini che da tempo vivono nel nostro paese e di altri appena giunti mi ha portato a dubitare un po’ di quella che in allora era per me una triste certezza. Mi colpiva il fatto che tutti loro, senza differenze di genere, età o provenienza, parlassero lo stesso linguaggio e non era certo il linguaggio della resa. In tutti si percepiva forse non la certezza ma senz’altro la speranza che un giorno, prima o poi, sarebbero tornati a vivere in un paese libero, unita alla consapevolezza che, a migliaia di kilometri di distanza, i loro connazionali stavano combattendo non solo per la loro patria, la loro giovane democrazia e la loro libertà ma anche per noi, per l’Europa tutta.
Pochi osservatori riuscivano a cogliere indizi controcorrente ed a vedere che poco alla volta, giorno dopo giorno, si stava concretizzando un qualcosa di diverso dai bollettini di guerra del Cremlino, un qualcosa che a un certo punto si sarebbe manifestato in tutta la sua evidenza, improvviso e incontestabile: “il miracolo sul Dnipro”. In realtà sappiamo tutti che non fu un miracolo e che a spiegarlo non bastano gli aiuti e le armi fornite dall’Occidente, il successo della Resistenza ucraina è dovuto alla mobilitazione di una società civile determinata e consapevole oltre che eroica e coraggiosa, cosa che non si ottiene certo in pochi giorni di fronte a una drammatica emergenza ma che è preesistente, sedimentata nei secoli e consolidata.
Per questo ora sento il dovere di scusarmi con gli amici ucraini, chiedere loro scusa per non aver capito, per non aver riconosciuto subito la loro volontà di continuare a vivere da persone libere, il rifiuto di arrendersi, o più chiaramente, come ho letto su uno striscione durante un sit-in, “di inginocchiarci oggi per essere finiti con un colpo alla nuca domani”.
E per farlo seriamente, devo capire di che cosa mi devo scusare, devo chiedermi a che cosa è dovuto il mio abbaglio iniziale. L’ignoranza di quali fattori mi ha impedito di sottovalutare le capacità di resilienza e resistenza della popolazione ucraina?
Posso escludere di essere stato vittima della narrazione di Putin secondo cui l’Ucraina non ha una storia e, di conseguenza, non esiste. Esclusione dovuta non tanto al fatto di considerarmi abbastanza vaccinato contro la propaganda dei totalitarismi essendo nato e cresciuto in una casa in cui ho trovato l’opera di Gaetano Salvemini e i Quaderni di Giustizia e Libertà, ma soprattutto per il fatto che il delirio storiografico diffuso da Mosca è semplicemente insostenibile di fronte alla realtà dei fatti, perché “L’Ucraina, invece, una storia ce l’ha, questo è il punto” come scrive indignata la poetessa Oksana Zabužko (Il viaggio più lungo). E ha tutte le ragioni di indignarsi, perché il Mar Nero, la sua costa nord, le steppe, le foreste e i fiumi che si incontrano procedendo verso settentrione e le genti che lì hanno vissuto eccome se hanno una storia, e che storia! Una storia più che millenaria e non si può dire una storia che guarda all’Europa, perché è una storia europea.
C’è un meme che circola nei siti russofoni, riportato da Ann Colin Lebedev (Jamais frères? Ukraine et Russie: une tragédie postsoviètique), in cui si può possono vedere, allineate su tre righe le foto, una per mandato, dei presidenti russi, bielorussi e ucraini. Sulla riga della Bielorussia vediamo sempre la stessa persona, Lukašėnka. Su quella della Russia la sfilza delle immagini di Putin è inframezzata da una foto del suo burattino Medvev. Solo la riga dei presidenti ucraini comprende sei foto diverse, di cui solo una compare due volte. Sotto le immagini un commento stringato ma chiarissimo: “Tutto quello che dovete sapere sui regimi politici”. Vero, è tutto lì, ma questo è il quadro della situazione, non è una spiegazione, quello che io cercavo di capire sono le origini, le cause e gli eventi che hanno portato a questa differenza.
Le considerazioni che seguono non hanno alcuna pretesa di essere un riassunto della storia ucraina ma soltanto uno stimolo a riflettere sul perché, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, questo paese, pur provenendo da condizioni per certi versi analoghe, non è diventato un’autocrazia basata sul petrolio e le mafie, come la Russia, né uno stato fantoccio, come la Bielorussia, e neppure un’arena insanguinata da scontri identitari e nazionalistici, come capitò alla ex Jugoslavia.
Guida essenziale e preziosa per l’orientamento e la ricerca sono stati i lavori degli storici Yaroslav Hrytsak, direttore dell’Istituto di studi storici dell’Università nazionale Ivan Franko di Leopoli (Storia dell’Ucraina dal medioevo a oggi), di Serhii Plokhy, direttore dell’Harvard Ukrainian Research Institute (Le porte d’Europa e Il ritotno della storia), di Simone Attilio Bellezza dell’Università del Piemonte Orientale (Identità ucraina) e di Simona Merlo dell’Università di Roma Tre (La costruzione dell’Ucraina contemporanea).
Lo studioso di Harvard dopo aver definito Erodoto il primo storico dell’Ucraina, giustifica tale affermazione raccontando della colonizzazione del Mar Nero e in particolare della Crimea da parte delle città-stato greche tra VII e Vi secolo a. C., soffermandosi poi, dopo aver citato le città di Teodosia e Chersoneso, le attuali Feodosia e Cherson, su Olbia Pontica, la più nota e prospera, sorta alla confluenza del Bug con l’estuario del Dnipro. In questa vivevano, sotto una forma di governo democratica sul modello delle polis, oltre diecimila abitanti. Emerge qui la vocazione di quelle terre a nord del mar Nero a rappresentare non solo il confine orientale e settentrionale d’Europa come sosteneva Strabone ma anche l’interfaccia di comunicazione e del commercio con questi spazi.
Nel medioevo Kyïv divenne la massima espressione di questo duplice ruolo, cerniera tra Oriente e Occidente e tra nord e sud in quanto sorgeva nel luogo in cui la più settentrionale delle vie carovaniere che collegavano la Cina all’Occidente europeo incrociava la via detta dai Variaghi ai Greci, quel sistema di fiumi e laghi che collegava il Baltico al Mar Nero di cui il Dnipro costituiva il tratto principale.
La città, grazie alla sua posizione geografica divenne uno dei centri commerciali più importanti d’Europa, i suoi mercanti erano organizzati in gilde e furono ben presto imitati dagli artigiani. I loro rappresentanti costituivano la veče, l’assemblea cittadina presieduta dal sindaco, che, nei grandi centri del principato, divenne un’importante istituzione politica fino ad aver voce in capitolo su questioni riguardanti la successione al trono.
Testimonianza dell’avvenuta e solida integrazione europea della Rus’ di Kyïv è la vicenda di Jaroslav il Saggio, principe dal 1019 al 1054, che sposò la figlia del re di Svezia Olof III, fece sposare uno dei suoi figli con la figlia dell’imperatore bizantino a conferma del legame con Costantinopoli e con una serie di matrimoni imparentò la sua famiglia con le case regnanti di Norvegia, di Polonia, di Ungheria e di Francia, tanto da guadagnarsi il titolo di “suocero d’Europa” con cui lo avrebbero soprannominato gli storici successivi.
Jaroslav non si occupava solo di matrimoni. Amante della cultura e dei libri, avviò una decisa politica di alfabetizzazione del suo regno con l’istituzione di scuole per il clero e per i laici a cui erano ammesse anche le donne. Fece arrivare maestri e libri dalla Bulgaria, libri che venivano tradotti, poi comparvero i primi testi originali e negli anni ’30 del secondo millennio comparve la prima cronaca di Kyïv, scritta probabilmente nella cattedrale di Santa Sofia fatta costruire dallo stesso Jaroslav. Notevole fu anche la sua opera di legislatore a cui di deve la prima codificazione del diritto comune realizzata in quelle terre e la traduzione di manuali di diritto bizantino. Grazie alle iniziative del sovrano la cultura bizantina si diffuse anche nelle altre città del regno, prima tra tutte Novgorod, di cui Jaroslav era stato principe per conto del padre, destinata a diventare la più orientale e una delle più importanti città della Lega Anseatica.
Negli anni ’50 del secolo scorso un altro docente di Harvard, il ceco Francis Dvornik (Gli Slavi. Storia e civiltà dalle origini al secolo XIII), dopo aver affermato che nella Rus’ di Kyïv “la letteratura slava antica raggiunse il suo apogeo e ispirò numerosi scritti originali di grande valore”, ne sottolineava l’apertura alle influenze occidentali unita al ruolo di collegamento culturale tra il mondo bizantino e l’occidente latino e questo valeva non solo per i testi teologici ma anche per quelli della letteratura classica e ellenistica.
A metà del XIII secolo, crisi dinastiche e invasione dei mongoli posero fine all’età d’oro del principato e alla sua unità territoriale, ma anche nei tempi successivi non mancarono esperienze storiche che favorirono uno sviluppo istituzionale e civile legato alla cultura dell’occidente europeo: dalla partecipazione delle principali città all’area del “diritto di Magdeburgo” che si estendeva verso est fino a Kyïv, al periodo in cui una porzione notevole del territorio ucraino era parte della della Rzeczpospolita, la confederazione polacco lituana, crogiolo di etnie, religioni, lingue e culture caratterizzata innanzi tutto per il suo spirito di tolleranza e, altra singolarità politica, per essere una monarchia elettiva.
Dell’età moderna si ricorda l’epopea dei cosacchi, per il fatto che eleggevano in assemblea il loro capo, per i Pacta et condiciones, del 1710, una sorta di Magna Charta del sič (fortezza) di Zaporižžja, considerata la prima costituzione del paese, e, soprattutto, per il loro spirito indomito e libertario, che divenne uno dei miti dell’identità ucraina tanto da comparire nell’inno nazionale: “E mostreremo che noi, o fratelli, siam di stirpe cosacca!”. Questo però non deve far dimenticare il nuovo risveglio culturale influenzato dal Rinascimento polacco e i progetti di riforma religiosa nel contesto dei processi di confessionalizzazione che stavano investendo tutta l’Europa e fu così che prima Ostroh e poi Kyïv divennero i centri più importanti dell’erudizione ortodossa.
Arrivarono poi i secoli bui della dominazione russa, e qui scopro il mio errore di valutazione, dovuto a ignoranza. Ignoranza figlia della pigrizia mentale che si accontenta di dare per certo quello che sembra ovvio, oppure alla fretta che porta a conclusioni del tutto arbitrarie ma che, a prima vista, sembrano accettabili. Insomma, quei meccanismi mentali che mi avevano portato a pensare gli ucraini come un popolo al quale più di duecento anni di oppressione avevano cancellato identità e storia, e, soprattutto, fiaccato ogni volontà di resistenza. Presto mi resi conto di quanto stavo sbagliando! Non dimenticherò mai le parole di Oksana Zabužko lette nella sua opera già citata:
“Ed è importante rendersi conto di questo: dal 1847 fino al 1991 (quando, finalmente, il progetto dei cirillo metodiani trionfò, anche se non proprio come l’avevano pensato loro) l’Ucraina visse e si sviluppò in uno stato di costanze resistenza” (…) “La nostra stessa esistenza, nonostante centocinquant’anni di tentativi sistematici da parte dell’impero del male per fare di noi e loro un solo popolo non è un dono della sorte o una grazia ricevuta: è il risultato della nostra vittoria contro i nostri assassini”.
Zabužko fissa come data di inizio della resistenza il 1847, anno dell’arresto, da parte della polizia zarista, dei membri della Confraternita dei Santi Cirillo e Metodio, una società segreta di ispirazione democratica, nazionale e repubblicana e per questo considerata frutto della “propaganda di Parigi”, oggi Putin li chiamerebbe “agenti stranieri”.
In Ucraina, come in gran parte del continente europeo si stavano diffondendo le idee dell’Illuminismo che alimentavano il nazionalismo romantico e liberale, in cui lo sguardo sulla storia, sulla lingua, la letteratura e le tradizioni popolari si univano alle speranze per un futuro di indipendenza e libertà. Inevitabilmente presso i tiranni si diffondeva invece la paura del contagio e al motto della Rivoluzione Francese, liberté, egalité, fraternité, il ministro dell’istruzione moscovita, Sergej Uvarov contrapponeva la sua triade “nazionalismo, ortodossia e autocrazia”.
Siamo in pieno Risorgimento ucraino che ha visto protagonisti un gruppo di storici e letterati: prima i poeti Taras Ševčenko, Pantelejmon Kuliš e lo storico Mykola Kostomarov, seguiti poi da Ivan Franko, Lesja Ukraïnka, che nella sua opera paragonava la sofferenza degli ebrei durante la cattività babilonese a quella del suo popolo prigioniero dell’impero zarista, e Mychajlo Drahomanov che, considerndo la questione ucraina come parte di un più generale progresso umano verso la democrazia, concepì l’idea di una federazione europea che includesse l’Ucraina, a dimostrazione che il termine Risorgimento è usato a ragion veduta (sull’influenza di Mazzini in Ucraina mi permetto di consigliare gli interessanti articoli di Enrico Martelloni su pensalibero.it). Questo è anche il periodo di incubazione della letteratura ucraina moderna, malgrado le dichiarazioni del ministro degli interni russo Valuev Peter secondo cui “l’ucraino non è mai esistito, non esiste e non esisterà” e l’ukaz di Ems con cui, nel 1876, lo zar Alessandro II vietava pubblicazione e circolazione di opere scritte in lingua ucraina e ne aboliva l’insegnamento nelle scuole. Inoltre a fine secolo comparvero le prime iniziative femministe grazie all’attivismo di Natalia Kobrynska e Olha Kosač, madre di Lesja Ukrainka.
Poi arrivò la Rivoluzione. Per ragioni di spazio e, soprattutto, accogliendo l’avvertimento di Hrytsak secondo cui “La rivoluzione ucraina è come l’opera di Verdi Il trovatore: è impossibile raccontare la sua complicata trama senza smarrirsi oppure omettere qualche importante episodio” mi limito a ricordarne due aspetti significativi nell’ottica del nostro discorso: l’aggressione dei bolscevichi alla Repubblica Socialista Ucraina di fine 1917 con l’instaurazione di un governo fedele a Mosca e i tre anni di autogoverno anarchico, dal 1918 al 1921, nel sud est del paese guidato da Nestor Machno che combatté sia contro l’Armata Rossa sia contro quella Bianca controrivoluzionaria.
Venne poi il tempo delle lunghe ombre nere che avvolsero quasi tutta l’Europa continentale, anche il nazionalismo ucraino fu contagiato dalla nefasta influenza prima di Mussolini e poi di Hitler, fu Dmytro Doncov con la sua teoria del “nazionalismo attivo”, a dare il via al progressivo abbandono di buona parte movimento dagli ideali liberali e democratici verso il terrorismo, l’antisemitismo e il collaborazionismo.
Pagine nere che nessun storico intellettualmente onesto potrà mai negare. Ma decontestualizzare tutto ciò come se si trattasse di una singolarità riscontrabile solo nella storia ucraina e da qui fornire una spiegazione al fatto che un certo numero di ucraini combatterono a fianco della wehrmacht e, che un numero ancor più numeroso accolse l’invasione nazista come una liberazione, senza chiedersi come questo sia potuto accadere e sorvolare che tutto ciò avveniva alla fine di un decennio iniziato con l’attacco all’intelligencija, passato alla storia come il “Rinascimento fucilato”, concretizzatosi in una serie di processi farsa che portarono a quindici condanne a morte e a quasi duecento condanne al carcere o al confino, un decennio che ha visto gli almeno quattro milioni di morti del Holodomor e la ripresa delle purghe staliniane: nel biennio 1937/38 duecentosettantamila ucraini arrestati di cui quasi la metà condannati a morte, e infine tacere su quelli che combatterono contro i nazisti e sui più di duemilacinquecento riconosciuti dallo stato di Israele quali “Giusti tra le nazioni” si tratterà anche di un’impropria generalizzazione e di un modo superficiale e ideologico di fare e raccontare la storia ma soprattutto è malafede.
Malafede e infamie utilizzate oggi per accusare di nazismo un intero paese nel cui parlamento siede un solo rappresentante dell’estrema destra e che ha eletto a suffragio universale un presidente ebreo con una percentuale di voti superiore al 70%.
Senza contare che, come scrive Bellezza, “il dibattito interno non si chetò mai e contribuisce a spiegare tanto la persistente frammentazione del movimento nazionale ucraino (anche durante la seconda guerra mondiale) quanto la successiva svolta in senso democratico”, in proposito ricordiamo le formazioni partigiane che si costituirono per combattere sia contro i nazisti sia contro i sovietici e per l’indipendenza dell’Ucraina e che, alla fine della guerra, come ha scritto Hrytsak “ci fu un’evoluzione dal nazionalismo alla Doncov verso la socialdemocrazia”.
Il nazionalismo democratico sopravvissuto come un fiume carsico alle politiche culturali zdanoviane, alle deportazioni e alle repressioni del periodo staliniano riemerse al tempo del “disgelo” chruščëviano e si saldò progressivamente col dissenso sovietico. Protagonista dei primi fermenti fu la generazione degli intellettuali degli anni Sessanta, detti šistdesjatnyky, un movimento culturale e creativo, diffuso in gran parte dell’Urss che inizialmente mirava esclusivamente alla libertà di espressione e a umanizzare il sistema, che in Ucraina assunse anche carattere nazionale distinguendosi però dal nazionalismo di destra. Questa posizione impolitica non riuscì a reggere alla fine del “disgelo” decretata dall’ascesa di Brežnev e fu proprio in quegli anni che la contestazione si fece più aperta e coraggiosa come accadde a Kyïv, il 4 settembre del 1965 alla presentazione della prima del film Le ombre degli avi dimenticati del regista armeno Sergej Paradžanov, quando il critico Ivan Dzjuba invece di parlare del film comunicò al pubblico che molti ragazzi erano stati arrestati e iniziò a leggere l’elenco dei loro nomi spalleggiato da altri due giovani che insieme a lui diventeranno protagonisti della nuova Ucraina: il giornalista V’jačeslv Čornovil e lo studente Vasyl Stus che urlò: “Devono protestare tutti. Oggi arrestano gli ucraini, domani gli ebrei, poi sarà la volta dei russi!” ottenendo anche la soidarietà del regista.
Dzjuba si rese protagonista anche l’anno successivo durante una manifestazione non autorizzata a Babyn Jar in cui intervenne con un discorso contro l’antisemitismo e la xenofobia e presentò la sua lotta come “un obbligo comune di fronte alle vittime del dispotismo, di fronte alla terra ucraina e all’intera umanità”.
L’evento costituì un passo decisivo per il riavvicinamento tra ebrei e ucraini come fu decisiva, l’esperienza del gulag in cui gli questi ultimi rappresentavano la maggioranza dei deportati. In quelle drammatiche circostanze si saldarono i rapporti tra ucraini, ebrei e tatari, tra nazionalisti e dissidenti, e tra dissidenti ucraini e quelli provenienti dalle altre repubbliche sovietiche. Fu la presa di coscienza di un destino comune che gettò le basi del nuovo nazionalismo civico, che avrebbe ispirato il primo articolo della costituzione del 1996 che con il termine “popolo” definisce “i cittadini dell’Ucraina di tutte le nazionalità”.
Da allora, malgrado le repressioni dei primi anni Settanta in tutto il territorio sovietico, fu un fiorire di iniziative, pubblicazioni clandestine, samizdat, circoli, associazioni informali, spesso in stretta relazione con analoghe iniziative sorte nel resto dell’Urss, di cui mi limito a elencare le principali: il libro Internazionalismo o russificazione? di Dzjuba, la Lettera della gioventù creativa di Dnipropetrovs’k (1968), i cinque numeri del “Messaggero ucraino” (Leopoli 1970/72) divulgati anche in Occidente, la fondazione del Gruppo ucraino di Helsinki (1976), il Club di studi culturali (1987), la Società per la lingua ucraina (1988), l’Unione democratica ucraina (1988) collegata alla quasi omonima associazione moscovita, le prime sezioni di Memorial a Kyïv e Odessa (1989). Non va dimenticato il ruolo della controcultura hippy, presente a Leopoli sin dagli anni Sessanta, della musica rock e del movimento ambientalista che dopo il disastro di Čornobyl’ si organizzò con la costituzione del gruppo Mondo verde. La gestione dell’incidente nucleare da parte del potere centrale, l’esclusione delle autorità locali da ogni decisione, il silenzio di due settimane su quanto stava succedendo, la mancata soppressione dei festeggiamenti del primo maggio a neppure una settimana dell’esplosione resero manifesto il disinteresse totale per la salute e per i diritti dei cittadini e misero a nudo il rapporto coloniale tra Mosca e Kyïv, tanto che il poeta Ivan Drač in una disamina dei rapporti con il potere sovietico parlò di “etnocidio virtuale” e “Čornobyl’ spirituale”.
Sul finire degli anni Ottanta, ritroviamo Drač, insieme a Čornovil e altri šistdesjatnyky, tra i fondatori del Movimento Nazionale Ucraino (chiamato semplicemente Ruch, ossia movimento) ispirato a Solidarność e al movimento indipendentista lituano, vera e propria organizzazione politica, alternativa al Partito Comunista, in cui confluirono studenti, intellettuali, artisti, dissidenti storici e ex detenuti politici.
Non si trattava ancora di un movimento di massa, per questo fu una sorpresa per tutti quello che avvenne il 2 ottobre del 1990, quando un gruppo di studenti si radunò in piazza Rivoluzione di Ottobre (quella che poi si chiamerà piazza Indipendenza ma passerà alla storia come Majdan), e iniziarono uno sciopero della fame. Tra le loro istanze spiccava il rifiuto della firma del nuovo trattato dell’Unione Sovietica. In pochi giorni scesero in piazza quasi centomila studenti, altri occuparono l’Università e il Politecnico, gli operai delle fabbriche e i minatori del Donbas minacciarono lo sciopero se il governo avesse rifiutato di ascoltare gli studenti. Era la Rivoluzione sul Granito (Bettiol Claudia, La Rivoluzione sul Granito, Il primo Majdan ucraino, www.eastjournal.net). Per la prima volta i contestatori non erano più soli ma avevano ricevuto il sostegno di gran parte dei loro concittadini, di quelli che, per dirla con le parole di Hrytsak, il primo dicembre dell’anno successivo al referendum sull’indipendenza piantarono “l’ultimo chiodo nella bara dell’ultimo impero” ma Čornovil ci ricorda che “senza lo sciopero della fame degli studenti, non esisterebbe un’Ucraina indipendente”.
Dieci anni dopo quella piazza diventata piazza Indipendenza, si riempì di nuovo di manifestanti contro le tendenze autoritarie della presidenza di Kučma, la crescente corruzione e i suoi legami economici, politici e mediatici, con gli oligarchi. Era scoppiato il kučmagate, il detonatore fu la pubblicazione da parte del leader dell’opposizione, il socialista Oleksandr Morozov, di registrazioni che documentavano le attività illegali del presidente e i tentativi per tacitare i media a lui ostili. Soprattutto da quei dialoghi si deduceva il suo coinvolgimento nell’assassinio di Heorhij Gongadze, il giornalista che aveva più volte denunciato la dilagante corruzione al vertice dello stato e le minacce alla libertà di espressione da parte del governo. Malgrado le imponenti manifestazioni e la campagna politica con lo slogan “Ucraina senza Kučma” il presidente non si dimise, ma la coscienza civile della popolazione ucraina aveva fatto un altro passo per evitare il destino verso cui erano incamminate Russia e Bielorussia: autoritarismo e corruzione crescenti, sorretti da menzogne, repressione e alleanza con le mafie, mentre Kučma, una volta ritiratosi dalla politica, scrisse un libro di memorie che intitolò L’Ucraina non è la Russia… Meglio tardi che mai.
Il resto è storia dei nostri giorni: i tentativi di Putin di interferire nella vita istituzionale Ucraina tramite il ricatto energetico e le azioni destabilizzanti; l’avvelenamento di Juščenko per favorire il candidato filorusso Janukovyč; la Rivoluzione arancione; la presidenza di Janukovyč e il tentativi di riportare il paese nell’orbita russa; l’Euromaidan, la fuga in Russia del presidente e l’inizio della guerra con l’occupazione della Crimea e del Donbas; l’avvicinamento all’Europa dei presidenti Porošenko e Zelens’kyj; la nuova aggressione russa e la sorprendente resistenza ucraina.
Forse non è il caso di utilizzare il termine sorprendente, non c’è nessuna sorpresa ma una storia millenaria attraverso cui genti che, pur condividendo lo stesso territorio erano diverse per vissuti storici, religioni e lingue, hanno attraversato momenti di splendore e momenti bui, involuzioni, oppressioni e tragedie, ma nonostante questo si sono scoperte un’unica nazione, unita dalla volontà di vivere da persone libere in un paese democratico all’interno dell’Unione Europea. Come già detto armi efficienti e esercito preparato hanno la loro importanza ma non sarebbero serviti a nulla senza il video in cui Zelens’kyj assicurava ai cittadini che sarebbe rimasto al suo posto, come al proprio posto, con rare eccezioni, sono rimaste le autorità locali, o senza le lunghe file davanti ai centri per arruolarsi nelle unità di difesa territoriale.
Penso sia impossibile non condividere l’”infinita ammirazione” provata da Christian Rocca (L’ultima barricata, linkiesta.it) mentre pranza nel ristorante “L’ultima barricata”, a due passi da Majdan e racconta che “la vita continua, Kyïv è aperta, intellettualmente viva, ogni sua singola pietra respira un febbricitante spirito rivoluzionario, come quello vissuto a Barcellona da George Orwell negli anni Trenta immortalato in Omaggio alla Catalogna” e, facendo anche mio il sentimento del direttore di Linkiesta, concludo le queste considerazioni, iniziate con il riferimento all’inno nazionale, con un verso tratto da un’altra canzone ucraina: Come non amarti mia Kyïv!
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